Odette s’era un po’ svanita

Odette, ahimè, non sarebbe rimasta sempre così. Meno di tre anni dopo l’avrei rivista a una serata in casa di Gilberte, non proprio rimbambita, ma un po’ svanita, e ormai incapace di nascondere sotto una maschera immobile quello che pensava (no, pensava è dir troppo: quello che provava), scrollare la testa, stringere le labbra, scuotere le spalle a ogni impressione cui soggiaceva, come farebbe un ubriaco, un bambino, come fanno certi poeti che non tengono conto di chi gli sta intorno e, ispirati, compongono in società, e mentre accompagnano a tavola, dandole il braccio, una signora sbalordita, aggrottano le sopracciglia e arricciano il naso.

[…]

Furtivamente Madame de Forcheville lanciava, con i suoi occhi rimasti così belli, uno sguardo sugli interlocutori ingiuriosi, poi rapidamente lo richiamava a sé temendo d’esser stata scortese; e purtuttavia, agitata dall’offesa, tacendo la sua flebile indignazione, si vedeva la sua testa tremolare, il suo petto sollevarsi, gettava un nuovo sguardo su un altro invitato scortese, ma senza stupirsi poi tanto giacché, sentendosi molto male da qualche giorno, aveva suggerito con mezze parole alla figlia di rimandare la festa, ma la figlia s’era rifiutata di farlo.

[…]

Nuovi invitati beffardi la fecero nuovamente guardare e parlare da sola, se si può definire parlare un linguaggio muto che si traduce soltanto in gesticolazioni. Ancora bellissima, era diventata – cosa che non era mai stata – infinitamente simpatica; perché, adesso, lei che aveva ingannato Swann e tutti quanti, l’universo intero la ingannava; ed era diventata talmente debole che non osava neanche più, i ruoli essendosi invertiti, difendersi dagli uomini. E presto non si sarebbe difesa dalla morte.

 

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Odette non era cambiata

Partiamo dall’idea che le persone siano rimaste le stesse, e le troviamo vecchie. Ma se l’idea da cui partiamo è che siano ormai vecchie, non le troviamo poi, rivedendole, tanto male. Per Odette non si trattava solo di questo; il suo aspetto, a chi conosceva la sua età e si aspettava una vecchia, appariva come una sfida alle leggi della cronologia, più miracolosa di quella della conservazione del radio alle leggi della natura. Se non la riconobbi subito, non fu perché fosse cambiata, ma perché non lo era. Essendomi reso conto, nel corso dell’ultima ora, di quanto di nuovo il tempo aggiungeva agli esseri ed era necessario eliminare per ritrovarli quali li avevo conosciuti, facevo ora rapidamente quel calcolo e, aggiungendo all’Odette d’una volta il numero degli anni passati su di lei, il risultato che ottenni fu una persona che mi parve non poter essere quella che avevo davanti agli occhi, proprio perché era uguale a quella d’allora. Quanta parte avevano il trucco, la tintura? Sembrava, sotto i capelli dorati e tutti lisci – sorta di chignon arruffato da grossa bambola meccanica su un viso anch’esso da bambola, stupefatto e immutabile – cui si sovrapponeva un cappello di paglia, piatto come i capelli, da Esposizione del 1878 (di cui sarebbe certo stata a suo tempo, e soprattutto se avesse avuto allora l’età di oggi, la più fantastica attrazione), sembrava che fosse lì per eseguire il suo numero in una rivista di fine anno: ma l’Esposizione del 1878 rappresentata da una donna ancora giovane.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Sulla gelosia

Se pure la sua vita quotidiana offre confortanti scene di comune affetto e di comune confidenza, il geloso non può fare a meno di sdoppiarle e vederne il rovescio. Ed ecco che prende a tormentarsi con una visione nella quale la persona amata gli appare diversa, un’altra: ora lei offre il suo sguardo, il suo sorriso, il suo corpo a un amante e mentre lo fa gode del tormento inflitto a lui, il geloso. La visione si impone come se lo scenario fosse stato costruito apposta per lui da quel regista perverso e raffinato che è il suo Io antitetico, il suo Io angosciato e rabbioso; e non importa che ciò che l’Io antitetico gli suggerisce sia vero soltanto frutto della sua immaginazione.

Ascoltiamo il più grande esperto di gelosia della letteratura di ogni epoca, Marcel Proust. Il personaggio che campeggia nei primi volumi della Ricerca del tempo perduto, Swann, ricorda le scene d’amore con Odette, la sua amante, immerso in un’ansia continua. Gli viene alla mente un moto languido di Odette nei suoi confronti, ed ecco che subito comincia il tormento:

“Ma subito, la gelosia, quasi fosse l’ombra del suo amore, si completava col duplicato di quel nuovo sorriso che lei gli aveva rivolto la sera stessa – e che adesso, capovolto, canzonava Swann e si colmava di amore per un altro – col duplicato di quel capo reclino, ma voltato verso altre labbra, e donati a un altro tutti i segni di tenerezza che aveva avuto per lui. […] Tanto che giungeva a rammaricarsi di ogni piacere che godeva accanto a lei, di ogni carezza inventata di cui aveva avuto l’imprudenza di farle notare la dolcezza, di ogni grazia che le scopriva, perché sapeva che un istante dopo avrebbero arricchito di nuovi strumenti il proprio supplizio”.

Swann non è tormentato dalle prove oggettive di un tradimento, ma dal suo stesso pensiero, che duplica in uno scenario opposto e perverso i ricordi dei piaceri d’amore. Questa duplicazione, quest’ombra perversa che accompagna l’oggetto, è la stessa ombra perversa di Swann: lui non crede nell’amore di Odette e non vuole abbandonarvisi, infatti Proust annota: «Tanto che giungeva a rammaricarsi di ogni piacere che godeva accanto a lei, […] di ogni grazia che le scopriva, perché sapeva che un istante dopo avrebbero arricchito di nuovi strumenti il proprio supplizio».

Sapeva che la sua stessa ostilità a cedere al potere seduttivo di Odette avrebbe trasformato ogni segno d’amore in un segno rovesciato di esclusione. Detto in termini ancora più chiari: Swann è preda dell’amara consapevolezza di essere in fondo lui stesso un miscredente dell’amore: non appena il suo cuore l’avesse riconsegnato, come un bambino, nelle mani della sua amata, in quello stesso istante, come a irridere e deformare il sentimento in atto, il suo regista interiore, il suo Io opposto e antitetico, gli avrebbe rovesciato l’immagine dell’amata mostrandogliela come un mostro osceno e traditore. Egli conosce il “vizio” della sua mente: un attimo prima egli è estasiato fra le braccia di lei, un attimo dopo la sua immaginazione lo offre in pasto all’angoscia di annientamento.

In fondo, osserva Proust, Swann odia il suo amore per Odette, forse odia qualunque amore, perché l’amore induce una dipendenza dall’amato che egli vive come sconfitta, prigionia e tortura: la tortura di essere legato a qualcuno che ha il potere di escluderlo, di ignorarlo, di annientarlo. Il desiderio di amore è reso ansioso dall’angoscia del legame, dall’abissale certezza di dipendere da un altro essere umano, un essere umano di cui in fondo non si conosce la vera natura.

L’ambiguità del geloso sta tutta in questa indecisione: vorrà abbandonarsi all’amore e vivere lo smarrimento amoroso – la dissoluzione dell’Io e la creazione del Noi – rassegnandosi alla potenza dei sentimenti; o piuttosto se ne vorrà difendere  attribuendo all’altro (vera o meno che sia) la crudeltà dell’ingannatore e del dominatore?

Poiché teme di perdere il controllo sul proprio Io, cedendo all’amore egli di fatto questo controllo lo ha già perso, ma se ne rammarica, e fa della lotta contro di sé (rovesciata nella lotta contro il partner) la ragione ossessiva della sua vita. Finché è geloso non è davvero innamorato, quindi è ancora “forte”; finché è geloso non è davvero innamorato, quindi non è “ostaggio” di un potenziale persecutore. La gelosia è la più sottile forma di narcisismo, una difesa dall’amore che simula il massimo dell’amore.

Nicola Ghezzani, L’ombra di Narciso

Edvard Munch, Occhi negli occhi

Guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”. William Shakespeare