Si può essere fedeli solo a ciò di cui ci si ricorda

Non è perché gli altri sono morti che il nostro affetto per loro si affievolisce, ma perché moriamo noi stessi. Al suo amico, Albertine non aveva niente da rimproverare. Chi ne usurpava il nome non ne era che l’erede. Si può essere fedeli solo a ciò di cui ci si ricorda, e si ricorda solo ciò che si è conosciuto. Mentre cresceva all’ombra del vecchio, il mio nuovo io aveva sentito parlare spesso di Albertine; tramite suo, attraverso i racconti che quello gli faceva, era convinto di conoscerla, gli era simpatica, l’amava; ma non era che una tenerezza di seconda mano.*

Marcel Proust, Albertine scomparsa II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

*La stessa identica frase è in una splendida lettera di Proust a Reynaldo Hahn, del 24 ottobre 1914 (cinque mesi dopo la morte di Alfred Agostinelli). È stata pubblicata integralmente per la prima volta da Philip Kolb in appendice al vol. XIV. Sono certo che il lettore sarà lieto di poterne leggere qui un’ampia traduzione: “Mio caro piccolo amico, siete stato davvero carino a pensare che Cabourg dovesse esser penoso per me a causa di Agostinelli. A mia vergogna devo confessare che non lo è stato tanto quanto avrei creduto e che questo viaggio ha segnato piuttosto una prima tappa di distacco dal mio dolore, tappa dopo la quale per fortuna sono retrocesso, appena rientrato a Parigi, verso le prime sofferenze. Ma in realtà a Cabourg, pur continuando a essere triste e a rimpiangerlo, ci sono stati dei momenti, forse delle ore in cui egli era scomparso dal mio pensiero. Caro piccolo mio, non giudicatemi troppo male per questo (cioè non fate come me). E non pensate che io non sappia essere fedele negli affetti, come a torto ho pensato di voi quando vi vedevo rimpiangere così poco delle persone del bel mondo che credevo voi amaste molto. Vi ho allora attribuito meno tenerezza di quanto non vi assegnassi prima. E poi ho capito che in realtà si trattava di persone che non amavate veramente. Io amavo veramente Alfred. Non è sufficiente dire che l’amavo, io lo adoravo. E non so perché scrivo questo al passato perché lo amo ancora. Ma nonostante tutto, nei rimpianti c’è una parte di involontario e una parte di dovere che rende stabile l’involontario e ne garantisce la durata. E questo dovere non esiste nei confronti di Alfred che aveva agito molto male con me, gli do il rimpianto che non posso fare a meno di dargli, non mi sento tenuto verso di lui a un dovere come quello che mi lega a voi, che mi legherebbe a voi, anche se io vi fossi mille volte meno debitore, se vi amassi mille volte meno. Perciò, se a Cabourg ho avuto qualche settimana di relativa incostanza, non giudicatemi incostante ed accusatene solo colui che non poteva meritare la fedeltà. Del resto ho provato una grande gioia quando ho visto che le mie sofferenze erano tornate; ma in certi momenti esse sono tanto forti da farmi un po’ rimpiangere la tregua di un mese fa. Ho anche la tristezza di sentire che, benché vivaci, esse tuttavia sono forse meno ossessive che un mese e mezzo o due mesi fa. Non è perché gli altri sono morti che diminuisce il dolore, ma è perché moriamo noi stessi. E ci vuole una vitalità davvero grande per conservare e far vivere intatto l'”io” di qualche settimana fa. Il suo amico non lo ha dimenticato il povero Alfred. Ma l’ha raggiunto nella morte e il suo erede, l'”io” odierno, ama Alfred ma lo ha conosciuto solo attraverso i racconti dell’altro. È una tenerezza di seconda mano. (Vi prego di non parlare di ciò a nessuno; se il carattere generale di queste verità vi facesse venire la tentazione di leggerne qualche brano a Gregh o ad altri, mi dareste un grande dolore. Se mai io dovessi formulare cose simili, sarà con lo pseudonimo di Swann. Del resto non ho più bisogno di formularle. Già da molto tempo la vita mi offre solo avvenimenti che ho già descritti. Quando leggerete il mio terzo volume, quello che in parte si chiama All’ombra delle fanciulle in fiore, troverete l’anticipazione e l’esatta profezia di ciò che ho provato in seguito)”. Poche volte, nella storia della letteratura di ogni tempo e paese, il confine tra invenzione narrativa e confidenze epistolari è stato così indefinito.