La sera scese di buon’ora; mi preparai, ma era ancora troppo presto per uscire; decisi di mandare una carrozza a Madame de Stermaria. Non osai prendervi posto, per non costringerla a fare la strada con me, ma consegnai al vetturino un biglietto per lei in cui le chiedevo se permetteva che andassi a prenderla. Mentre aspettavo, mi distesi sul letto, chiusi gli occhi un istante, poi li riapersi. Sopra le tende non c’era più che un’esigua orlatura di luce che andava scomparendo. Riconoscevo quell’ora inutile, vestibolo profondo del piacere, di cui a Balbec avevo imparato a distinguere il vuoto oscuro e delizioso quando, solo come adesso nella mia camera, mentre tutti gli altri erano ancora a pranzo, contemplavo senza tristezza l’agonia del giorno sopra le tende, sapendo che presto, dopo una notte breve come le notti polari, sarebbe risuscitato più sfolgorante nello sfavillio di Rivebelle.
[…]
Una scampanellata mi fece correre ad aprire la porta al vetturino, latore della risposta. Pensavo che questa sarebbe stata: “La signora è giù in carrozza”, oppure “La signora vi aspetta”. Invece aveva in mano una lettera. Per qualche istante esitai a prendere conoscenza di ciò che Madame de Stermaria aveva scritto e che, finché lei teneva in mano la penna, sarebbe ancora potuto cambiare, ma che adesso, staccato dalla sua persona, era un destino che percorreva ormai da solo la sua strada e sul quale lei stessa non sarebbe stato in grado di intervenire. Chiesi al vetturino di scendere e di aspettare un momento, sebbene brontolasse contro la nebbia. Uscito che fu, aprii subito la busta. Sul foglio: Viscontessa Alix de Stermaria. La mia invitata aveva scritto: “Sono desolata, un contrattempo mi impedisce di pranzare con voi stasera all’isola del Bois. Ne sarei stata felicissima. Vi scriverò più a lungo da Stermaria. Con rincrescimento e amicizia”. Rimasi immobile, stordito dal colpo ricevuto. Foglio e busta erano caduti ai miei piedi, come lo stoppaccio d’un’arma da fuoco dopo lo sparo.
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Ad accrescere la mia disperazione per il mancato incontro con Madame de Stermaria era la certezza, tratta dalla sua risposta, che mentre io, dalla domenica in avanti, non ero vissuto, ora dopo ora, che per quel pranzo, lei non ci avesse pensato neanche una volta. Venni poi a conoscenza di un suo matrimonio d’amore con un giovane che, a quei tempi, doveva già frequentare, e che sicuramente le aveva fatto dimenticare il mio invito. (…) Adesso la mia delusione, la mia rabbia, il mio disperato desiderio di riafferrare colei che mi si era rifiutata potevano, coinvolgendo la mia sensibilità, fissare l’amore possibile che fino a quel momento mi era stato offerto, ma più blandamente, soltanto dalla mia fantasia.
Quanti sono, nei nostri ricordi, e ancor più nel nostro oblio, i volti di fanciulle, e di giovani donne, l’uno diverso dall’altro, ai quali abbiamo aggiunto un po’ di fascino e un furioso desiderio di rivederli solo perché, all’ultimo momento, s’erano sottratti! Nel caso di Madame de Stermaria, c’era molto di più, e ormai, per amarla, mi sarebbe bastato rivederla, perché si rinnovassero le impressioni così vive, ma troppo fugaci, che diversamente, nell’assenza, la memoria non avrebbe avuto la forza di conservare. Le circostanze decisero altrimenti: non la rividi più. Non fu lei la persona di cui m’innamorai, ma avrebbe potuto esserlo. E fra le cose che mi resero forse più crudele il grande amore che presto avrei avuto vi fu, ricordando quella sera, il pensiero che sarebbe stata sufficiente la modifica di alcune semplicissime circostanze perché quell’amore si posasse altrove, su Madame de Stermaria; e che, dunque, applicato a colei che subito dopo me lo ispirò, esso non era affatto – come, per altro, avrei avuto tanta voglia, tanto bisogno di credere – assolutamente necessario e predestinato.
M. Proust, La parte di Guermantes II
Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori
Caspar David Friedrich, An artist in his studio contemplating a moonlit street from his opened window