Nelle smisurate sere d’estate

Come è lento a morire il giorno in quelle smisurate sere d’estate! Un pallido fantasma della casa di fronte continuava indefinitamente ad acquarellare sul cielo il suo persistente biancore. Finalmente in casa era notte, urtavo contro i mobili dell’anticamera, ma nella porta che dava sulle scale, in mezzo al nero che credevo totale, la parte vetrata era traslucida e azzurra, azzurra dell’azzurro d’un fiore, d’un ala d’insetto, un azzurro che mi sarebbe sembrato bello se non avessi sentito che era un ultimo riflesso, tagliente come acciaio, colpo supremo che ancora, nella sua infaticabile crudeltà, mi infliggeva il giorno. L’oscurità completa finiva tuttavia col venire, ma bastava allora una stella apparsa accanto all’albero del cortile per ricordarmi le nostre partenze in vettura, dopo pranzo, per i boschi di Chantepie tappezzati dal chiaro di luna. E persino giù in strada m’accadeva di isolare, di raccogliere sullo schienale d’una panchina, frammezzo alle luci artificiali di Parigi, la purezza naturale d’un raggio di luna, che faceva regnare sulla città, reimmergendola momentaneamente, per la mia fantasia, nella natura, il silenzio infinito dei campi evocati, e con esso il ricordo doloroso delle passeggiate che vi facevo al fianco di Albertine. Ah! quando sarebbe finita la notte? Ma alla prima frescura dell’alba rabbrividivo, perché mi riportava la dolcezza di quell’estate in cui da Balbec a Incarville, da Incarville a Balbec, ci eravamo riaccompagnati tante volte a vicenda sino alle prime luci del giorno.

Marcel Proust, Albertine scomparsa I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori