Il lift e la marchesa di Camembert

Poiché ne ignoravo la causa, per cercare di distrarlo, e benché Albertine mi preoccupasse più di lui, gli dissi che la signora che se n’era appena andata si chiamava marchesa di Camembert. (…) Il lift mi giurò, con la sincerità tipica della maggior parte dei testimoni falsi, ma senza abbandonare la sua espressione disperata, che era proprio col nome di Camembert che la marchesa gli aveva chiesto d’annunciarla. E, in effetti, era del tutto naturale che avesse sentito il nome che conosceva già. Inoltre, poiché sulla nobiltà, e la natura dei nomi con i quali si creano i titoli, possedeva le nozioni estremamente vaghe condivise anche da molti che pure di professione non fanno il lift, gli era parso tanto più verosimile e nient’affatto sorprendente che, data la fama universale di quel formaggio, si fosse pensato di trarre un marchesato da una così gloriosa rinomanza, a meno che la celebrità del formaggio non derivasse da quella del marchesato. Ciononostante, constatando che non volevo riconoscere d’essermi sbagliato, e sapendo che i signori amano veder assecondati i loro capricci più futili e accettate le loro menzogne più evidenti, mi promise, da buon domestico, che d’ora in poi avrebbe sempre detto Cambremer. È vero che nessun bottegaio della città o contadino dei dintorni, dove il nome e le figure dei Cambremer erano perfettamente conosciuti, avrebbe mai potuto commettere l’errore del lift. Ma il personale del Grand-Hôtel di Balbec non era del posto. Veniva direttamente, con tutti gli accessori, da Biarritz, Nizza e Montecarlo, da dove una parte era stata dirottata a Deauville, un’altra a Dinard, mentre la terza era stata riservata a Balbec.

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il lift irritante (seconda parte)

“Accompagnerete da me quella ragazza, gli dissi, dopo essere andato di persona a sbattere la porta con tutte le mie forze (facendo accorrere un altro fattorino, preoccupato di controllare che non ci fosse una finestra aperta). Ricordatevi bene: Mademoiselle Albertine Simonet. Del resto, è scritto sulla busta. Dovrete dire semplicemente che è da parte mia. Verrà senz’altro volentieri, aggiunsi per rassicurare insieme a lui, anche il mio amor proprio. – Eh, si capisce. – Ma no, al contrario, non è così naturale che venga volentieri. È molto scomodo venire fin qui da Berneville. – Capisco! – Le direte di venire con voi. – Sì, sì, sì, sì, capisco perfettamente, affermò con quel tono deciso e sagace che da tempo aveva smesso di farmi “buona impressione”, perché sapevo che era quasi meccanico e nascondeva sotto la sua apparente precisione abissi di vaghezza e stupidità. – A che ora sarete di ritorno? – Ci metterò che poco, rispondeva il lift che, spingendo all’estremo la regola decretata da Bélise contro la recidiva del non*, s’accontentava sempre di una sola particella negativa. Posso benissimo andarci. Hanno soppresso le uscite del pomeriggio, oggi, perché c’era una colazione di venti coperti. E toccava proprio a me uscire, oggi pomeriggio. Dunque è giusto che esca un po’ di sera. Mi prendo la bici. Così farò presto”. E un’ora dopo arrivava dicendo: “Il signore ha dovuto aspettare, ma la signorina è venuta con me. È giù da basso. – Ah, grazie, il portiere non sarà seccato con me? – Il signor Paul? Sa neanche dove sono andato. E il guardaportone ha avuto niente da dire”. Ma una volta che gli avevo raccomandato: “Bisogna assolutamente che me la portiate”, tornò a riferirmi sorridendo: “Lo sapete che l’ho mica trovata. Non c’era. E ho potuto restare che poco; avevo paura di fare la fine del mio socio che è stato mandato dall’albergo” (perché il lift che diceva “rientrare” a proposito d’una professione nella quale si entra per la prima volta: “mi piacerebbe rientrare nelle poste”, in compenso – per addolcire la cosa se si fosse trattato di lui, o insinuarla con più dolcezza e perfidia se si trattava d’un altro – sopprimeva il “via” e diceva: “So che l’hanno mandato”). Non era per cattiveria che sorrideva, ma per timidezza. Credeva di sminuire la gravità della sua mancanza mettendola sullo scherzo. Allo stesso modo, dicendomi: “Lo sapete che l’ho mica trovata”, non pensava che, realmente, io potessi già saperlo. Al contrario, era sicuro che lo ignorassi e, soprattutto, se ne spaventava. Così diceva “lo sapete” per evitare a se stesso l’angoscia che avrebbe provato pronunciando le frasi destinate a farmelo sapere. Non ci si dovrebbe mai arrabbiare con chi, colto in fallo, si mette a ridacchiare. Se lo fa, non è perché se ne infischia, ma perché trema al pensiero della nostra collera. Testimoniamo una grande pietà, manifestiamo una grande dolcezza a coloro che ridono. Simile a un vero e proprio ictus, lo scompiglio mentale aveva prodotto nel lift non soltanto un rossore apoplettico, ma un’alterazione del linguaggio, divenuto di colpo confidenziale.

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

*Nelle Femmes Savantes (1672) Molière mette in scena delle saccenti, schiave della moda del preziosismo; una è Bélise, che nella scena 6 dell’atto II discetta: “De pas mis avec rien tu fais la récidive, / Et c’est comme on t’a dit, trop d’une négative” (“Di unire il pas a rien sei recidiva, / E ti è stato già detto che una negazione basta e avanza”).

Il lift irritante

Certe particolarità, in quel lift, erano estremamente fastidiose: qualsiasi cosa gli dicessi, m’interrompeva con una locuzione – “Ma si capisce!” o “Eh, si capisce!” – dalla quale si sarebbe potuto arguire o che la mia osservazione era d’una tale evidenza che chiunque ci avrebbe pensato, o che lui stesso se ne attribuiva tutto il merito col segnalarla alla mia attenzione. “Ma si capisce!” o “Eh, si capisce!”, esclamato con la massima energia, gli saliva ogni due minuti alle labbra per cose che non gli sarebbero mai venute in mente, il che m’irritava al punto da farmi dire subito il contrario per dimostrargli che non aveva capito niente. Ma alla mia seconda asserzione, sia pure affatto inconciliabile con la prima, lui non mancava di commentare: “Ma si capisce!”, “Eh, si capisce”, come se tali espressioni fossero qualcosa di inevitabile. Facevo fatica, anche, a perdonargli d’usare certi termini specifici del suo mestiere – che sarebbero stati dunque, perfettamente acconci in senso proprio – soltanto in senso figurato, caricandoli di un’intenzione spiritosa abbastanza cretina: per esempio, il verbo “pedalare”. Mai che ne facesse uso quando ritornava da una commissione in bicicletta. Se invece camminando, aveva accelerato il passo per giungere in tempo, volendo significare ch’era andato di gran carriera diceva: “Una bella pedalata, credetemi!”. Il lift era piuttosto mingherlino, malfatto e, nel complesso, alquanto brutto. Ciononostante, ogni volta che gli si parlava d’un giovanotto alto, slanciato e sottile, annuiva: “Ah sì, ho capito, uno della mia stessa statura”. Un giorno che, mentre aspettavo da lui una risposta, avevo sentito dei passi sulla scala e avevo aperto con un moto di impazienza la porta della mia camera, m’era apparso un fattorino bello come Endimione, dai lineamenti incredibilmente perfetti, venuto per una signora che non conoscevo. Quando poi era arrivato il lift, nel dirgli con quanta impazienza avessi atteso la sua risposta, gli avevo anche raccontato che m’era parso di sentirlo salire, mentre si trattava di un fattorino dell’Hôtel de Normandie. “Ah sì, lo so chi è, è lui senz’altro, un ragazzo della mia stessa corporatura. Anche di faccia m’assomiglia al punto che ci potrebbero confondere, lo si direbbe mio fratello”. Infine, voleva dare l’impressione di capire tutto al volo, e così non si era ancora finito di raccomandargli qualcosa, che già rispondeva: “Sì, sì, sì, sì, sì, capisco perfettamente” con una decisione e un tono d’intelligenza che, per qualche tempo, mi illusero; ma le persone, via via che le si conosce, sono come un metallo immerso in un composto alterante, e le si vede perdere a poco a poco le loro qualità (come pure, a volte, i loro difetti).

M. Proust, Sodoma e Gomorra II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori