Bloch, “l’antisemita”

Un giorno eravamo sulla spiaggia, Saint-Loup e io, quando da una tenda di tela presso la quale stavamo seduti sentimmo provenire delle imprecazioni contro il brulicare di israeliti che infestava Balbec. “Non si può fare due passi senza incontrarne qualcuno, diceva la voce. Non che io sia, per principio, irriducibilmente ostile alla nazionalità ebraica, ma qui si eccede. Non si sente altro che: “Di’ un po’, Apraham, ho visto Chakop”. “Sembra d’essere in rue d’Aboukir”. Alla fine, l’uomo che tuonava in tal modo contro Israele uscì dalla tenda, e noi levammo gli occhi sull’antisemita. Era il mio compagno Bloch. Saint-Loup mi chiese immediatamente di ricordargli che si erano incontrati al Concorso generale, dove Bloch aveva riportato il primo premio, e più tardi in un’Università popolare.

Al massimo, mi capitava di sorridere riconoscendo in Robert la lezione dei gesuiti attraverso il disagio che il timore di offendere suscitava in lui ogni volta che uno dei suoi amici intellettuali commetteva un errore mondano, faceva una cosa ridicola alla quale lui, Saint-Loup, non attribuiva alcuna importanza, ma di cui sentiva che l’altro sarebbe arrossito se qualcuno se ne fosse accorto. E ad arrossire era Robert, come se fosse lui il colpevole, per esempio il giorno in cui Bloch, promettendogli di andare a trovarlo in albergo, aggiunse:

– Non posso sopportare d’attendere in mezzo al falso chic di questi grandi caravanserragli, e poi gli tzigani mi farebbero star male, perciò dite al “laift” di farli tacere e di avvertirvi senza indugio.

Personalmente, che Bloch venisse all’albergo non mi entusiasmava. Non era a Balbec da solo, purtroppo, ma con le sorelle, che contavano lì, a loro volta, diversi parenti e amici. Ora, questa colonia ebraica era più pittoresca che gradevole. Si verificava a Balbec quello che si verifica in certi paesi, la Russia o la Romania, dove i testi di geografia ci insegnano che la popolazione israelita non gode dello stesso favore e non ha raggiunto lo stesso grado di assimilazione che essa conosce, per esempio, a Parigi. Sempre insieme, senza alcuna infiltrazione d’elementi esterni, le cugine e gli zii di Bloch o i loro corregionali maschi e femmine, quando andavano al Casinò, gli uni per il “ballo”, gli altri deviando verso il baccarà, formavano un corteo in sé omogeneo e del tutto dissimile dalle persone che li guardavano passare e li rivedevano un anno dopo l’altro senza mai scambiare con loro un saluto, si trattasse del sodalizio dei Cambremer, del clan del primo presidente, o dei grandi e piccoli borghesi, o persino di qualche semplice commerciante parigino di granaglie le cui figlie, belle, fiere, beffarde, e francesi come le statue di Reims, non avrebbero mai voluto mischiarsi con quell’orda di ragazzone maleducate che spingevano l’ossessione della moda dei “bagni” sino ad aver sempre l’aria di tornare proprio allora dalla pesca dei gamberi o d’accingersi a ballare un tango. Quanto agli uomini, ad onta dello splendore degli smokings e delle scarpe di vernice, l’eccessiva caratterizzazione del loro tipo faceva venire in mente le ricerche cosiddette “intelligenti” di quei pittori che, dovendo illustrare i Vangeli o le Mille e una Notte, pensano al paese in cui si svolge la vicenda e danno a San Pietro o ad Alì Babà la faccia, né più né meno, del più grosso giocatore di Balbec.

[…]

Per quel che riguarda il “laift“, la cosa m’appariva tanto meno sorprendente in quanto, pochi giorni prima, Bloch m’aveva chiesto come mai fossi venuto a Balbec (mentre gli sembrava affatto naturale, al contrario, di trovarcisi lui stesso), se a ciò m’avesse spinto “la speranza di fare buone conoscenze”, e avendogli io risposto che quel viaggio realizzava uno dei miei desideri più antichi, sebbene meno profondo di quello di recarmi a Venezia, aveva replicato: “Già, si capisce, per sciropparsi sorbetti con le belle dame, facendo finta di leggere le Stones of Venaice di Lord John Ruskin, lugubre scocciatore, tipo tra i più stucchevoli che ci siano al mondo”. Bloch credeva dunque, evidentemente, non soltanto che in Inghilterra tutti gli individui di sesso maschile siano lord, ma anche che la lettera i vi si pronunci sempre ai.

[…]

Cosa che lo stesso Bloch confermò alcuni giorni dopo, quando, sentendomi pronunciare “lift“, mi interruppe: “Ah, si dice lift“. E, con tono secco e altezzoso: “D’altronde, non ha la minima importanza”. Frase equivalente a un riflesso, identica sulla bocca di tutti quelli che hanno dell’amor proprio, nelle più gravi come nelle più trascurabili circostanze; e rivelatrice, come in questo caso, dell’effettiva importanza attribuita alla cosa in questione da chi, a parole, gliela nega. Frase tragica, a volte, che sfugge prima d’ogni altra – e così carica, allora, di sconforto – a ogni uomo che, appena un po’ orgoglioso, abbia perduto l’ultima speranza cui s’aggrappava perché qualcuno gli ha rifiutato un favore: “Ah, bene, non ha la minima importanza, mi arrangerò diversamente”, quando il diverso arrangiarsi verso il quale non ha la minima importanza vedersi respinti è, in qualche caso, il suicidio.

[…]

Bloch era maleducato, neuropatico, snob e, appartenendo a una famiglia poco stimata, sopportava come uno che si fosse trovato sul fondo dei mari le incalcolabili pressioni esercitate su di lui non solo dai cristiani della superficie, ma dagli strati sovrapposti delle caste ebraiche superiori alla sua, ciascuna intenta a opprimere col proprio disprezzo quella immediatamente inferiore. Per aprirsi un varco fino all’aria aperta, innalzandosi di famiglia ebrea in famiglia ebrea, sarebbero occorse a Bloch svariate migliaia d’anni. Tanto valeva cercare una via d’uscita da un’altra parte.

Quando Bloch mi parlò della crisi che stavo, a suo parere, attraversando, e mi invitò a confessargli che ero uno snob, avrei potuto rispondergli: “Se lo fossi non ti frequenterei”. Mi limitai a dirgli che non era gentile. Allora tentò di scusarsi, ma nel modo tipico della persona maleducata, sin troppo felice, quando ritorna sulle proprie parole, di cogliere l’occasione per renderle più pesanti. “Perdonami, mi diceva adesso ogni volta che mi incontrava, ti ho amareggiato, torturato, sono stato cattivo per il gusto di esserlo. Eppure – l’uomo in genere – e il tuo amico in particolare, è un animale così strano – non puoi immaginare, io che ti punzecchio così crudelmente, quanta tenerezza provi per te. Al punto che spesso, quando penso a te, mi vengono le lacrime agli occhi”. E si lasciò sfuggire un singhiozzo.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

(http://www.marcelproust.it/person/bloch.htm)

(Proust e Venezia)

Proust a Venezia