Elstir e il ritratto di Odette

Camminavo su e giù, impaziente che finisse il suo lavoro; sollevavo, per guardarli, certi studi girati contro la parete e accatastati in gran numero gli uni sugli altri. M’accadde, così, di portare alla luce un acquerello che doveva risalire a un periodo molto anteriore della vita di Elstir, e che mi colpì per quella particolare specie d’incanto di cui sono dispensatrici alcune opere non soltanto di squisita fattura, ma anche di soggetto così singolare e seducente che tendiamo ad attribuirgli una parte del loro fascino, come se il pittore non avesse dovuto fare altro che scoprirlo, questo fascino, osservarlo già materialmente realizzato in natura, e riprodurlo. Che oggetti simili possano esistere, belli anche a prescindere dall’interpretazione dell’artista, è qualcosa che appaga in noi un materialismo innato, combattuto dalla ragione, e fa da contrappeso alle astrazioni dell’estetica. Era, quell’acquerello, il ritratto di una giovane donna non bella, ma d’un tipo curioso, con un copricapo abbastanza simile a una bombetta bordata d’un nastro di seta color ciliegia; in una delle due mani, che erano infilate in mezziguanti, teneva una sigaretta accesa, mentre con l’altra reggeva all’altezza del ginocchio una specie di grande cappello da giardino, semplice schermo di paglia contro il sole. Accanto a lei, su un tavolo, un portafiori traboccante di rose. Spesso, come nella fattispecie, la singolarità di queste opere dipende soprattutto dall’essere state eseguite in determinate condizioni di cui, in un primo momento, non ci rendiamo chiaramente conto: se, ad esempio, lo strano abbigliamento d’un modello femminile sia un travestimento da ballo in maschera, o se, viceversa, il mantello scarlatto di un vecchio, che sembra averlo indossato solo per accondiscendere a una fantasia del pittore, sia la sua toga da professore o consigliere oppure la sua mozzetta da cardinale. Il carattere ambiguo dell’essere il cui ritratto mi stava sotto gli occhi dipendeva, senza ch’io lo potessi capire, dal fatto che si trattava d’una giovane attrice d’altri tempi, parzialmente vestita da uomo. Ma la bombetta, sotto la quale i capelli erano vaporosi benché corti, la giacca di velluto senza revers aperta su uno sparato bianco, mi fecero esitare circa la datazione di quella moda e il sesso del modello, di modo che non sapevo esattamente cosa avessi sotto gli occhi, se non la più nitida delle pitture. E il piacere che mi ispirava era turbato solo dal timore che Elstir, attardandosi ancora, mi facesse perdere l’incontro con le fanciulle, giacché nella finestrella il sole era già basso e obliquo. Nulla, in quell’acquerello, era semplicemente constatato di fatto e dipinto in funzione della sua utilità nella scena, l’abito perché bisognava che la donna fosse vestita, il portafiori per i fiori. Il vetro del portafiori, amato per se stesso, sembrava racchiudere l’acqua, dov’erano immersi i gambi dei garofani, in qualcosa d’altrettanto limpido, di quasi altrettanto liquido quanto l’acqua stessa; l’abbigliamento della donna ne avvolgeva la figura in una materia dotata d’un fascino indipendente, fraterno e, se i prodotti dell’industria potessero rivaleggiare in fatto d’incantesimi con le meraviglie della natura, non meno delicata, gustosa al tatto, dipinta con non minore freschezza, del pelo d’una gatta, dei petali d’un garofano, delle piume d’una colomba. Il candore dello sparato, fine come nevischio, con campanule simili a quelle del mughetto nella frivola plissettatura, era costellato dei luminosi riflessi della stanza, aguzzi anch’essi, e morbidamente sfumati, come mazzolini di fiori che avessero broccato il tessuto. E nel velluto della giacca, lucente e madreperlaceo, c’era qua e là qualcosa di ispido, frammentato e villoso che rimandava all’arruffio dei garofani nel vaso. Ma, più ancora, si sentiva che Elstir, senza affatto curarsi di quel che potesse esserci d’immorale nel travestimento della giovane attrice, per la quale il talento nell’interpretare la parte contava certo meno dell’intrigante seduzione che avrebbe esercitato sui sensi disincantati o perversi di certi spettatori, aveva insistito, al contrario, proprio su quei tratti d’ambiguità come su un elemento estetico meritevole d’esser messo in rilievo, facendo di tutto per sottolinearlo. Lungo le linee del volto, il sesso sembrava sul punto di confessarsi per quello d’una ragazza un po’ mascolina, poi svaniva, riappariva più in là a suggerire, stavolta, l’idea d’un giovane effeminato, vizioso e sognatore, e di nuovo fuggiva, restando inafferrabile. La pensosa tristezza dello sguardo, proprio per il suo contrasto con quegli accessori appartenenti al mondo della crapula e del teatro, non era quel che turbasse di meno. Si pensava, del resto, che dovesse trattarsi d’una tristezza simulata e che, probabilmente, la giovane creatura che sembrava offrirsi alle carezze in quelle vesti provocanti avesse trovato piccante aggiungervi l’espressione romanzesca d’un sentimento segreto, d’una pena inconfessata.

[…]

La lezione di Elstir

A tali pensieri, ruminati in silenzio al fianco di Elstir mentre lo riaccompagnavo a casa, stava trascinandomi la scoperta, appena fatta, relativa all’identità del suo modello, quando questa prima scoperta me ne fece fare una seconda, ancora più sconvolgente per me, relativa all’identità dell’artista. Aveva dipinto il ritratto di Odette de Crécy. Era dunque possibile che quell’uomo di genio, quel saggio, quel solitario, quel filosofo dalla conversazione magnifica e capace di dominare ogni cosa, fosse il pittore ridicolo e perverso adottato un tempo dai Verdurin? Gli chiesi se li avesse conosciuti, se per caso non lo soprannominassero, allora, “signor Biche”. Mi rispose di sì, senza imbarazzo, come se si trattasse di una parte già relativamente antica della sua esistenza e non sospettasse affatto la straordinaria delusione che destava in me; ma, alzando gli occhi, la lesse sul mio viso. Il suo assunse un’espressione di scontento. E poiché eravamo già quasi arrivati a casa sua, un uomo meno eccezionale per intelligenza e cuore si sarebbe limitato, forse, a dirmi arrivederci, un po’ seccamente, e in seguito avrebbe evitato di rivedermi. Ma non fu questo il comportamento di Elstir nei miei confronti; da vero maestro – e forse, dal punto di vista della creazione pura, il suo solo difetto era d’essere un maestro in quest’accezione del termine, perché un artista, per calarsi interamente nella verità della vita spirituale, dev’essere solo e non prodigare nulla del suo io, neppure a eventuali allievi –, in ogni circostanza, si riferisse a lui o ad altri, cercava di mettere in luce, per una migliore formazione dei giovani, la parte di verità che conteneva. Alle parole che avrebbero potuto vendicare il suo amor proprio preferì quelle che potevano istruirmi. “Non c’è uomo, per quanto saggio, mi disse, che in un certo periodo della sua giovinezza non abbia pronunciato parole, o addirittura condotto una vita, il cui ricordo gli risulti sgradevole e che vorrebbe poter cancellare. Ma non deve assolutamente rammaricarsene, perché non può nutrire alcuna certezza d’essere diventato un saggio, nella misura in cui ciò è possibile, se non è passato attraverso tutte le incarnazioni odiose o ridicole che devono precedere quest’ultima incarnazione. So che ci sono dei giovani, figli e nipoti d’uomini distinti, ai quali i precettori hanno insegnato, sin dal collegio, la nobiltà dell’intelletto e l’eleganza morale. Costoro, forse, non hanno nulla da estirpare dalla loro vita, potrebbero pubblicare e sottoscrivere tutto ciò che hanno detto, ma sono spiriti poveri, discepoli esausti di maestri pedanti, e la loro saggezza è negativa e sterile. La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria. Capisco che l’immagine di quel che siamo stati in una prima fase non sia più riconoscibile e, comunque, colpisca sgradevolmente. Non per questo dev’essere rinnegata, perché testimonia che abbiamo veramente vissuto, che dagli elementi comuni della vita – la vita degli ateliers, degli ambienti artistici se si tratta di un pittore – abbiamo saputo estrarre, secondo le leggi della vita e dell’intelligenza, qualcosa che li trascende”.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori