A cinquant’anni una nuova specie di bellezza

Avendo perduto i tratti in cui era scolpita, se non la giovinezza, almeno la bellezza, le donne avevano cercato se, con il viso che era loro rimasto, non fosse possibile farsene un’altra. Spostandone il centro, se non di gravità, almeno di prospettiva, componendogli intorno i lineamenti secondo un altro carattere, inauguravano a cinquant’anni una nuova specie di bellezza, così come si intraprende all’ultimo momento un nuovo mestiere o come a una terra che non vale più nulla per la vigna fanno produrre barbabietole. Attorno a quei nuovi lineamenti si faceva fiorire una nuova giovinezza. Le sole a non potersi giovare di queste trasformazioni erano le donne troppo belle, o quelle troppo brutte. Le prime, scolpite come un marmo dalle linee troppo definitive perché vi si possa cambiare alcunché, si sgretolavano come statue. Le seconde, se avevano qualcosa di deforme nel volto, godevano persino, rispetto alle belle, di qualche vantaggio. Innanzitutto, erano le sole che si riconoscessero immediatamente. Si sapeva che a Parigi non esistevano due bocche simili, e la loro me le rendeva riconoscibili a quel ricevimento dove non riconoscevo più nessuno. E poi non sembrava nemmeno che fossero invecchiate. La vecchiaia è qualcosa d’umano; loro erano dei mostri, e il loro aspetto non appariva più “cambiato” di quello d’una balena.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

La vecchia, poi la giovane, poi ancora la vecchia

[…] infatti, se si stenta a credere che un morto sia stato vivo o che chi era vivo sia oggi morto, è quasi altrettanto difficile, e d’una difficoltà dello stesso genere (perché l’annientamento della giovinezza, la distruzione d’una persona piena di forze e di lievità è già un primo nulla), concepire che colei che è stata giovane sia vecchia, dal momento che l’aspetto di questa vecchia, giustapposto a quello della giovane, sembra escluderlo a tal punto che è a volta a volta la vecchia, poi la giovane, poi ancora la vecchia ad apparirci come un sogno e non si riesce a credere che questa possa essere stata quella, che la medesima materia di quella possa, senza rifugiarsi altrove, grazie alle sapienti manipolazioni del tempo, essere diventata questa, che si tratti della stessa materia rimasta senza abbandonarlo nello stesso corpo – se non si disponesse dell’indizio del nome uguale e della testimonianza affermativa degli amici, cui dà una parvenza di verosimiglianza solo quella rosa, stretta un tempo fra l’oro delle spighe, in risalto ora sotto la neve.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

Maestà fatale

Certi volti avevano già, sotto il loro cappuccio di capelli bianchi, la rigidità, le palpebre sigillate di chi sta per morire, e le loro labbra, agitate da un tremito perpetuo, sembravano biascicare la preghiera degli agonizzanti. A un viso le cui linee erano rimaste le stesse bastavano, perché sembrasse un altro, dei capelli bianchi al posto di capelli neri o biondi. I costumisti teatrali sanno che basta una parrucca incipriata per camuffare a sufficienza qualcuno e renderlo irriconoscibile. Il giovane conte di *** che avevo visto, allora sottotenente, nel palco di Madame de Cambremer il giorno che Madame de Guermantes era nella barcaccia di sua cugina, aveva sempre i suoi tratti, perfettamente regolari come prima e anzi di più, perché la rigidità fisiologica dell’arteriosclerosi esaltava ulteriormente l’impassibile fissità della sua fisionomia da dandy e conferiva a quei lineamenti la nitidezza intensa, e quasi ghignante a furia di immobilità, di uno studio di Mantegna o di Michelangelo. Il suo colorito, un tempo d’un rosso acceso, era adesso d’un solenne pallore; peli argentati, una lieve pinguedine, una nobiltà da doge, una stanchezza che si spingeva sino alla voglia di dormire, tutto concorreva in lui a dare un’impressione nuova e profetica di maestà fatale. Il rettangolo della barba bianca, che aveva sostituito un identico rettangolo di barba bionda, lo trasformava in modo così perfetto che, notando come il sottotenente che avevo conosciuto avesse ora cinque galloni, il mio pensiero fu di fargli le mie felicitazioni non per la promozione a colonnello, ma perché s’era travestito così bene da colonnello, prendendo in prestito – questa era l’impressione – l’uniforme e l’espressione grave e triste dell’ufficiale superiore che era stato suo padre.

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori