“Come sta la Carità di Giotto?”

L’anno in cui mangiammo tutti quegli asparagi, la sguattera abitualmente incaricata di pulirli era una povera creatura malaticcia, in uno stato di gravidanza già abbastanza avanzato quando arrivammo a Pasqua, e c’era persino da stupirsi che Françoise le lasciasse fare tanti mestieri e tante commissioni, visto che cominciava a portare con difficoltà davanti a sé il misterioso canestro, ogni giorno più greve, di cui s’indovinava la forma doviziosa sotto gli ampi grembiuli. Questi somigliavano alle guarnacche che rivestono certe figure simboliche di Giotto di cui il signor Swann mi aveva regalato le fotografie. Era stato proprio lui a farcelo notare, e quando ci chiedeva notizie della sguattera diceva: “Come sta la Carità di Giotto?”. Lei stessa, d’altronde, povera ragazza, ingrassata dalla gravidanza fin nel viso, fin nelle guance che spiovevano dritte e quadrate, era in effetti abbastanza somigliante a quelle vergini forti e mascoline, alquanto matronali, in cui, all’Arena, sono personificate le virtù. E mi rendo conto adesso che quelle Virtù e quei Vizi di Padova* le assomigliavano anche in un altro senso. Come l’immagine di lei era accresciuta dal simbolo aggiunto che portava sul ventre senza aver l’aria di capirne il significato, senza che nulla nel suo viso ne traducesse la bellezza e lo spirito, alla stregua di un semplice e pesante fardello, così è senza mostrare di dubitarne che la poderosa massaia raffigurata all’Arena con la designazione di “Caritas”, e la cui riproduzione era appesa alla parete della mia stanza di studio a Combray, incarna la virtù in questione, e senza che il minimo pensiero di carità abbia mai potuto essere espresso, si direbbe, dal suo volto energico e volgare. Grazie a una bella invenzione del pittore, essa calpesta i tesori della terra, ma esattamente come se pigiasse dell’uva per estrarne il succo o, meglio, come se fosse salita in piedi su un cumulo di sacchi per stare più in alto; e tende a Dio il suo cuore infiammato o, per essere più precisi, glielo “passa” così come una cuoca passa un cavatappi attraverso la finestrella del suo seminterrato a qualcuno che gliel’ha chiesto dal pianterreno. L’Invidia, magari, una certa espressione d’invidia l’avrebbe infinitamente avuta. Ma, anche in quell’affresco, il simbolo occupa tanto spazio ed è rappresentato così realisticamente, il serpente che soffia sulle labbra dell’Invidia è così grosso e riempie così completamente la cavità della sua bocca spalancata, che i muscoli del volto sono tesi per riuscire a contenerlo, come quelli di un bimbo che gonfia col suo fiato un palloncino, e l’attenzione dell’Invidia – non diversamente dalla nostra – non ha certo molto tempo, tutta concentrata com’è sull’azione delle labbra, da dedicare a pensieri invidiosi.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perdutoDalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 98-99-100

*Nella Cappella degli Scrovegni, che sorge a Padova nei pressi dell’antica Arena romana, Giotto dipinse le allegorie dei vizi e delle virtù lungo la fascia inferiore del suo ciclo di affreschi. Nel suo interesse per questa iconografia, Swann è quanto mai ruskiniano. La raffigurazione giottesca della Carità era stata più volte descritta e interpretata dallo scrittore inglese.

Vizi e Virtù di Giotto nella Cappella Scrovegni Padova