Céleste Albaret

Dicono che il liquido salato che è il nostro sangue altro non sia che l’interna sopravvivenza dell’elemento marino originario. Allo stesso modo, credo che Céleste – non solo nelle sue furie, ma anche nelle sue ore di depressione – serbasse il ritmo dei ruscelli del suo paese. Quando era sfinita, era come loro: veramente a secco. Niente, allora, avrebbe potuto ravvivarla. Poi, di colpo, nel suo grande corpo magnifico e leggero riprendeva la circolazione. L’acqua scorreva nella sua trasparenza opalina della sua pelle azzurrognola. Sorrideva al sole, e diventava ancora più azzurra. In quei momenti era davvero celeste.

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

MARCEL PROUST, A Céleste. Versione di Ezio Sinigaglia - Federico Novaro

Céleste Albaret

Mais il fallait d’abord finir; cela seul comptait. Le reste n’était que des choses matérielles, sans importance. Oui, la rue Hamelin fut bien sa dernière demeure. Il y a travaillé, travaillé sans relâche, souvent dans un froid de caveau. Et il s’y est tué”. Céleste Albaret, Monsieur Proust

Céleste Albaret

Io, al contrario, salivo nella camera di due sorelle che erano venute a Balbec come cameriere di una vecchia signora straniera. Erano, nel gergo degli alberghi, due courrières, e in quello di Françoise  – la quale si figurava che un corriere o una courrière non facessero altro che andare avanti e indietro di corsa – due coursières. Gli alberghi sono rimasti, più nobilmente, al tempo in cui si cantava: “È un corriere diplomatico!”.

Benché fosse difficile, per un cliente, andare nella camera di una courrière, e viceversa, avevo stretto ben presto un’amicizia assai viva, sebbene altrettanto pura, con quelle due giovani, Mademoiselle Marie Gineste e Madame Céleste Albaret. Nate ai piedi delle alte montagne della Francia centrale, in riva a ruscelli e torrenti (l’acqua scorreva proprio sotto la loro casa di famiglia, facendo girare un mulino, e l’aveva più volte devastata con l’inondazione), sembravano averne serbato la natura. Marie Gineste più molle e languida, calma come un lago, ma con improvvisi, terribili ribollimenti durante i quali il suo furore ricordava la pericolosità delle piene e dei vortici liquidi che tutto trascinano e sconvolgono. Venivano spesso, di mattina, a trovarmi mentre ero ancora a letto. Non ho mai conosciuto persone più volontariamente ignoranti, che non avessero imparato assolutamente nulla a scuola e il cui linguaggio, tuttavia, avesse in sé qualcosa di così letterario da far credere – non fosse stata la naturalezza quasi selvaggia del tono – a una sorta d’affettazione. Con una familiarità che non ritocco, nonostante gli elogi (riportati qui non a mia lode, ma a lode del bizzarro genio di Céleste) e le critiche, parimenti false ma del tutto sincere, che questi discorsi sembrano comportare nei miei confronti, Céleste, mentre io inzuppavo dei croissants nella mia tazza di latte, mi diceva: “Oh diavoletto nero dai capelli di ghiandaia, o profonda malizia! chissà a cosa pensava vostra madre quando vi ha fatto, perché assomigliate in tutto e per tutto a un uccello. Guarda, Marie, non si direbbe che si lisci le piume? E con che eleganza gira il collo, è così leggero, sembra che stia imparando a volare! Ah! avete avuto una bella fortuna che chi vi ha creato vi abbia fatto nascere fra i ricchi; come ve la sareste cavata, se no, sprecone come siete? Ecco, butta via il croissant perché ha toccato il letto. E adesso, guardalo, sta rovesciando il latte, aspettate, vi metto un tovagliolo, voi non sapreste certo come fare, non ho mai visto uno sciocco maldestro come voi”.

*

Céleste non credeva mai alla sincerità della mia modestia e, interrompendomi: “Ah, furbacchione! dolcezza, perfidia mia! cuoricino di volpe! razza di brigante! ah, Molière!”. (Era il solo nome di scrittore che conoscesse e lo applicava a me intendendo, con questo, una persona capace sia di scrivere delle commedie, sia di recitarle) “Céleste” gridava imperiosamente Marie, la quale, ignorando il nome di Molière, temeva che si trattasse di una nuova ingiuria. Céleste si rimetteva a sorridere: “Ma non l’hai mai vista, nel cassetto, la sua fotografia di quand’era bambino? Ci aveva fatto credere che lo vestissero semplice semplice. E invece è tutto pellicce e merletti, e ha anche un bastoncino in mano, che neanche un principe! Ma è ancora niente in confronto alla sua immensa maestà, e alla sua bontà ancora più profonda. – Brava, brontolava il torrente Marie, ti sei messa anche a frugargli tra i cassetti”.

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Proust, ses personnages - Sa biographieProust, ses personnages

Céleste Gineste e il marito Odilon Albaret

Céleste Albaret fu al servizio di Proust negli ultimi nove anni di vita, gli anni pieni della malattia e della creazione, dal 1913 al ’22. A ventun anni Céleste Gineste non s’era mai mossa dal suo paese, Auxillac, nel cuore montuoso dell’Auvergne, come la sorella minore Marie Gineste, ma sposò un tassista di Parigi, Odilon Albaret, e si trasferì nella capitale. Intimidita, viveva chiusa in casa, ma a Proust bastò un brevissimo incontro per capire la sua solitudine, e per porvi rimedio le propose di distribuire le copie omaggio di Swann. Colpita dalla sensibilità dello scrittore, Céleste, con semplice, toccante e talora burbera dedizione, si consacrò al suo servizio, assistendolo ininterrottamente fino alla morte. Intelligentissima e ignorantissima, fu lei a suggerire a Proust di usare il sistema di attaccare progressivamente a fisarmonica, sulle pagine su cui scriveva, nuovi foglietti, i béquets e le paperoles necessari allo scrittore per fissare le continue aggiunte al testo. La storia di questa abnegazione, e l’emozionante ritratto di Proust negli anni in cui organizzò la sua vita intorno al problema di finire il romanzo in lotta contro il tempo e la morte, sono nel libro di memorie rilasciate da Céleste, dopo mezzo secolo di silenzio, a ottantadue anni: Monsieur Proust. Céleste ha prestato molti tratti del suo carattere e alcuni episodi al personaggio di Françoise; qui Proust, come atto di omaggio, riporta nella Recherche il suo vero nome, e sicuramente un pastiche della sua conversazione, perché quando, molti anni dopo la morte dello scrittore, lessero a Céleste per la prima volta questo brano, lei si stupì moltissimo: “Dissi queste cose a Monsieur non una, ma mille volte”. Anche la fotografia a cui Céleste fa accenno fu realmente regalata da Proust alla sua domestica: era stata scattata intorno al 1884, e ritrae lo scrittore bambino, elegantissimo e graziosissimo, in polpe, velluto, calze di seta e frangetta, la canna in mano.

Marcel e Robert Proust (1870)

Proust e la cara Céleste

Céleste Albaret fu governante e confidente di Marcel Proust; era arrivata a Parigi nel 1913, dopo il matrimonio con l’autista dello scrittore; con la sorella Marie-Ginette fu più volte citata ne Il tempo ritrovato.

Cinquant’anni dopo la morte di Proust, Céleste concesse una lunga conversazione a Georges Belmont, raccolta nel libro Monsieur Proust.

Queste poche righe danno un’idea del rapporto tra i due; Proust ha concluso la sua fatica ciclopica, è molto malato. Chiama Céleste e le dice:

– È successa una cosa bellissima questa notte.

– Che cosa è successo?

– Ho messo la parola fine.

“Dalla parte di Swann, primo volume di Alla ricerca del tempo perduto, debutta in libreria il 14 novembre 1913. Quel giorno il libro, destinato a diventare uno dei più famosi e amati del secolo, viene pubblicato in poche copie a spese del suo autore, Marcel Proust, reduce da una gragnuola di risposte negative da parte di varie case editrici.

La storia dell’esordio della Recherche è curiosa e merita un ricordo. Nel 1912 Proust è un quarantunenne molto ricco e molto colto, un signore con bei baffetti, poca salute ma tante amicizie importanti. Ha un sacco di tempo libero e lavora come un matto a quello che sa essere un capolavoro. L’opera si intitola ancora Le intermittenze del cuore, consta di circa 800 pagine ed è divisa in due parti, Il tempo perduto e Il tempo ritrovato. Marcel vi apporta continue modifiche, nuovi inserti e infinite stesure, come farà per tutta la vita.

Il dattiloscritto viene sottoposto a due editori: Fasquelle, che lo rifiuta, e NRF, la Nouvelle Revue Française appena fondata dal grande Gaston Gallimard e da André Gide, futuro premio Nobel per la letteratura.

Proust consegna le sue cartelle a Gallimard, Gide s’incarica della lettura e del responso. Che finalmente arriva, ma è negativo. Come mai un esperto come Gide incappa in una simile cantonata? Non è chiaro: forse l’editor non legge nulla, nemmeno una riga, e si affida soltanto al pregiudizio. Céleste Albaret, l’adorata governante di Proust, nel suo memoir  rievoca una confidenza dello scrittore: “Ho visto il pacchetto prima e dopo, Céleste – mi disse – e sono certo che mi è tornato indietro intatto così come l’avevo inviato.”

Dunque il nastro del plico non viene nemmeno slegato, il libro respinto non viene aperto? Può darsi. Peraltro nel 1912 a Gide quel Proust sta davvero antipatico. André lo conosce già da vent’anni e legge i suoi articoli sull’odiato Le Figaro. Ritiene che sia solo “uno snob, un mondano dilettante, quanto di più modesto potesse esserci.” Avrà modo di pentirsi.

Proust incassa: a questo punto si rivolge ad Alfred Humblot, direttore della casa editrice Ollendorff, e tuttavia ottiene un altro no bello tondo. Humblot, lui sì, il libro lo ha letto, ma non gli è piaciuto per niente: nella lettera di ricusazione firma il celebre verdetto: “Sarò forse uno sciocco ma davvero non riesco a capacitarmi del fatto che un tizio possa impiegare ben trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di addormentarsi”.

A furia di sentirsi dare dei due di picche, Proust si stufa. Decide di chiudere la tortuosa caccia all’esordio mettendo mano al portafoglio, pagando, e se lo può permettere. Grazie ai suoi amici René e Leon Blum, viene introdotto all’editore Bernard Grasset, con cui trova un accordo. Il contratto prevede che Proust si accolli completamente le spese di stampa. Più tardi Grasset confesserà di aver accettato dattiloscritto e soldi “senza aver letto il libro”.

Dalla parte di Swann esce così il 14 novembre 1913. Gide finalmente lo legge e si rende conto del suo sbaglio. Scrive a Proust una lettera disperata: “Da qualche giorno non lascio più il vostro libro; me ne sazio con diletto, mi ci sprofondo. Ahimè, perché deve essermi così doloroso amarlo tanto? Aver rifiutato questo libro rimarrà il più grave errore della Nouvelle Revue Francaise e, poiché ho la vergogna di esserne in gran parte responsabile, uno dei rimpianti, dei rimorsi più cocenti della mia vita”. Gide spiega anche il motivo del suo no: aveva sfogliato qualche pagina, ma molto, troppo distrattamente. Proust risponde garbato, ringrazia – non si sa con quanta sincerità – e ricambia la stima. Gide allora implora Proust di abbandonare Grasset per pubblicare con lui e con Gallimard i successivi volumi della Recherche. Ma oramai è tardi, la guerra travolge l’Europa, le rotative si fermano. Per il seguito, All’ombra delle fanciulle in fiore i lettori devono aspettare fino al 1919. Gallimard e soprattutto Gide questa volta son ben lieti di esserne l’editore, e il resto è la storia della letteratura”.

(https://www.panorama.it/cultura/libri/marcel-proust-lo-scrittore-che-nessuno-voleva-pubblicare)

foto:  Céleste Albaret