Un ricordo, un dispiacere sono qualcosa di mobile

Alle sette mi vestivo e uscivo di nuovo per andare a pranzo con Saint-Loup nell’albergo che l’ospitava. Mi piaceva andarci a piedi. Era buio fondo, e dal terzo giorno cominciò a soffiare, come scendeva la sera, un vento gelido che sembrava annunciare la neve. Apparentemente non avrei dovuto mai smettere, mentre camminavo, di pensare a Madame de Guermantes; se avevo raggiunto Robert nella sua guarnigione, era soltanto per tentare di avvicinarmi a lei. Ma un ricordo, un dispiacere sono qualcosa di mobile. Ci sono giorni in cui se ne vanno così lontano che si scorgono appena, li crediamo partiti per sempre. È ad altre cose, allora, che prestiamo attenzione. E le vie di quella città non erano ancora per me come i luoghi dove viviamo abitualmente, semplici tramiti per spostarci da un punto a un altro. Mi sembrava che per gli abitanti di quel mondo sconosciuto la vita dovesse essere meravigliosa, e spesso le finestre illuminate di qualche caseggiato mi facevano sostare a lungo, immobile nella notte, mettendomi sotto gli occhi scene veridiche e misteriose di esistenze per me impenetrabili.

M. Proust, La parte di Guermantes I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il Narratore e il marchese di Saint-Loup

L’insolenza che intuivo nel signor di Saint-Loup, e tutto ciò ch’essa implicava in termini di naturale durezza, trovò conferma nel suo atteggiamento ogni volta che ci passava accanto, il corpo sempre inflessibilmente slanciato, la testa sempre ugualmente eretta, lo sguardo impassibile, no, impassibile è dir poco: implacabile, spoglio del sia pur vago rispetto che si ha per i diritti degli altri, anche se non conoscono vostra zia, il rispetto in nome del quale io non ero proprio lo stesso davanti a una vecchia signora e davanti a un lampione a gas.

[…]

Sia pure indirettamente, d’altronde, la stessa Madame de Villeparisis confermò i tratti essenziali – per me già evidenti – del carattere del nipote, un giorno in cui li incontrai entrambi lungo una strada così stretta che la marchesa non poté esimersi dal presentarmi a lui. Parve non sentire che gli si faceva il nome di qualcuno, non un muscolo del suo viso si mosse; gli occhi, in cui non s’accese la minima luce di simpatia umana, si limitarono a mostrare nell’insensibilità, nella vacuità dello sguardo un’esagerazione in assenza della quale nulla avrebbe potuto distinguerli da specchi senza vita. Poi, fissandomi con quegli occhi duri come se avesse voluto informarsi sul mio conto prima di restituirmi il saluto, ebbe uno scatto così brusco da far pensare a un riflesso muscolare piuttosto che a un atto di volontà e, steso il braccio per tutta la lunghezza, quasi a frapporre fra lui e me il maggior spazio possibile, mi diede, a distanza, la mano. Quando, l’indomani, mi fece consegnare il suo biglietto da visita, pensai che si trattasse, come minimo, di un duello. Invece mi parlò soltanto di letteratura, e dopo una lunga chiacchierata dichiarò che era suo vivissimo desiderio vedermi parecchie ore ogni giorno.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori