Tempo

Provavo un senso di stanchezza e di spavento a sentire che tutto quel tempo così lungo non solo era stato, senza una sola interruzione, vissuto, pensato, secreto da me, non solo era la mia vita, non solo era me stesso, ma anche che dovevo tenerlo ogni minuto attaccato a me, che mi faceva da sostegno, a me che, appollaiato sulla sua sommità vertiginosa, non potevo muovermi senza spostarlo come potevo invece fare con lui. La data in cui sentivo il rumore della campanella del giardino di Combray, così lontana eppure così interiore, era un punto di riferimento in quella dimensione enorme che non sapevo di possedere. Avevo le vertigini vedendo sotto di me, eppure in me, come se la mia altezza fosse di leghe, un tale numero d’anni.

Adesso capivo perché il duca di Guermantes, di cui, guardandolo quando era seduto su una sedia, avevo ammirato quanto poco fosse invecchiato sebbene avesse sotto di sé tanti anni più di quelli che avevo io, non appena si era alzato e s’era sforzato di reggersi in piedi aveva vacillato su due gambe malferme come quelle di quei vecchi arcivescovi che non hanno più nulla di solido tranne la loro croce di metallo e attorno ai quali s’affaccendano giovani seminaristi gagliardi, e non era poi riuscito ad avanzare che tremando come una foglia sulla poco praticabile cima dei suoi ottantatre anni, come se gli uomini fossero appollaiati su viventi trampoli che aumentano senza sosta sino a diventare, a volte, più alti di campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da cui improvvisamente precipitano. (Era per questo che il volto degli uomini d’una certa età era così impossibile confonderlo, anche per gli occhi dei più ignari, con quello d’un giovane, e non appariva che attraverso una sorta di nuvola di serietà?) Mi spaventava che i miei fossero già così alti sotto i miei passi,  mi sembrava che non avrei avuto ancora a lungo la forza di tenere attaccato a me quel passato che scendeva già a tale lontananza. Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo sufficiente a compiere la mia opera, non avrei dunque mancato di descrivervi innanzitutto gli uomini, a costo di farli sembrare mostruosi, come esseri che occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poiché toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo.

FINE*

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

*Secondo la testimonianza di Céleste Albaret, la parola “Fin.” fu apposta da Proust al manoscritto “all’inizio della primavera del 1922”: “Cara Céleste, ora glielo dico. È una grande notizia. Stasera ho messo la parola ‘fine’…Adesso posso morire”.

Quel tintinnio

Se era questa nozione del tempo incorporato, degli anni passati come non separati da noi, che io avevo ora intenzione di mettere così fortemente in rilievo, era perché in quello stesso momento, nel palazzo del principe di Guermantes, il rumore dei passi dei miei genitori che accompagnavano il signor Swann, il tintinnio saltellante, ferruginoso, instancabile, stridulo e fresco della campanella, annuncio che il signor Swann se n’era finalmente andato e che la mamma stava per salire, io li sentii ancora, sentii proprio loro, pur situati così lungi nel passato. Allora, pensando a tutti gli avvenimenti che si collocavano per forza di cose fra l’istante in cui li avevo sentiti e il ricevimento Guermantes, mi fece spavento pensare che fosse proprio quella campanella a tintinnare ancora dentro di me, senza ch’io potessi cambiare nulla alle note stridule del suo sonaglio, visto che, non ricordando più bene come si spegnessero, per riapprenderlo, per ascoltarlo bene, dovetti sforzarmi di non sentire più il suono delle parole che le maschere si scambiavano attorno a me. Per cercare di sentirlo più da vicino, ero costretto a ridiscendere in me stesso. Quel tintinnio, dunque, era sempre stato lì, e così, fra lui e l’istante presente, tutto quel passato indefinitamente trascorso che non sapevo di portare con me. Quando la campanella aveva suonato io esistevo già, e dopo, perché sentissi ancora quel tintinnio, bisognava che non ci fosse stata discontinuità, che nemmeno per un istante avessi cessato, mi fossi preso il riposo di non esistere, di non pensare, di non avere coscienza di me, giacché quell’istante lontano stava ancora in me, potevo ritrovarlo, tornare sino a lui, solo scendendo più profondamente in me. Ed è perché contengono così le ore del passato che i corpi umani possono fare tanto male a chi li ama, perché contengono tanti ricordi di gioie e di desideri già cancellati per loro, ma tanto crudeli per chi contempla e prolunga nell’ordine del tempo il corpo adorato di cui è geloso, geloso fino a sperarne la distruzione. Infatti dopo la morte il Tempo si ritira dal corpo, e i ricordi – così indifferenti, così sbiaditi – sono cancellati da colei che non è più e presto lo saranno da colui che ancora torturano, ma nel quale finiranno col perire quando il desiderio di un corpo vivo smetterà di alimentarli. Profonda Albertine che io vedevo dormire e che era morta.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Il prezzo quotato dal desiderio

Persino il fascino della duchessa di Guermantes, come quello di certe pagine di Bergotte, mi era visibile solo a distanza e svaniva quando le stavo accanto, perché risiedeva nella mia memoria e nella mia immaginazione. Ma in fin dei conti, e malgrado tutto, i Guermantes, come anche Gilberte, differivano dall’altra gente di mondo perché avevano radici più profonde in un passato della mia vita in cui sognavo di più e credevo di più agli individui. In ciò che possedevo con noia, conversando nel frattempo con questa e con quella, c’erano almeno le fantasie della mia infanzia che avevo trovate più belle e credute più inaccessibili, e potevo consolarmi confondendo, come un commerciante che s’imbroglia nei suoi registri, il valore del loro possesso col prezzo a cui le aveva quotate il mio desiderio.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori