Contro il realismo

Il fatto è che le cose – un libro sotto la sua copertina rossa come tante altre – diventano in noi, non appena noi le percepiamo, qualcosa di immateriale, della stessa natura di tutte le nostre preoccupazioni o sensazioni di quel tempo, e si mescolano ad esse indissolubilmente. Quel certo nome letto un giorno in un libro contiene fra le sue sillabe il vento impetuoso e il sole brillante che c’erano quando lo leggevamo. Così la letteratura che s’accontenta di “descrivere le cose”, di darne appena un miserabile rilievo di linee e di superfici, è, pur chiamandosi realista, la più lontana dalla realtà, quella che più ci impoverisce e ci rattrista, perché interrompe bruscamente ogni comunicazione del nostro io presente con il passato, di cui le cose serbavano l’essenza, e con il futuro, dove ci incitano a goderne nuovamente. È questa essenza che un’arte degna di tale nome deve esprimere; e se fallisce, dalla sua impotenza si può ancora trarre un insegnamento (mentre non se ne può trarre alcuno dalle riuscite del realismo), e cioè che si tratta di un’essenza parzialmente soggettiva e incomunicabile.

C’è di più: una cosa che abbiamo vista in un certo periodo, un libro che abbiamo letto, non restano uniti per sempre soltanto a ciò che c’era intorno a noi, ma anche, fedelmente, a ciò che noi eravamo allora; non possono essere risentiti, ripensati che attraverso la sensibilità, il pensiero, la persona che eravamo allora.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori