Nell’amore c’è una sofferenza perpetua

Così, né gli Swann né i miei genitori, vale a dire coloro che, in momenti diversi, era sembrato dovessero ostacolarla, facevano più la minima opposizione a questa dolce vita nel cui ambito potevo vedere Gilberte come volevo, con estasi, se non con calma. Di calma non ce ne può mai essere nell’amore, perché quel che si è ottenuto non è che un nuovo punto di partenza per desiderare dell’altro. Finché mi era stato impossibile andare a casa sua, e avevo tenuto gli occhi fissi verso quella felicità inaccessibile, non potevo nemmeno immaginare quali nuove cause di turbamento stessero lì ad aspettarmi. Infranta la resistenza dei suoi genitori, e risolto finalmente il problema, esso ricominciò a porsi, ogni volta in termini diversi. In questo senso, ogni giorno era davvero l’inizio di una nuova amicizia. Tutte le sere, tornando a casa, mi rendevo conto di dover dire a Gilberte delle cose capitali, da cui dipendeva la nostra amicizia, e queste cose non erano mai le stesse. Ma, dopotutto, ero felice, e più nessuna minaccia s’ergeva contro la mia felicità. Si tratta, in amore, di uno stato anormale, capace di dare subito all’incidente in apparenza più semplice, e che può sempre capitare, una gravità ch’esso, di per sé, non implicherebbe. A rendere così felici è la presenza nel cuore di qualcosa di instabile, che continuamente facciamo in modo di trattenere e di cui quasi non ci accorgiamo fin tanto che non si sposta. In realtà, nell’amore c’è una sofferenza perpetua, che la gioia neutralizza, rende virtuale, rinvia, ma che in qualsiasi momento può diventare quale sarebbe da tempo se non si fosse ottenuto quanto si sperava: atroce.

[…]

L’ultima volta che andai a trovare Gilberte, pioveva; lei era stata invitata a una lezione di danza in casa di gente che conosceva troppo poco per potermi portare con sé. Avevo preso, a causa dell’umidità, più caffeina del solito. Forse per il maltempo, forse per qualche prevenzione contro la casa dove avrebbe avuto luogo il trattenimento, Madame Swann, nel momento in cui la figlia stava per uscire, la richiamò con estrema vivacità: “Gilberte!”, e mi additò, come a dire: è venuto per te, devi restare con lui. Quel “Gilberte” era stato pronunciato, anzi gridato, con intenzione benevola nei miei confronti, ma dall’alzata di spalle che fece Gilberte mentre si spogliava, capii che sua madre aveva, involontariamente, accelerato l’evoluzione – forse, fino a un attimo prima, ancora arrestabile – che a poco a poco la staccava da me. “Non è obbligatorio andare a ballare tutti i giorni”, disse Odette alla figlia, con un buonsenso che aveva certo appreso, in altri tempi, da Swann.

[…]

Alla fine, Madame Swann ci lasciò. Quel giorno, forse per rancore verso di me, causa involontaria del suo mancato divertimento, fors’anche perché, immaginandola irritata, io ero preventivamente più freddo del solito, il volto di Gilberte, spoglio di ogni gioia, nudo, devastato, per tutto il pomeriggio sembrò celebrare un malinconico rimpianto del pas-de-quatre che la mia presenza le impediva d’andare a danzare, sfidando tutti gli esseri umani, me per primo, a comprendere le sottili ragioni che avevano determinato in lei un’inclinazione sentimentale per il boston. Si limitò a scambiare con me, di tanto in tanto, sul tempo, sulla recrudescenza della pioggia, sul fatto che la pendola era in anticipo, una conversazione punteggiata di silenzi e di monosillabi nella quale io stesso m’intestardivo, con una sorta di rabbia disperata, a distruggere gli istanti che avremmo potuto dedicare all’amicizia e alla felicità. E a tutti i nostri discorsi conferiva una durezza suprema il parossismo della loro paradossale mancanza di significato, che per altro mi consolava, impedendo a Gilberte di lasciarsi ingannare dalla banalità delle mie riflessioni e dall’indifferenza del mio tono.

M. Proust, Intorno a Madame Swann

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori