Non aveva detto rompere ma farmi rompere

Ma la mia memoria continuava ad essere ossessionata da quella parola, “rompere”. Albertine diceva spesso “rompere il muso”, “rompere le scatole”, o più semplicemente “mi ha rotto” per dire che qualcuno l’aveva annoiata. Ma lo diceva tranquillamente davanti a me, e se fosse stato questo che aveva voluto dire, perché tacere bruscamente, perché arrossire così forte, mettersi le mani sulla bocca, rifare del tutto diversamente la frase e, accortasi che avevo sentito bene la parola “rompere”, tirar fuori una falsa spiegazione?

[…]

Ma, mentre lei parlava, proseguiva in me, nel sonno vivo e creatore dell’inconscio (sonno in cui finiscono di incidersi le cose che ci hanno soltanto sfiorati, in cui le mani addormentate si impadroniscono della chiave giusta, cercata invano sino a quel momento), la ricerca di cosa Albertine avesse voluto dire con la frase interrotta della quale avrei voluto conoscere la fine. E tutt’a un tratto mi caddero addosso due parole atroci, a cui non avevo minimamente pensato: “il culo”. Non posso dire che vennero d’un sol colpo, come quando, in una lunga sottomissione passiva a un ricordo incompleto, pur cercando piano piano, con prudenza, di estenderlo, si rimane piegati, appiccicati ad esso. No, contrariamente al mio modo abituale di ricordare vi furono, credo, due vie parallele di ricerca, e una teneva conto non soltanto della frase di Albertine, ma del suo sguardo esasperato quando le avevo proposto di regalarle del denaro per dare un bel pranzo, uno sguardo che sembrava dire: “Grazie, spendere del denaro per delle cose che mi annoiano quando senza denaro ne potrei fare che mi divertono!”. E fu, forse, il ricordo di quel suo sguardo a farmi cambiare metodo per trovare la fine di ciò che Albertine aveva voluto dire. Sino a quel momento mi ero lasciato ipnotizzare dall’ultima parola: “rompere”; rompere che cosa? che cosa aveva voluto dire? Rompere il muso? No. Le scatole? No. Rompere, rompere, rompere. E, di colpo, il ritorno allo sguardo, accompagnato da un’alzata di spalle, con cui Albertine aveva reagito alla mia proposta di dare un pranzo, mi fece retrocedere in modo analogo anche nelle parole della sua frase. E così vidi che non aveva detto “rompere”, ma “farmi rompere”. Orrore! era questo che Albertine avrebbe preferito. Doppio orrore! perché nemmeno l’ultima delle puttane, che vi consenta o lo desideri, usa con l’uomo che vi si accinge questa schifosa espressione. Se ne sentirebbe troppo avvilita. Solo con una donna, se ama le donne, può dire così per scusarsi se, fra poco, si darà a un uomo. Albertine non aveva mentito dicendomi che stava mezzo sognando. Distratta, impulsiva, non pensando che era con me, aveva alzato le spalle, s’era messa a parlare come avrebbe fatto con una di quelle donne, con, forse, una delle mie fanciulle in fiore. E bruscamente richiamata alla realtà, rossa di vergogna, ricacciandosi in gola quel che stava per dire, disperata, non aveva più voluto pronunciare una sola parola. Non avevo un secondo da perdere se volevo che non si accorgesse della disperazione in cui mi trovavo. Ma già, dopo il secondo soprassalto di rabbia, le lacrime mi salivano agli occhi.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori