Si, c'era una volta "Faccetta nera" e c'era anche un popolo di brava ma povera gente che sognava di conquistare un Impero, non per ambizioni imperiali, ma convinto che in Etiopia ci fosse lavoro per tutti, da potere vivere meglio e pane a sufficienza per i figli. Arrivarono in Africa, in quel lontano 1935, cantando. "Se tu dall'altipiano guardi il mare, / moretta che sei schiava tra gli schiavi, / vedrai come in un sogno tante navi / e un tricolore sventolar per te". Da quelle navi sbarcarono, non solo soldati, ma anche operai di imprese stradali, guidatori di automezzi, scaricatori di porto, contadini, insegnanti... La prima parola che impararono era "Arcu" che, nella lingua locale, voleva dire "Amico". La nostra storia ha inizio alle ore 16,30 del 2 ottobre 1935, quando in tutta Italia, come ad un solo ordine. Le campane delle città e dei paesi, presero a suonare a festa, Le sirene delle fabbriche a fischiare e gli altoparlanti delle radio, tutti a chiamare a raccolta gli italiani. Nelle varie piazze, già predisposte per una adunata storica, il popolo italiano aveva lasciato le abitazioni e sospeso il lavoro, fermati i tram, chiusi i cinema e deserti i caffè. Il sole stava calando mentre dalle piazze salivano grida di gioia. Una folla numerosa era in attesa quando la voce di Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia: "Camicie Nere della rivoluzione, uomini e donne di tutta Italia, italiani sparsi oltre i monti e oltre i mari: ascoltate! .... Un'ora solenne sta per scoccare... abbiamo pazientato... Ora basta! .. Alla Lega delle Nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni... Alle sanzioni economiche, opporremo la nostra disciplina... Il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Ad atti di guerra risponderemo con atti di guerra! Nessuno pensi di piegarci senza aver duramente combattuto... Italia proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della rivoluzione! Italia in piedi! Fà che il grido della tua decisione riempia il cielo e sia di conforto ai soldati che attendono in Africa, di sprone a gli amici e di monito ai nemici in ogni parte del mondo: grido di giustizia, grido di vittoria". L'Italia presentava un vecchio conto che risaliva alla Conferenza di Pace di Parigi del primo dopoguerra, quando le altre nazioni vincitrici, si spartirono i possedimenti coloniali di Germania e Turchia lasciando all'Italia solo qualche briciola di deserto a Giuba e a Giarabub. Il problema dell'occupazione, per una nazione come l'Italia, costantemente in crescita era prioritario, scriverà Amintore Fanfani: "Per l'Italia l'Impero non è un lusso; è il necessario completamento delle nostre possibilità. Rinunziarvi significa il suicidio. Possederlo menomato, significa l'inedia. Potenziarlo e difenderlo è il benessere, la forza, l'impegno a svolgere una politica imperiale nel mondo". (1) In Italia, l'impresa africana era tanto sentita da venire chiamata la conquista di "un posto al sole", per dare la possibilità alla enorme emigrazione di braccia italiane di poter lavorare oltremare per sè e non per altri. Il Cardinale Schuster esaltava l'impresa etiopica, come "una specie di crociata cattolica". Fuoriusciti antifascisti come Massimo Rocco e Arturo Labriola si schierarono a favore dell'impresa africana. E, poi, nei giorni che seguirono era un cantare: "Osteria dei tre moschetti /para ponzi ponzi po / in Italia siamo stretti / para ponzi ponzi po / stireremo lo stivale / fino in Africa Orientale..." Di rimando: "E se l'Africa si piglia / si fa tutta una famiglia". Questo dimostra che non siamo uno "stato oppressore" come ci definì il Consiglio della Società delle Nazioni; anzi, si voleva liberare ed integrare gli indigeni con il mondo civilizzato. Una novità che nel mondo coloniale poteva anticipare il crollo del colonialismo. Era con queste intenzioni che ci si apprestava ad andare in Africa, tanto da mettere in allarme gli interessi conservatori internazionali di altre nazioni coloniali (Inghilterra, Francia, Belgio, Olanda, Portogallo...). Su proposta dell'Inghilterra, furono promosse sanzioni economiche contro l'Italia. L'Arcivescovo di Bologna, il cardinale Nasalli Rocca malediva "coloro che avevano congiurato ai danni dell'Italia" e invocava sul "nostro incomparabile condottiero" e "sui nostri cari soldati che, nell'Africa Orientale pionieri della Civiltà Italiana, infrangano i ceppi e le catene che stringono i polsi di uomini fatti a immagine e somiglianza di Dio" la protezione del Signore. Dai prelati di tutta Italia, piovvero benedizioni sui nostri soldati "pronti a piantare in Etiopia il Tricolore Italiano". 5 dicembre 1934 -3 ottobre 1935: reginaldogiuliani2 erano passati undici mesi da quando, la guarnigione italiana ai pozzi di Ual-Ual, ai confini con la Somalia, venne attaccata da elementi abissini. Dopo una dura battaglia, gli assalitori furono respinti, con morti e feriti da ambo le parti. Il Governo Italiano, per giusta causa, pretese delle scuse e riparazioni da quello abissino, ma invece da parte abissina si scatenò una violenta propaganda anti italiana. Con nuove provocazioni, gli italiani vennero continuamente molestati al confine etiopico. Il 29 gennaio, armati del Negus attaccarono Silar occupandola; il 21 marzo, altro incidente a Agablè, provocato dagli Abissini; il 24 aprile, altre aggressioni di armati etiopici contro nostri posti avanzati sul confine eritreo; dal 4- 5 giugno, ai posti italiani in Dancalia e in Somalia, continue aggressioni da parte di armati etiopici; il 6 luglio, il Console Italiano di Harrar, venne insolentito per strada. Nel frattempo a Parigi il 15-17 agosto, la conferenza tripartita, alla ricerca di un compromesso tra l'Italia e l'Etiopia, concluse i lavori comunicando ufficialmente l'impossibilità di un accordo. Nella notte, tra il 2 e il 3 ottobre 1935, il Comandante Supremo delle truppe dell'Africa Orientale, come da ordini ricevuti, diede inizio alle operazioni in Etiopia. Al comando del Generale Emilio De Bono c'erano cinque divisioni regolari dell'esercito, affiancate da altre cinque divisioni volontarie di Camicie Nere della Milizia. Varcato il confine atrraverso il fiume Mareb, i nostri soldati iniziarono le ostilità contro l'Etiopia. "L'avanzata avviene a mezzo di tre colonne: ad occidente lungo la direttrice Adi - Ugri, Adi-Qualà, Adua, dove operò la colonna comandata dal generale di corpo d'armata Pietro Maravigna, comandante del 2° Corpo. Al centro, sulla direttrice Decamerè- Guerà, pianura di Entisciò, operò la colonna comandata dal generale di corpo d'armata Pirzio Biroli, comandante del corpo d'armata indigeno. Ad oriente, da Adi-Caieh per Senafè e Guna-Guna- Adigrat, opera la colonna comandata dal generale di corpo d'armata Santini, comandante del 1° corpo. Tra le due colonne laterali - Santini e Meravigna si interponevano una sessantina di chilometri. La colonna centrale, perciò, doveva essere in grado di intervenire prontamente, in caso di necessità, a sostegno sia dell'una che dell'altra." (2) A sud, sul fronte somalo si muoveva il generale Graziani. Mentre nelle retrovie, seguivano circa 100.000 operai che, di rincalzo alle truppe, erano addetti alla costruzione di strade e ponti per assicurare le vie dei rifornimenti all'avanzata degli nostri soldati. Di seguito, brevemente, quella che verrà chiamata la guerra dei "sette mesi". Il 4 ottobre le nostre truppe occuparono Adigraf e Entisciò; il 6 venne conquistata Adua; il 10 ottobre, Ras Gugsà fece atto di sottomissione e chiese di combattere con i suoi uomini agli ordini del Comando Italiano; il 14 ottobre, te truppe italiane occuparono la città di Axum, nel Tigrai, città Santa per la religione copta. Di antica civiltà e famosa per la cattedrale della Enda Mariam Sion (dedicata alla Madonna) dove, venivano incoronati gli imperatori d'Etiopia, Axum è anche nota per le caratteristiche stele funerarie in pietra, poste sulle tombe di morti illustri, chiamate comunemente obelischi. Nel 1937, cinque grossi frammenti di una di queste stele, furono inviati in Italia come "preda di guerra". La stele venne ricomposta e rinforzata con un'anima in bronzo e, poi, collocata lungo la via dei Trionfi a Roma. faccetta A Ginevra, sempre il 14 ottobre, alla sede della Società delle Nazioni, con cinquanta voti favorevoli e due contrari (Austria e Ungheria), si decideva di esaminare le sanzioni da infliggere all'Italia. I diciotto membri del comitato incaricato deliberarono contro il nostro Paese varie sanzioni economiche, a partire dal 18 novembre, quali l'embargo delle materie prime e la proibizione alle importazioni. L'intenzione era che questo blocco economico provasse un collasso militare e di conseguenza politico. Mussolini reagì, facendo pressioni su De Bono per accelerare l'avanzata. Il generale quel giorno, con un suo bando, abolì la schiavitù nel territorio etiopico occupato. (Alla camera dei Lords a Londra, dalla relazione del 17 luglio 1935 di Lord Noel Buxton, si sapeva che "l'Etiopia era ancora il principale centro di schiavitù del mondo",dove una ragazza vergine costava da 190 a 250 talleri, un ragazzo da 80 a 200 talleri, se evirato da 125 a 230 talleri, un uomo e una donna adulta da 150 a 250 talleri). Il 18 ottobre si combatté la battaglia a Dagnerei, sul fronte somalo. Il 26 ottobre il ministro plenipotenziario il conte Vinci, lasciò Addis Abeba, dopo che i funzionari dei nostri consolati erano al sicuro. Il 6 novembre le truppe italiane entrarono a Macallè e l'8 occuparono la città di Dolo sul fronte eritreo. Il 9 fu la volta di Gorrahei in Somalia. Il generale de Bono era contento della rapida avanzata, ma anche deluso di non aver potuto dirigere una grande battaglia. Il 10 novembre venne promosso maresciallo d'ltalia e il 15 sostituito da Pietro Badoglio che non aspettava altro, dopo una sua visita con Lessona a De Bono. E Badoglio, visto il facile andamento della guerra contro gli Abissini aveva manovrato per sostituirlo. Badoglio ringraziò Mussolini, telegrafando la sua gratitudine: "... Per avermi dato modo di servire ancora una volta agli ordini dell'Eccellenza. Vostra la causa dell'Italia nelle terre d'oltremare'. Gli ordini a Badoglio erano tassativi: "Colpire e avanzare. Concludere presto e bene". faccetta2 Bisognava fare presto. Il 18 novembre entravano in vigore le sanzioni economiche contro l'Italia. In ogni comune venne posta una lapide, a ricordo dei posteri, di quella iniqua ingiustizia e ad ogni finestra di tutte le case fu esposto il tricolore. Le sanzioni, diedero motivo a Mussolini per dimostrare l'accanimento contro l'Italia e durarono 239 giorni. Gli Italiani, sentendosi perseguitati, diedero luogo a manifestazioni spontanee di solidarietà nazionale, culminate con l'offerta dell'"Oro alla patria". La regina Elena scrisse al Duce: "Signor Presidente, desidero che Ella sappia che fra i molti anelli nuziali che le donne d'Italia per la gloria della nostra cara e grande Patria, sarà anche l'anello nuziale del Re, simbolo di affetto e fede, unita all'anello mio che dono con gioia. Alla Patria. Il mio anello rappresenta quanto ho di più caro, perché ricorda il giorno in cui ebbi la fortuna di essere Italiana. Mi creda. Signor Presidente, Sua affezionatissima cugina Elena". Quanto l'impresa africana fosse popolare era anche provato da una canzone dell'aprile 1935 di Micheli e Ruccione "Faccetta Nera", che tutti gli italiani cantavano e in poco tempo venne conosciuta anche all'estero. Il ritornello faceva: "Faccetta nera, bell'abissina / aspetta e spera che già l'ora s'avvicina. / Quando saremo vicini a te / noi ti daremo il nostro Duce e il nostro Re". Nelle scuole i ragazzini appuntavano bandierine sulle cantine geografiche ad ogni località conquistata nell'impresa etiope. Per il regime fascista è uno dei momenti di maggiore successo; personalità e intellettuali si offrivano per la guerra d'Africa e molti di loro partivano volontari. Il giornalista Indro Montanelli si arruolò nel XX° Battaglione Eritreo; dopo la seconda battaglia del Tembien, preso dall'entusiasmo, in onore delle Camicie Nere, per il loro coraggio, ne esaltò il valore in versi: "Sono venuti dal mare / e hanno salito a piedi la montagna. / Hanno la camicia nera / ma gli occhi e la pelle sono chiari / come una notte di luna.../ sono venuti dal mare / i vendicatori di Dogali e di Amba Alagi..." (3) Il ventiseienne Montanelli ritornò dall'avventura africana con la sua "Faccetta Nera", avendo sposato la figlia di un notabile locale. A Parigi il 7-8 dicembre, Pierre Laval e Samuel Hoare per Francia e Inghilterra, studiavano un piano di riconciliazione tra l'Italia e l'Etiopia, nel tentativo di risolvere il conflitto. Badoglio faceva sapere che e nostre forze necessitavano di essere riorganizzate, prima di attaccare nuovamente le postazioni abissine. Il 15- 18 dicembre, il gruppo del maggiore Luigi Criniti, durante un servizio di esplorazione e informazione sul nemico, subì una imboscata nella gola di Dembeguinà dove, proveniente dal Goggiam, Ras Immirù aveva raggiunto il fiume Tecazzè, sulla strada per Gondar, per controllarne i guadi e non permettere i trasferimenti di truppe italiane sul fronte del Tembien. Il gruppo Bande dell'Altopiano, formato da Ascari e rinforzaro da uno squadrone carri leggeri, nell'agguato perse 9 ufficiali, 22 militari italiani e 370 ascari era morti e feriti. Il 18 a Pontinia, Mussolini durante la consegna delle fedi da parte del coloni dell'Agro Pontino, in un discorso, ribadì la volontà dell'Italia, di resistere alle sanzioni. Il 22 dicembre gli Abissini vennero sconfitti a Abbi Addi. A Roma all'Altare della Patria, la regina Elena mandava: "Il nostro saluto alle gloriose bandiere, agli ufficiali e ai soldati delle forze di terra, mare e d'aria, alle camicie nere, agli operai, agli ascari fedeli. Buon Natale". L'8 gennaio 1936, Graziani era pronto per l'attacco a Ras Destà, zona del Neghelli nella savana del Borana. Il giorno 12, il Duce telegrafava a Badoglio, invitandolo a riprendere l'iniziativa, dopo la parziale ritirata, subita dall'offensiva di Ras Immirù. Il 12- 17 gennaio, avanzata del fronte sud, con la presa di Canale Doria. Il 20, Graziani dopo dieci giorni di penetrazione in un territorio, difficoltoso al massimo, per gli approvvigionamenti e dopo continui combattimenti, investiva il Neghelli. Un piccolo insieme di capanne, diventato l'ultimo rifugio degli Abissini di Ras Destà in ritirata, vanamente difeso, il Neghelli venne occupato dagli uomini di Graziani. A Ras Destà, sconfitto, fu spezzata la spada da Ailè Salassiè, in pubblico e davanti ai suoi dignitari. Il 23 gennaio, a Passo Uarieu dopo i combattimenti, durante una tregua, il centurione, padre Reginaldo Giuliani, cappellano delle camicie nere "28 ottobre" del gruppo Diamanti, lasciò il fortino con i porta feriti, per dare conforto ai moribondi e l'ultima benedizione ai morti, ma da un gruppo di scioani abissini, scesi a cavallo dal Debra Amba, venne ucciso a colpi di scimitarra, mentre impartiva l'estrema unzione ad un ufficiale ferito gravemente e con lui vennero uccisi i porta feriti: Billi, Marsi, Segoni e Rossi. Tra il 20 ed il 25 gennaio, durante la prima battaglia del Tembien , le armate di Ras Cassa e di Ras Sejum, dopo cinque giorni di duri combattimenti vennero messe in fuga. Il 31 gennaio, continuò l'avanzata sul Tembien, per la conquista dell'Amba Aradam e dare sicurezza alle truppe operanti a sud di Macallè. Dal 10 al 15 febbraio, la presa dell'Amba, si sviluppò con accaniti combattimenti, tra le nostre truppe e gli 80.000 guerrieri etiopici agli ordini di Ras Mulughietà; una continua battaglia dove, le posizioni si conquistarono con furiosi corpo a corpo e con brevi ripiegamenti, per dare la possibilità ai feriti, di avere la necessaria assistenza. Alcuni soldati in camicia nera della 135a Legione, videro, abbandonata per terra, una piccola bimba nera di circa un anno e mezzo (la madre era morta durante una di quelle battaglie). Venne raccolta dal legionario Pasquino Citi e, accarezzandola, la consegna ad operai che, alle spalle dei combattenti seguivano l'avanzata, lavorando di pala e piccone, per rendere piu agibili quelle aspre posizione montane e, nei momenti critici, lasciavano il lavoro per dare man forte. La piccola etiope venne portata dagli operai nelle retrovie e subito diventò la mascotte dei militari, a tal punto che sembrava, la negretta della canzone "Faccetta nera". faccettanera Nelle retrovie, nei primi giorni, la bimba fu nutrita con del latte di capra ed in seguito venne portata con mezzi di fortuna fino ad Asmara e affidata alle cure delle suore del convento di Sant'Anna, dove fu battezzata Maria. Per ricordare quei giorni di conquista dell'Amba Aradam, alla piccola, vennero aggiunti anche i nomi di Vittoria Aradam, dai militi della 135a Legione "Indomita". Tramite il console Andrea Michele Galeotti, la foto che ritraeva la piccina con i legionari Pasquino Citi e Giuseppe Galeotti, venne mandata a dei parenti in Italia. Ricordava, proprio, "Faccetta nera", diventando così un simbolo per la propaganda. L'Amba Aradam, baluardo della resistenza abissina, dopo cinque giorni di duri combattimenti, venne conquistata dai Legionari italiani, sconfiggendo Ras Mulughietà e disperdendo le sue armate. La via per l'Amba Alagi era aperta; alpini e camicie nere il 28 febbraio sulla vetta issarono il Tricolore. Il 29 dopo l'Uadi Gheva e il Tacazzè, gli italiani affrontarono la temibile armata di Ras Immirù che, aveva giurato al Negus di voler ricacciare gli Italiani oltre il mar Rosso. Ras Immirù il 3 marzo, completamente disfatto il suo esercito, trovo scampo nella fuga. Da nord l'esercito di Badoglio, da Dessiè puntava su Addis Abeba, da sud quello di Graziani, contro Nasibù e poi, da Gianagobo e Dagabur verso Harrar. Con manovra a tenaglia, i due eserciti puntarono al cuore dell'Etiopia. Il 28 marzo le nostre truppe entrarono a Socotà ed il 31 a Mai Ceu. Il primo aprile i legionari risultarono vittoriosi contro due reggimenti della guardia del Negus, presso il lago Ascianghi. Il 5 entrano a Quarum e il 13 sulle sponde del lago Tana sventolava il Tricolore. Il 17 aprile le truppe del generale Graziani occuparono Sassabaneh. Tembien, Amba Aradam, Scire, Amba Algi, Harrar, Gondar, Gorgora... Sono alcune delle tappe di questa rapida e vittoriosa guerra nella quale, il 5 maggio, le truppe italiane al comando di Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Tre giorni prima il Negus era fuggito a Gibuti, imbarcato su di una nave da guerra straniera per poi rifugiarsi a Londra. Ad Addis Abeba, lasciata la città in balia dei saccheggiatori, le delegazioni inglese e francese, difensori della civiltà abissina, dovettero chiedere protezione all'esercito italiano, contro le bande degli etiopici in fuga. Graziani l'8 maggio, occupò Harrar e Dire Daua; il giorno seguente le sue truppe si incontrarono con quelle di Badoglio ad Addis Abeba. Entrate le truppe italiane ad Addis Abeba, quel pomeriggio del 5 maggio 1936, Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, annunciò all'Italia e al mondo, la vittoria italiana in Africa Orientale e la conquista dell'Impero nel quale portammo la libertà a 2 milioni di schiavi e a 4 milioni di servi e: "L'Etiopia è italiana! Italiana di fatto, perché occupata dalle nostre armate vittoriose: italiana di diritto perché col gladio di Roma e la civiltà che trionfa, sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull'arbitrio crudele, la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria...". Il conto poi, presentato al popolo abissino, era di un semplice foglio, firmato da Vittorio Emanuele III Re d'Italia e dal Capo del Governo il Presidente del Consiglio, Benito Mussolini: "Ovunque in Etiopia sventoli la bandiera italiana lì la schiavitù è abolita". Poi, all'adunata del 9 maggio: "... Il popolo italiano ha creato col suo sangue l'Impero. Lo feconderà col suo lavoro...". In Etiopia, molto lavoro e cose buone vennero fatte: "E ne furono fatte molte. Poveri, avevamo lavorato da miliardari si pensi solo alle strade, 60.000 operai nazionali e 160.000 indigeni srotolarono su tutto l'immenso territorio etiopico più di 5.000 chilometri di strade asfaltate e 1.400 di piste camionabili. Ed erano strade nel vero senso della parola... Trasformato tutto... Traforato le montagne, superato le valli, sbarrato i fiumi... Avevamo trasformato non solo Addis Abeba, ma anche oscuri villaggi in grandi centri abitati, vivi e tumultuanti: Dessiè, Harar, Gondar, Dire Daua, Giggina Gimma, che nulla hanno da invidiare alle città europee. Alberghi, scuole, fognature, luce elettrica, ristoranti, collegamenti automobilistici con gli altri centri dell'Impero, telegrafo, telefono, porti, stazioni radio, aeroporti. Financo cinematografi e teatri. Creammo nuovi mercati, numerose scuole per gli indigeni, e per gli indigeni creammo: tubercolosari, ospizi di ricovero per vecchi e inabili al lavoro, ospedali per la maternità e l'infanzia, lebbrosari. Quello di Selaclacà: oltre 700 letti e un grandioso istituto per studi e ricerche 'per la lotta contro la lebbra. Creammo imprese di colonizzazione sotto forme di cooperative finanziate dallo Stato, mulini, fabbriche di birra, manifatture di tabacchi, cementifici, oleifici; coltivammo più di 75.000 ettari di terra..." (4) Ma per il Consiglio delle Nazioni eravamo uno "stato oppressore"; poi... vennero altri conflitti, un'altra guerra e l'Italia che si era illusa di diventare come le altre una grande nazione, perse tutto e pagò. Pagò duramente per quello che era stato un sogno. "Fu a Londra nel settembre del 1945 che Ailè Selassiè, attraverso il Consiglio dei Ministri degli Esteri, presentò il "conto" all'Italia per i "danni arrecati nei cinque anni di occupazione". 185 milioni di sterline; 326 miliardi di povere lire italiane. Nel "conto" era ben specificato tutto.. dalle spese sostenute dal Tesoro abissino durante l'aggressione, 26 milioni di sterline, ai danni arrecati durante l'occupazione, 132 milioni di sterline: da 2 milioni di sterline per quadri, dipinti e chiese bruciate a 75.000 sterline per 15 aerei distrutti. E, attenzione, qui c'è la spiegazione del perché i morti trucidati nella insurrezione di Addis Abeba, per gli storici abissini debbano essere 30.000: per ogni abissino morto il Negus chiese un risarcimento di 100 sterline pro capite. E, secondo un conto fatto da lui o dal suo governo i morti ammazzati, dagli italiani, dovevano essere: 75.000 "arbegnouc" uccisi in battaglia durante cinque anni; 17.000 donne e bambini uccisi dalle bombe; 24.000 "arbegnouc" condannati dalle Corti Marziali italiane e uccisi; 35.000 vecchi e donne uccisi nei campi di concentramento; 30.000 uccisi durante la strage di Addis Abeba nel 1937. 4.000 preti e chierici uccisi nei cinque anni di occupazione. Totale: avendo noi ucciso 760.000 persone dovevamo risarcire il Negus Neghesti Ailè Selassiè di 76.300.000 sterline. Per le bestie uccise nei cinque anni e cioè: 5 milioni di buoi, 7 milioni di pecore e capre; un milione di cavalli e muli e 700.000 cammelli, di milioni, sempre di sterline, erano un pò meno. Solo 44. L'Italia pagò". (5) Si, l'Italia pagò e smise di cantare "Faccetta nera"; il sogno era finito per sempre. Poi, con il passare degli anni per pura questione ideologica e per tanta demagogia, tutti diventare difensori del terzo mondo e fare ammenda di quel nefasto "passato colonialista", condannando Mussolini per quella "guerra di aggressione" e a volere - unica nazione al mondo- restituire quale "preda di guerra", l'obelisco di Axum. Convinti che, restituendo un monumento, si possa cambiare la storia e dimenticare il passato. Quale futuro può avere un popolo che non ha un passato? Ma, come in una favola, a volte il passato ritorna. Andiamo avanti. "Il Giornale" del 25 luglio 2003, ci porta a conoscenza di un altro pezzo di storia; una volta c'era "Faccetta nera" una bimba etiope, raccolta e salvata dai militari italiani sull'Amba Aradam sessantasette anni fa e si viene a sapere che, Pasquino Citi, uno dei Legionari che la raccolse, la volle con se negli ultimi anni della sua vita e... scrive Daniele Carozzi: "... Poi la guerra d'Africa finisce, il regime crolla e l'Italia perde le colonie. Di "Faccetta nera" pare non ricordarsi più nessuno. A parte lui, Pasquino Citi, che dopo il fronte francese e la fuga dai partigiani di Tito, ogni tanto ripensa a quel nero musino spaventato ed esposto al tiro delle mitraglie sull'Amba Aradam. Ma forse sono tempi e momenti in cui parlare di "Faccette nere" e di vittorie coloniali non è salutare. Così Citi, scapolo e senza figli, torna a fare il suo lavoro di guardia forestale a Cecina, dove negli anni mette da parte qualche risparmio, acquista un paio di case rurali, alcuni terreni e un frantoio. Di Maria Vittoria "Faccetta nera" ne riparla "La Domenica del Corriere" negli anni '60, poi silenzio fino al 1993, quando è citata su "Il Giornale" dal nostro Lino Pellegrini in una corrispondenza dall'Africa Orientate. Il settimanale "Gente" ritorna sull'argomento nel '95 e, dopo aver letto l'articolo. Pasquino Citi vuole assolutamente riprendere il contatto con la sua trovatella. Grazie all'aiuto dell'ambasciata italiana all'Asmara, nel '99 riesce a stabilire un contatto epistolare con Maria Vittoria. Le lettere si succedono con frequenza, così Citi viene a sapere che "Faccetta nera" si è sposata nel 1960 con Andom Berhane, copto fattosi cattolico, e ha tre figli che parlano tutti benissimo l'italiano. Anzi, uno di essi, Joannes, ha studiato e ora lavora a Udine dai Padri Salesiani. Saputo che Maria Vittoria è stata sfrattata dalla sua casa all'Asmara in seguito alla guerra fra Etiopia ed Eritrea, Citi le invia 55 milioni di lire per acquistare un'abitazione. Poi le dice: "Vieni a trovarmi in Italia, voglio conoscerti ". Citi ha ormai 89 anni, Maria Vittoria 64, e quando si vedono è un interminabile abbraccio. Pasquino presenta a tutti "Faccetta nera" chiamandola "la mia bambina.". Ma il permesso di soggiorno arriva alla scadenza e l'etiope deve lasciare I'Italia. Nel 2001 la salute di Citi si fa cagionevole e per di più rimane ferito in un incidente stradale. Scrive allora a Maria Vittoria: "Sono malato, solo la mia bambina mi può curare. Ti aspetto." Maria Vittoria torna dunque a Collemezzano nel 2001 e si prende cura dell'anziano per tre mesi. Allo scadere del permesso chiede il rinnovo, ma le viene negato ed è costretta a tornare in Asmara. Il 31 gennaio 2002 Citi, il vecchio combattente dell'Amba Arddam che le salvò la vita si spegne all'età di 92 anni. E, colpo di scena, nel suo testamento nomina "Faccetta nera" erede di ogni suo bene. Ora l'anziana signora è di nuovo in Italia a Collemezzano, dove ci riceve nella casa rurale che fu di Pasquino. E' con il marito, Andom, che pure conosce l'italiano. Un profumo di sugo al pomodoro con battuto di cipolla invade la cucina. " Si, cucino italiano, parlo italiano, sono cattolica allevata da suore italiane e, non lo scordi, sono stata salvata dagli italiani. Io mi sento italiana, amo l'Italia, ho due figli qui e vorrei morire da cittadina italiana, per custodire i beni di chi, anche se tardi, ho scoperto come un padre. Ma il mio permesso di soggiorno scade a fine agosto". Poi "Faccetta nera" socchiude i suoi dolci occhi scuri e si mette a canticchiare la ninna nanna che i soldati le dedicarono e che terminava dicendo "... o bella morettina, avrai la grande Italia per madrina". Maria Vittoria, la nostra "Faccetta nera" continua a sognare l'Italia, quell'Italia che aveva imparato ad amare e, che lei vorrebbe come "madrina" ma, questa Italia non conosce la sua storia, o non vuole ncordarla perchè, forse non riuscirebbe a capirla. E, come dice la canzone: "Faccetta nera, / bell'abissina, / aspetta e spera...", Maria Vittoria, continua ad aspettare e a sperare perché, una volta c'era...“
(1) C. De Biase, L'impero di Faccetta nera, Il Borghese, 1966. (2) V. Teodorani, L'Asso di Bastoni, marzo-aprile 1960. (3) C. De Biase, Fu I'Esercito, II Borghese, 1966. (4) C. De Biase. L'impero di Faccetta nera, II Borghese, 1966. (5) Idem. ALTRE FONTI CONSULTATE: G. Vilella, Italia chiama Africa, C.E.N. 1968. G. Curatola, Ritmi littori, Aurora Edizioni, 2002 D. Carozzi, Faccetta Nera..., Il Giornale, 23 luglio 2003. ”