Il suono del violino interiore

In certe belle giornate faceva così freddo, si era in così vasta comunicazione con la strada, che i muri della casa sembravano sconnessi, e ad ogni passaggio del tram il suo campanello risuonava come un coltello d’argento che avesse colpito una casa di vetro. Ma era soprattutto dentro di me che sentivo con ebbrezza un nuovo suono provenire dal violino interiore. Le sue corde sono tese o allentate da semplici variazioni della temperatura, della luce esterna. Nel nostro essere strumento che l’uniformità dell’abitudine ha reso silenzioso, il canto nasce da questi scarti, da queste differenze, matrici d’ogni musica: il tempo che certi giorni ci offrono ci fa passare subitamente da una nota all’altra. Ritroviamo il motivo dimenticato di cui avremmo potuto intuire la necessità matematica e che, per qualche istante, cantiamo senza riconoscerlo. Soltanto questi mutamenti interni, sebbene venuti dal di fuori, rinnovavano per me il mondo esteriore. Porte di comunicazione da gran tempo condannate si riaprivano nel mio cervello. La vita di certe città, l’allegria di certe passeggiate riprendevano il loro posto dentro di me. Fremente con tutto il mio essere attorno alla corda che vibrava, avrei sacrificato la mia scialba vita d’un tempo e la mia vita futura, sulle quali era passata la gomma da cancellare dell’abitudine, per quello stato così particolare.

M. Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori