La malata e l’Estraneo

Ho pensato poi, che il momento dell’attacco non doveva aver còlto del tutto di sorpresa la nonna, che forse, anzi, l’aveva previsto da tempo, era vissuta nella sua attesa. Certo non aveva saputo quando sarebbe arrivato, quel momento fatale, era stata incerta, come gli amanti che un dubbio dello stesso genere induce, di volta in volta, a concepire speranze irragionevoli e sospetti ingiustificati sulla fedeltà dell’amata. Ma è raro che malattie gravi come quella che, alla fine, l’aveva colpita in piena faccia, non eleggano per lungo tempo domicilio presso il malato prima di ucciderlo e che, durante tale periodo, non si facciano conoscere abbastanza presto da lui, come un vicino o un inquilino socievole. È una conoscenza terribile, meno per le sofferenze di cui è apportatrice che per la strana novità delle restrizioni definitive che impone alla nostra vita.  Ci si vede morire, non nell’istante preciso della morte, ma mesi o, a volte, anni prima, da quando essa è venuta, orribilmente, ad abitare in noi. La malata fa conoscenza con l’Estraneo che sente andare e venire nel suo cervello. Non lo conosce di vista, si capisce; ma dai rumori che regolarmente gli sente fare deduce le sue abitudini. Che sia un malfattore? Un mattino, non lo sente più. Se n’è andato. Ah, se fosse per sempre! La sera, è già di ritorno. Quali saranno i suoi disegni? Il medico curante, inquisito in proposito, risponde, come un’amante adorata, con giuramenti che un giorno vengono creduti, il giorno dopo messi in dubbio. Del resto, più che la parte dell’amante, il medico sostiene quella dei domestici sottoposti a interrogatorio. Essi non sono che dei terzi. Quella che incalziamo, che sospettiamo stia per tradirci, non è altri che la vita, e pur sentendo che non è più la stessa, noi crediamo ancora in lei, o perlomeno rimaniamo nel dubbio fino al giorno in cui, da ultimo, ci abbandona.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Gli abissi della malattia e della morte

Sì, qualche minuto fa, mentre cercavo un fiacre, si sarebbe potuto affermare che la nonna era seduta su una panchina in avenue Gabriel; e, poco dopo, che era passata in una vettura scoperta. Ma era davvero così? La panchina, per starsene ferma in un viale, pur essendo sottoposta anch’essa a certe condizioni d’equilibrio, non ha bisogno d’energia. Ma perché un essere vivente sia stabile, anche quando poggia su una panchina o sul sedile d’una carrozza, occorre una tensione di forze che noi, normalmente, non percepiamo più di quanto si possa percepire (giacché agisce in tutte le direzioni) la pressione atmosferica. Forse, se dentro di noi si creasse il vuoto e fossimo lasciati alla mercé della pressione dell’aria, avvertiremmo per un istante – l’istante precedente la nostra distruzione – il peso terribile che niente più neutralizzerebbe. Allo stesso modo, quando dentro di noi si spalancano gli abissi della malattia e della morte e non abbiamo più nulla da opporre alla violenza con cui il mondo e il nostro stesso corpo ci si avventano contro, allora persino sostenere il pensiero dei nostri muscoli, il brivido che devasta le nostre ossa, persino stare immobili in quella che, di solito, riteniamo la semplice posizione negativa d’una cosa, esige – se vogliamo che la testa resti dritta e lo sguardo calmo – una carica di energia vitale, e diviene oggetto d’una lotta estenuante. E se Legrandin ci aveva guardati con tanto stupore era perché a lui, la nonna era apparsa – nel fiacre dove sembrava che stesse seduta – sul punto di sprofondare, di scivolare nell’abisso, disperatamente aggrappata ai cuscini che potevano appena trattenere il suo corpo precipite, i capelli in disordine, l’occhio smarrito, incapace, ormai, di far fronte all’assalto delle immagini che la sua pupilla non riusciva più a sopportare. Era apparsa, benché seduta al mio fianco, tutta immersa nel mondo sconosciuto dove già aveva ricevuto i colpi di cui recava le tracce quando, poco prima, ai Champs-Élysées, l’avevo vista col cappello, il viso, il cappotto sconvolti dalla mano dell’angelo invisibile col quale aveva lottato.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

L’ora della morte

Siamo soliti dire che l’ora della morte è incerta; ma, quando lo diciamo, ci rappresentiamo quell’ora in uno spazio vago e lontano, non pensiamo che abbia qualcosa a che vedere con la giornata che stiamo vivendo e possa significare che la morte – o il suo primo impossessarsi di noi, dopo il quale non ci lascerà mai più – potrà verificarsi in questo stesso, e così poco incerto, pomeriggio, il cui impiego abbiamo preventivamente programmato ora per ora. Teniamo alla nostra passeggiata per accumulare, in un mese, la necessaria quantità d’aria buona; abbiamo esitato sulla scelta del cappotto da indossare, del cocchiere da far venire; siamo in carrozza, la giornata si stende intera davanti a noi, breve perché vogliamo rincasare in tempo per ricevere un’amica; ci piacerebbe che il tempo, domani, fosse altrettanto bello; e non sospettiamo che la morte, che camminava dentro di noi su un altro piano, ha scelto proprio questo giorno per entrare in scena, tra pochi minuti, più o meno nell’istante in cui la vettura arriverà ai Champs-Élysées. Forse, chi è ossessionato dal terrore della singolarità tipica della morte troverà un che di rassicurante in quel genere di morte – in quel genere di primo contatto con la morte – perché essa vi assume un’apparenza nota, familiare, quotidiana.

M. Proust, La parte di Guermantes II

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori