Il bel velluto degli anni

Come un secchio che risale lungo un verricello va a toccare la corda a più riprese e su lati opposti, non un solo personaggio, non una sola cosa, quasi, che avesse avuto un posto nella mia vita, non vi aveva sostenuto via via ruoli diversi. Un semplice incontro mondano, persino un oggetto materiale, se lo ritrovavo dopo qualche anno nel ricordo vedevo che la vita non aveva smesso di tessergli intorno fili diversi che finivano col rivestirlo del bel velluto inimitabile degli anni, simile a quello che nei vecchi parchi avvolge una semplice conduttura dell’acqua in una pellicola di smeraldo.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Pronunciai allora la parola “morte”

So che pronunciai allora la parola “morte”, come se Albertine stesse per morire. Sembra che gli avvenimenti siano più vasti del momento in cui si verificano, e che questo non possa contenerli per intero. Certo è che essi debordano sul futuro grazie alla memoria che ne serbiamo, ma domandano un posto anche al tempo che li precede. Si dirà certo che noi, allora, non li vediamo quali saranno; ma non sono forse ugualmente modificati nel ricordo?

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

L’immagine di me stesso dentro il Tempo

Mia madre non parve molto contenta che mio padre non pensasse più, per me, alla “carriera”. Credo che, ansiosa soprattutto di vedere i capricci dei miei nervi disciplinati da una regola di vita, più della rinuncia alla diplomazia le dispiacesse l’adesione alla letteratura. “Ma lascia perdere, esclamò mio padre, prima di tutto bisogna appassionarsi a ciò che si fa. Non è più un bambino. Ormai sa bene quello che gli piace, è poco probabile che cambi, ed è in grado di capire cosa può renderlo felice nella vita”. In attesa d’essere o non essere felice nella vita grazie alla libertà che mi accordavano, le parole di mio padre, quella sera, mi straziarono. Da sempre le sue impreviste gentilezze mi avevano dato, quando si verificavano, una tale voglia di baciare al di sopra della barba le sue guance colorite, che se non mi ci abbandonavo era solo per non irritarlo. Quel giorno, simile a un autore che s’intimorisce vedendo come le sue fantasticherie, per lui prive di grande valore perché non le separa da se stesso, costringano un editore a scegliere una carta, a impiegare caratteri per esse forse troppo belli, mi chiedevo se il mio desiderio di scrivere fosse una cosa abbastanza importante per meritare tanta bontà prodigata da mio padre. Ma, soprattutto, parlando dei miei gusti che non sarebbero più cambiati, di ciò che era destinato a rendere felice la mia esistenza, egli insinuava in me due sospetti terribilmente dolorosi. Il primo era che (mentre ogni giorno mi consideravo come sulla soglia della mia vita, ancora intatta e pronta a debuttare soltanto l’indomani mattina) la mia esistenza fosse già cominciata – di più: che ciò che ne sarebbe seguito sarebbe stato molto diverso da ciò che era trascorso. Il secondo sospetto, che in realtà costituiva una semplice variante del primo, era ch’io non mi trovassi al di fuori del Tempo, bensì sottoposto alle sue leggi, esattamente come quei personaggi letterari che, proprio per questo, mi rattristavano talmente quando, a Combray, in fondo alla mia poltrona di vimini, leggevo la loro vita. Teoricamente uno sa che la terra gira, ma di fatto non se ne accorge, il suolo sul quale cammina sembra che non si muova, e si vive tranquilli. Lo stesso avviene col Tempo nella vita. E, per renderne percettibile la fuga, i romanzieri sono costretti ad accelerare follemente gli scatti della lancetta, facendo varcare al lettore dieci, venti, trent’anni in due minuti. All’inizio d’una pagina si è lasciato un amante pieno di speranza, alla fine della successiva lo si ritrova ottuagenario, mentre nel cortile di un ospizio compie faticosamente la sua passeggiata quotidiana, a stento in grado di rispondere a chi gli rivolge la parola, dimentico del passato. Dicendo di me: “Non è più un bambino, i suoi gusti non cambieranno più, ecc.”, mio padre aveva fatto apparire di colpo ai miei occhi l’immagine di me stesso dentro il Tempo, e mi causava un particolare genere di tristezza, come se fossi stato, non ancora il vecchio illanguidito dell’ospizio, ma uno di quegli eroi dei quali l’autore, in un tono che l’indifferenza rende particolarmente crudele, ci dice alla fine d’un libro: “Lascia sempre più di rado la campagna. Ha finito per stabilirvisi definitivamente, ecc.”.

M. Proust, Intorno a Madame Swann

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori