Il primo incontro con “la piccola banda” di Balbec

Avrei trovato il coraggio di entrare nella sala da ballo se con me ci fosse stato Saint-Loup. Da solo, me ne restai semplicemente ad aspettare davanti al Grand-Hôtel il momento di andare incontro alla nonna, quando, quasi ancora all’estremità della diga dove animavano, muovendosi, una macchia singolare, vidi avanzarsi cinque o sei ragazzine, tanto diverse per aspetto e comportamento da tutte le persone cui eravamo avvezzi a Balbec, quanto, sbarcato da chissà dove, uno stormo di gabbiani che avessero compiuto a piccoli passi sulla spiaggia – con i ritardatari intenti a raggiungere gli altri svolazzando – una passeggiata il cui scopo, chiaramente definito nella loro testa d’uccelli, fosse rimasto oscuro ai bagnanti, a loro volta del tutto ignorati dai volatili. Una delle sconosciute spingeva davanti a sé, con la mano, la sua bicicletta; altre due reggevano delle mazze da golf; e il loro abbigliamento contrastava nettamente con quello delle altre ragazze di Balbec, fra le quali ce n’era sì qualcuna che si dedicava agli sport, ma senza adottare per questo una speciale tenuta. Era l’ora in cui signore e signori andavano a fare, ogni giorno, il giro della diga, esposti al fuoco implacabile dell’occhialetto puntato su di loro, come se fossero affetti da qualche tara che spettasse a lei ispezionare nei minimi dettagli, dalla moglie del primo presidente, fieramente seduta davanti al chiosco della musica, nel bel mezzo di quella temuta fila di sedie dove fra poco anch’essi, da attori trasformandosi in critici, si sarebbero installati per giudicare i nuovi protagonisti della sfilata.

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Fra tutte quelle persone, alcune delle quali inseguivano un pensiero, ma ne tradivano allora la mobilità con gesti bruschi e sguardi svagati, certo non più armoniosi della titubante circospezione dei vicini, le ragazzine che avevo intraviste, con la padronanza di gesti cui si giunge grazie a un perfetto addestramento fisico e a un disprezzo sincero per il resto dell’umanità, andavano dritte per la loro strada, senza esitazione né rigidezza, eseguendo esattamente i movimenti che intendevano eseguire, con piena autonomia di ciascuna delle membra rispetto alle altre, e conservando nella maggior parte del corpo l’immobilità che tanto colpisce nelle brave danzatrici di valzer. Ormai, non erano lontane da me. Benché ognuna rappresentasse un tipo completamente diverso dalle altre, tutte erano in qualche modo belle; ma, a dire il vero, le vedevo da così pochi istanti, e non osando guardarle fissamente, che non ne avevo ancora ben individuata nessuna. A parte una, che con il suo naso dritto e la pelle bruna spiccava per contrasto come, in un quadro del Rinascimento, un Re Mago di tipo arabo, riuscivo a distinguerle soltanto, questa per un paio d’occhi duri, sfrontati e ridenti, quella per le guance il cui rosa aveva la sfumatura ramata che evoca l’idea del geranio; e persino questi erano tratti che non potevo ancora associare in modo indissolubile a una piuttosto che a un’altra di loro; e quando (nell’ordine secondo il quale veniva svolgendosi quell’insieme, meraviglioso perché vi coesistevano gli aspetti più eterogenei e tutte le gamme di colore vi figuravano accostate, ma confuso come una musica nella quale non avessi saputo isolare e riconoscere, via via che passavano, le singole frasi, percepite ma subito dimenticate) vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi, mi chiedevo se fossero gli stessi dai quali, un istante prima, ero già stato affascinato, non potevo attribuirli a una certa fanciulla, staccata dalle altre e identificata. E questa assenza, nella mia visione, di confini che ben presto avrei stabiliti, propagava per tutto il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua d’una bellezza fluida, mobile e collettiva.

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Adesso, i loro tratti affascinanti non erano più mescolati e indistinti. Li avevo suddivisi e agglomerati (in mancanza del nome di ciascuna, che ignoravo) intorno alla più alta, ch’era saltata sopra la testa del vecchio banchiere; alla piccola, le cui guance rosee e paffute e i cui occhi verdi si stagliavano contro l’orizzonte marino; a quella dal colorito bruno, dal naso dritto, che contrastava con tutte le altre; a un’altra dal viso bianco come un uovo, nel quale il nasino tracciava un arco di circonferenza simile al becco d’un pulcino, un viso come ne hanno solo certe creature giovanissime; a un’altra ancora, alta, con indosso una mantellina (che le dava un aspetto così povero, e smentiva a tal punto il suo portamento elegante, da far venire in mente, come spiegazione, che i suoi genitori fossero abbastanza altolocati, e ponessero il loro amor proprio abbastanza al di sopra dei bagnanti di Balbec e dell’eleganza di vestiario dei loro stessi figli, per lasciarli tranquillamente andare a passeggio sulla diga in una tenuta che persone da poco avrebbero giudicato troppo modesta); a una fanciulla dagli occhi luminosi, ridenti, dalle larghe guance olivastre sotto un “polo” nero ben calcato sulla testa, che spingeva una bicicletta ancheggiando in modo così dinoccolato e, quando le passai accanto, parlava usando termini gergali così sguaiati (fra cui distinsi l’incresciosa espressione “vivere la propria vita”) e a voce così alta che, abbandonando l’ipotesi architettata alla vista della mantellina della sua compagna, giunsi piuttosto alla conclusione che quelle ragazze appartenessero tutte alla popolazione che frequenta i velodromi e dovessero essere le giovanissime amanti di corridori ciclisti. In nessuna delle mie supposizioni, comunque, figurava l’ipotesi che potessero essere fanciulle virtuose. A prima vista – dal modo in cui si guardavano ridendo, dallo sguardo insistente di quella dalle gote olivastre – avevo capito che non lo erano. D’altronde, la nonna aveva sempre vegliato su di me con una delicatezza troppo timorata perché io non fossi certo che l’insieme delle cose che non si devono fare è indivisibile, e non fossi portato a escludere che fanciulle capaci di mancare di rispetto alla vecchiaia venissero improvvisamente còlte da scrupoli davanti a piaceri più tentatori di quello del saltare al di sopra d’un ottuagenario. Ormai individuate singolarmente, il reciproco rispondersi dei loro sguardi animati di sicumera e di spirito cameratesco, che di volta in volta s’illuminavano ora d’interesse, ora dell’insolente indifferenza di cui tutte brillavano, a seconda che si trattasse delle amiche o dei passanti, la consapevolezza stessa di conoscersi fra di loro così intimamente da passeggiare sempre insieme, facendo “banda a sé”, instauravano tuttavia fra i loro corpi indipendenti e separati, mentre avanzavano lentamente, un invisibile ma armonioso legame, come un’unica calda ombra, una sola atmosfera, fondendoli in un tutto altrettanto omogeneo nelle sue parti quanto diverso dalla folla in mezzo alla quale procedeva il lento corteo.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori