Le persone amate aderiscono a un’idea di tenerezza

E fu proprio, ahimè, quel fantasma che videro i miei occhi quando, entrando nel salotto senza che la nonna fosse avvertita del mio ritorno, la trovai che stava leggendo. Io ero lì, o meglio non c’ero ancora perché lei non lo sapeva, e lei, come una donna sorpresa a qualche lavoro che nasconderebbe se arrivasse qualcuno, era in balia di pensieri che non aveva mai lasciato trapelare davanti a me. Di me – per l’effimero privilegio grazie al quale, nel breve istante del ritorno, ci è dato d’assistere improvvisamente alla nostra stessa assenza – non era presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo in cappello e soprabito da viaggio, colui che non è di casa, il fotografo venuto a ritrarre luoghi che non rivedremo mai più. E ciò che, meccanicamente, si formò nei miei occhi quando vidi la nonna, fu appunto una fotografia. Le persone amate noi non le vediamo, di solito, se non dentro il sistema animato, il moto perpetuo della nostra incessante tenerezza, la quale, prima di lasciare che le immagini proiettate dai loro volti giungano sino a noi, le attrae nel proprio vortice, le fa ricadere su ciò che da sempre ne pensiamo, le fa aderire a questa idea, coincidere con essa. Come avrei potuto, poiché alla fronte, alle gote della nonna affidavo il compito di esprimere quanto v’era di più delicato e inalterabile nella sua mente, e poiché ogni sguardo che nasce dall’abitudine è una negromanzia e ogni viso che amiamo è uno specchio del passato, come avrei potuto non omettere ciò che in lei s’era appesantito e mutato, se anche negli spettacoli più indifferenti della vita il nostro occhio, carico di pensiero, trascura, come una tragedia classica, tutte le immagini che non concorrono all’azione, trattenendo solo quelle che servono a illustrarne il fine? Ma se, invece del nostro occhio, a guardare sarà un obiettivo puramente materiale, una lastra fotografica, allora ciò che vedremo, per esempio, nel cortile dell’Institut, non sarà un accademico che, uscendo, tenta di fermare un fiacre, ma il suo vacillare, le sue precauzioni per non cadere all’indietro, la parabola della sua caduta, come se lui fosse ubriaco o il terreno coperto d’una crosta di ghiaccio. Succede lo stesso quando qualche crudele astuzia del caso impedisce alla nostra intelligenza d’accorrere in tempo per nascondere ai nostri sguardi ciò che essi non dovrebbero mai contemplare, quando quella è preceduta da questi: i quali, arrivati per primi sul posto e lasciati a se stessi, funzionano meccanicamente, come pellicole, e ci fanno vedere, al posto dell’essere amato che non esiste più da tempo ma di cui la tenerezza non ci aveva mai consentito di scoprire la morte, l’essere nuovo che cento volte al giorno essa soleva rivestire d’una dolce e menzognera sembianza. E – come un malato il quale, non guardandosi da molto tempo e seguitando a comporre quel volto ch’egli non vede sulla base dell’immagine ideale che ne conserva il suo pensiero, indietreggia se scorge in uno specchio, nel mezzo d’un volto arido e deserto, la sopraelevazione obliqua e rosata d’un naso gigantesco come una piramide d’Egitto – io per cui la nonna non era altri che me stesso, io che l’avevo vista sempre e soltanto nella mia anima, sempre allo stesso posto del passato, attraverso la trasparenza dei ricordi contigui e sovrapposti, ora, d’improvviso, nel nostro salotto che apparteneva a un mondo nuovo, quello del tempo, quello dove vivono gli estranei di cui si dice “invecchia bene”, per la prima volta e solo per un istante, giacché ben presto scomparve, vidi sul canapè, sotto il lume, rossa, pesante e volgare, malata, perduta in chissà quali fantasticherie, gli occhi un po’ folli vaganti oltre le pagine d’un libro, una vecchia donna prostrata che non conoscevo.

M. Proust, La parte di Guermantes I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Horst Janssen, Marcel Proust