Il narratore e Norpois su Bergotte

Mio Dio, disse il signor di Norpois (ispirandomi sul conto della mia intelligenza dubbi più seri di quelli dai quali ero normalmente straziato, nel momento in cui mi mostrava che qualcosa ch’io ponevo mille e mille volte al di sopra di me, che consideravo quanto di più nobile vi fosse al mondo, occupava per lui un infimo gradino nella scala dei valori da ammirare), non posso condividere questo punto di vista. Bergotte è quello che io definirei un virtuoso del flauto; bisogna riconoscere, del resto, che lo suona piacevolmente, sia pure con una buona dose di manierismo, di affettazione. Ma, in definitiva, non è altro che questo, e questo non è gran cosa. Mai, in quelle sue opere senza muscoli, si riesce a trovare una sorta di armatura. Niente azione – o pochissima – ma, soprattutto, nessuna gittata. I suoi libri difettano di base, o piuttosto non c’è base del tutto. In un’epoca come la nostra, in cui la crescente complessità della vita lascia appena il tempo di leggere, in cui la carta d’Europa ha subìto rimaneggiamenti profondi e sta per subirne forse ancora più grandi, in cui tanti problemi nuovi e minacciosi s’affacciano da ogni parte, converrete con me che si ha il diritto di chiedere a uno scrittore d’esser qualcosa di diverso da un bell’ingegno capace di farci dimenticare, con disquisizioni oziose e bizantine intorno a meriti puramente formali, che da un momento all’altro possiamo essere invasi da una doppia marea di barbari, quelli di fuori e quelli di dentro. Lo so bene, sto bestemmiando contro la Sacrosanta Scuola di quella che codesti signori chiamano l’Arte per l’Arte, ma al giorno d’oggi vi sono compiti più urgenti che non congegnare parole in modo armonioso. Quello di Bergotte è, a volte, un modo abbastanza seducente, non lo nego, ma alla resa dei conti è molto lezioso, molto esile, e molto poco virile. Inquadro meglio, ora, riferendole alla vostra ammirazione invero esagerata per Bergotte, le poche righe che m’avete mostrate poco fa e sulle quali sarebbe ingeneroso, da parte mia, non passare la spugna, dal momento che voi stesso m’avete detto, in tutta semplicità, di considerarle solo uno scarabocchio infantile (lo avevo detto, infatti, ma non pensandolo affatto). Per ogni peccato c’è remissione, soprattutto per i peccati di gioventù. Ben altri che voi, in fin dei conti, ne hanno di simili sulla coscienza, e non siete il solo ad essersi creduto poeta a suo tempo. Ma si vede, in quel che m’avete mostrato, la cattiva influenza di Bergotte. Non vi stupirò, evidentemente, dicendovi che non c’è traccia delle sue qualità, poiché Bergotte è maestro nell’arte, d’altronde assai superficiale, d’un certo stile di cui, alla vostra età, non potete possedere nemmeno i rudimenti. Ma compare già lo stesso difetto, l’assurdità d’allineare parole che suonino bene senza preoccuparsi della sostanza se non a cose fatte. Questo vuol dire mettere il carro davanti ai buoi. Nei libri stessi di Bergotte, tutte quelle cineserie formali, tutte quelle sottigliezze da mandarino smidollato mi sembrano assolutamente vane. Per qualche fuoco d’artificio lanciato con grazia da uno scrittore, subito si grida al capolavoro. I capolavori non sono così numerosi! Bergotte non ha al suo attivo, nel suo bagaglio se così posso esprimermi, un romanzo che voli un po’ alto, uno di quei libri che si collocano nello scaffale buono della biblioteca. Non ne vedo neanche uno nella sua produzione. Ciò non toglie che, in lui, l’opera sia infinitamente superiore all’autore. Ah! ecco un caso che conferma l’opinione di quell’uomo d’ingegno secondo il quale dobbiamo conoscere gli scrittori solo attraverso i loro libri. Impossibile trovare un individuo che corrisponda meno ai propri scritti, un uomo più presuntuoso, più pomposo, più sgradevole. A tratti volgare, uno che parla agli altri come un libro stampato, e neppure come un libro suo, ma come un libro noioso (e questo difetto, almeno, i suoi libri non l’hanno), tale è Bergotte. È un intelletto dei più confusi, lambiccato, quello che i nostri padri chiamavano un farcitor di parole, e rende ancora più spiacevoli, col suo modo di enunciarle, le cose che dice. Non so se sia Loménie o Sainte-Beuve a raccontare che Vigny disgustava per lo stesso difetto. Ma Bergotte non ha mai scritto né Cinq-Mars, né Le Cachet rouge, dove certe pagine sono autentici brani d’antologia.

Distrutto dal giudizio di Norpois sul frammento che gli avevo sottoposto, pensando d’altronde alle difficoltà nelle quali m’imbattevo quando volevo scrivere una pagina o dedicarmi semplicemente a qualche seria riflessione, ebbi una volta di più la sensazione della mia nullità intellettuale e della mia inettitudine alla letteratura. Un tempo, a Combray, certe impressioni assai modeste, o una lettera di Bergotte, mi avevano indubbiamente immerso in un fantasticare che mi era parso di grande valore. Ma erano proprio quelle fantasticherie che il mio poema in prosa rifletteva: e Norpois, certo, ne aveva còlto e messo in luce ciò che a me sembrava bello solo per effetto di un ingannevole miraggio del quale lui, l’Ambasciatore, non era vittima. Anzi, mi aveva rivelato quale infima collocazione fosse la mia (quando a giudicarmi dall’esterno, obiettivamente, fosse il meglio disposto e il più intelligente degli intenditori). Mi sentivo costernato, rimpicciolito; e il mio intelletto, simile a un fluido le cui uniche dimensioni sono quelle del recipiente messogli a disposizione, come prima si era dilatato sino a colmare le immense capacità del genio, così adesso, contrattosi, rientrava per intero nell’angusta mediocrità in cui il signor di Norpois l’aveva repentinamente rinchiuso e confinato.

M. Proust, Intorno a Madame Swann

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori