Bluff d’amore

Come i generali convinti che una finta, per riuscire ad ingannare il nemico, dev’essere portata sino in fondo, avevo dispiegato nella mia manovra le stesse forze di sensibilità, press’a poco, che se fosse stata vera. Quella scena di separazione fittizia finiva con l’infliggermi quasi la stessa sofferenza che se fosse stata reale, forse perché uno dei due attori, Albertine, credendola tale, rafforzava nell’altro l’illusione. Era, il nostro, un vivere alla giornata che, sebbene penoso, risultava pur sempre sopportabile, ancorato al terra-terra dalla zavorra dell’abitudine e dalla certezza che l’indomani, per quanto crudele, conterrà la presenza dell’essere a cui si tiene. E questa pesante vita ecco che io, follemente, la distruggevo per intero. Non la distruggevo, è vero, che in modo fittizio, ma questo era sufficiente ad affliggermi; forse perché le parole tristi che si pronunciano, anche mentendo, portano in sé la loro tristezza e ce la iniettano profondamente; forse perché si sa che simulando degli addii si evoca anticipatamente un’ora che poi fatalmente giungerà; e non si è del tutto sicuri poi di non aver scatenato il meccanismo che la farà rintoccare. In ogni bluff c’è, per quanto piccola, una parte d’incertezza riguardo a quel che farà la persona ingannata.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori