Quelle morti successive, così temute da un io che esse erano destinate ad annientare, così indifferenti, così dolci una volta che s’erano verificate e chi le aveva temute non era più là per sentirle, mi avevano aiutato da qualche tempo a capire quanto poco saggio sarebbe stato aver paura della morte. Ora, proprio adesso che essa mi era, da poco, diventata indifferente, cominciavo di nuovo a temerla – sotto un’altra forma, è vero, non per me ma per il mio libro, al cui dischiudersi era almeno per qualche tempo indispensabile quella vita che tanti pericoli minacciavano. Victor Hugo dice:
Il faut que l’herbe pousse et que les enfants meurent.
Io dico che è legge crudele dell’arte che gli esseri muoiano e che noi stessi moriamo, dando fondo a tutte le sofferenze, perché spunti l’erba non dell’oblio ma della vita eterna, l’erba rigogliosa delle opere feconde, su cui le generazioni verranno a fare allegramente, senza preoccuparsi di chi dorme là sotto, il loro “déjeuner sur l’herbe”.
Marcel Proust, Il Tempo ritrovato
Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori
Edouard Manet, Le déjeuner sur l’herbe