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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi di Gennaio 2009

Africa Orientale Italiana. Mappa post 1936.

Post n°213 pubblicato il 29 Gennaio 2009 da wrnzla

Africa Orientale Italiana. Mappa post 1936.


Tags: ascari eritrea, ascari eritrei.
 
 
 

Uòrk Ambà la Ridotta dei Leoni

Post n°212 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla

Uòrk Ambà la Ridotta dei Leoni
di Orazio Ferrara
Fonte testi: cronologia.leonardo.it

Durerà anni. Sentenziarono gli esperti militari stranieri, tra cui gli inglesi i massimi esperti del tempo in fatto di guerre coloniali. Durerà anni ripeterono pediquessamente alcuni generali italiani. Lo stesso Badoglio, poi comandante in capo, era di questa opinione. Invece la nostra guerra in Abissinia durerà soltanto sette mesi, dal 3 ottobre 1935 al 9 Maggio 1936. E fu veramente una campagna coloniale da manuale, oggetto di studio nelle accademie militari di tutto il mondo.

Eravamo fuori tempo massimo, diranno poi i soliti storici col senno di poi. Si era al tramonto del colonialismo e noi, ingenui, andavamo a conquistare un impero. Allora però non lo sapevamo. Il bello è che non lo sapeva nessuno. Né gli inglesi e né i francesi, che difendevano con i denti i loro immensi imperi. Né gli americani, che allora non sapevano ancora di essere alla vigilia delle loro prime prove per sostituire il loro moderno, ma ben più spregiudicato imperialismo a quello anglo-francese. Imperialismo, quello degli USA, che sotto molti aspetti dura tutt’ora, e questo non per fare il solito antiamericanismo di maniera, ma soltanto per dire le cose come effettivamente stanno.

Si disse in seguito che, in fondo in fondo, avevamo sconfitto delle bande di povere selvaggi armati di zagaglie. E si disse una bugia. Gli italiani ebbero di fronte i migliori guerrieri dell’Africa, eguagliati solo dagli zulù. Guerrieri che il coraggio e il disprezzo della morte rendevano temibilissimi. Soprattutto per quelle loro veloci, terribili manovre avvolgenti, che tanti dispiaceri c’erano costati in un passato non troppo lontano. A Dogali, ad Adua. Ferite che a quel tempo ancora bruciavano. D’altronde eravamo in buona compagnia. Gli zulù, anch’essi magnifici combattenti, s’erano presi il lusso di dare una disastrosa sconfitta agli inglesi in quel di Isandlwana, nell’Africa del sud.

La conclusione vittoriosa della guerra in Abissinia coincise con il punto più alto del consenso del popolo italiano nei confronti del fascismo e di Mussolini. In quell’occasione anche molti avversari del regime si intiepidirono.

Questa breve premessa è necessaria per un oggettivo inquadramento storico dei fatti che andiamo a narrare, perché col senno di poi è facile trinciare giudizi, decidere da che parte stare e quale camicia indossare.

Di questa guerra dimenticata e rimossa dalla nostra coscienza nazionale, ci piace oggi ricordare la figura della medaglia d’oro Ugo Di Fazio. La damnatio memoriae con personaggi di questo tipo è stata particolarmente severa. Da rimuovere assolutamente, perché doppiamente esecrabile in quanto morto da colonialista e con la camicia nera indosso.

Ugo Di Fazio nasce a Palma Campania, in provincia di Napoli. Giovanissimo partecipa, con i gradi di ufficiale, alla Grande Guerra. Nel primo dopoguerra aderisce al fascismo e si arruola in seguito nei ranghi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, prestando servizio in qualità di ufficiale nella 144a Legione Camice Nere “Avellino”.
Nell’aprile 1935, quando si prospetta un nostro intervento in Africa Orientale, è tra i primi ad offrirsi volontario, benché ammogliato e con un figlio piccolo. Viene quindi mandato a Trieste, dove si sta costituendo il battaglione camice nere “San Giusto”. Ai primi di giugno l’imbarco sul piroscafo Celio con destinazione Massaua.

In Eritrea il centurione Ugo Di Fazio prende il comando della II Compagnia del I Battaglione Camice Nere, facente parte del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea sotto il comando del console generale Filippo Diamanti . Il 2 ottobre questo Gruppo è assegnato al Corpo d’Armata Eritreo del generale Pirzio Biroli. All’alba del 3 ottobre 1935, i tre Corpi d’Armata italiani del fronte nord iniziano le ostilità contro l’Etiopia e varcano la linea di confine Mareb-Belesa-Muna.

Da Belesa il Corpo d’Armata Eritreo, dopo una ininterrotta marcia di oltre 14 ore, raggiunge Guzat. Da qui, nei giorni successivi, avanza nell’Enticciò. Il 26 ottobre è già attestato nella conca di Zattà. Il 9 novembre occupa Hauzien. Il 23 è la volta di Gheraltà. Infine l’avanzata verso il Tembièn, dove si trovano riunite ingenti forze avversarie. Agli inizi di dicembre 1935 le avanguardie delle camice nere del Corpo d’Armata Eritreo sono davanti al Passo Uarièu, la porta della regione del Tembièn.


Passo Uarieu :Visualizzazione ingrandita della mappa

Passo Uarièu è una sella posta tra due cocuzzoli montuosi, su ognuno dei quali c’è un fortino. Il passo, situato ai piedi orientali dell’Uòrk Ambà, la Montagna d’Oro, costituirà con quest’ultima la chiave strategica di tutte le nostre operazioni nel Tembièn. Il loro controllo sarà pertanto decisivo nella 1a e 2a battaglia del Tembièn.

Il 5 dicembre viene occupata Abbì Addì , capitale di quella regione, ma viene sgombrata il 27 dello stesso mese per la pressione di soverchianti forze nemiche. Infatti Ras Cassa e Ras Seium stanno ammassando nella zona un’armata di 20.000/30.000 abissini, per tentare lo sfondamento del fronte italiano in quel punto. A causa di ciò la nostra linea di resistenza viene arretrata a Passo Uarièu, che per la particolare conformazione dei luoghi si presta egregiamente a tale scopo difensivo. Proprio da questo passo, il 21 gennaio 1936, parte una colonna di camice nere, agli ordini del generale Diamanti, per un’azione dimostrativa in direzione di Abbì Addì, divenuta ora quartier generale di Ras Cassa e Ras Seium. Ai roccioni di Debra Ambà la colonna si scontra con forti bande abissine e le volge in disordinata fuga.
Ma successivamente è attaccata da preponderanti forze avversarie e costretta, seppure lentamente, a ripiegare. Sempre nel pomeriggio del 21, nella vallata di Mài Belès, attraversata dall’omonimo torrente, sul ciglio meridionale dell’Uòrk Ambà, gli abissini riescono ad agganciare gli italiani. Segue un furioso corpo a corpo, che sarà detto appunto combattimento di Mài Belès. Le camice nere contrattaccano alla baionetta per aprirsi letteralmente un varco nella muraglia umana degli abissini. Le perdite sono elevatissime in entrambi gli schieramenti.

Alla fine i legionari della colonna Diamanti riescono a sganciarsi e a rientrare nei fortini di Passo Uarièu, grazie anche all’intervento dell’artiglieria e del presidio del passo, ma grazie soprattutto al sacrificio dei mitraglieri della 2a Divisione CC. NN., che, attestati sulle estremi propaggini del passo, falciano le prime ondate dei guerrieri abissini, fermandoli temporaneamente e consentendo così il rientro dei camerati. Quei coraggiosi verranno, poi, tutti massacrati dal nemico sulle canne ancora roventi delle loro mitragliatrici. Il combattimento di Mài Belès è costato agli italiani la perdita di 171 camice nere, di cui 15 ufficiali, oltre a 163 feriti. Sono caduti nello scontro, tra gli altri, padre Reginaldo Giuliani e il seniore Luigi Valcarenghi. Gli abissini contano da parte loro qualche migliaio di morti.
Il nemico, imbaldanzito per quella che crede una ritirata, investe ora direttamente Passo Uarièu. Ras Cassa e Ras Seium ritengono giunto il momento di forzare lo schieramento italiano e quindi rovesciano sul passo tutte le loro truppe e le loro artiglierie. Una cerchio di fuoco si stringe intorno ai difensori, che, malgrado la scarsità d’acqua e di munizioni, respingono i reiterati assalti nemici per tre giorni e due notti di seguito. Il 24 febbraio, con l’avvicinarsi della 2a Divisione Eritrea Vaccarisi proveniente da Passo Aberò, gli abissini iniziano a ripiegare verso sud. Termina così, con una vittoria degli italiani, la 1a battaglia del Tembièn. A Mài Belès e a Passo Uarièu sempre tra i primi, dove più ferveva la mischia, il centurione Ugo Di Fazio.

In tutti quegli aspri scontri si è sentita, spesso, risuonare una canzone, Pallida luna, assai cara agli ufficiali e ai legionari del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea. “Pallida luna/pallida luna/…../porta fortuna”. E’ l’armonioso canto dei legionari del Tembièn, intonato ogni qualvolta si va all’assalto. Sono veramente gli ultimi romantici epigoni di un mondo coloniale, che non sa ancora di essere al tramonto.
Nelle pause dei combattimenti, Ugo Di Fazio trova il tempo di scrivere al suo vecchio comandante della 144a Legione Camice Nere “Avellino”, il console Troianiello. “Siamo sempre pronti più di prima a tutto dare ed a prodigarci per il raggiungimento delle mete fissate…”. Poi un post-scriptum, che è quasi un presagio: “La vita degli eroi comincia dopo la morte” . E’ il suo ultimo scritto e reca la data del 25 febbraio 1936.

In quei giorni il I Battaglione CC. NN., di cui fa parte il Nostro, si trova a Monte Pellegrino, situato a circa 6 chilometri a est di Passo Uarièu. Questo monte è di vitale importanza per le operazioni militari in corso a causa delle sue sorgenti, le uniche in tutta la zona. Per questo motivo è presidiato in forze. Nella 1a battaglia del Tembièn, Ras Cassa, usando come esca proprio queste sorgenti, aveva sperato di attirare in una trappola mortale gli italiani assediati, che soffrivano enormemente per la mancanza d’acqua. Ma gli italiani non avevano abboccato. Da Monte Pellegrino il I Battaglione CC. NN. riceve l’ordine di portarsi a Passo Uarièu, dove giunge all’alba del 27 febbraio. Lo segue un battaglione di granatieri del Gruppo Battaglioni Nazionali del colonnello Gotti. Sta per iniziare la 2° battaglia del Tembièn.
L’ordine del quartier generale italiano è categorico. “Giorno 27. Il Corpo d’Armata Eritreo occupi saldamente Uòrk Ambà per costituire unitamente alle posizioni di Uarièu un forte appoggio”.
Nella notte, che precede l’alba del 27 febbraio 1936, il capomanipolo Tito Polo, con 60 camice nere scelte delle Legioni 114a e 116a e l’ausilio di alcuni ascari eritrei, inizia l’ascensione del costone nord dell’Uòrk Ambà. Contemporaneamente il tenente Rambaldi, con 30 alpini del VII Battaglione Complementi del 7 Reggimento Alpini e altri ascari, inizia l’ascensione di quello sud. La consegna per queste due pattuglie di audaci rocciatori è portarsi sulle cime di quei costoni, occuparle e tenerle ad ogni costo in attesa dei rinforzi.

Nella notte, impreziosita dallo scintillio di miriadi di stelle del bel cielo africano, gli italiani e gli ascari eritrei si muovono senza far rumore. Non portano niente di superfluo, nemmeno i viveri, solo le armi. La scalata deve essere rapida e silenziosa. Moschetto a tracollo, pugnale alla cintura e i tascapani ripieni di bombe a mano. La scalata avviene strisciando al riparo della scarna vegetazione dell’Ambà. Le sentinelle abissine, sparse qua e là, pur vigili nei loro ferini sguardi non si accorgono di nulla. Per le camice nere del costone nord va tutto bene. Raggiunta la cima, fanno fuori col pugnale le poche sentinelle e si apprestano a difesa.
Per gli alpini del costone sud invece, a causa delle maggiori asperità del terreno, l’obiettivo fissato è ancora lontano. Ad un certo punto le cose si complicano, allorché i comandanti abissini si rendono conto dell’errore di non aver presidiato in forze quelle alture strategiche, che possono ora rivelarsi decisive nella battaglia che sta per iniziare. E parte l’ordine di rioccuparle ad ogni costo, ricacciando indietro gli italiani.
Mentre per quelli del costone nord, raggiunti all’alba dalla 114a Legione Camice Nere , che si attesta su posizioni contigue, i ripetuti attacchi nemici non costituiranno mai un serio problema. Per gli alpini, sorpresi a metà strada dall’obiettivo, la situazione è subito seria.

Sono le prime ore del mattino del 27, quando il comando italiano decide di mandare dei rincalzi. Arriva quindi l’ordine a Di Fazio di portarsi subito con la sua compagnia in appoggio agli alpini. La scalata si presenta oltremodo pericolosa perché bisogna trovare un varco tra nugoli di abissini che attaccano. Nonché ardua e faticosa, per via di quei costoni irti e scoscesi e per quella pesante mitragliatrice che si portano appresso. D’altronde Di Fazio e i suoi uomini non sono alpini, come quelli a cui vanno in aiuto e che in quel momento stanno vendendo cara la pelle. Comunque bisogna andare avanti.
I legionari stringono i denti e vanno avanti. Di Fazio è contento di quei suoi ragazzi scanzonati, dal facile motteggio tra di loro e dal largo sorriso, che ravviva quella severa camicia nera. Mugugnano, ma poi danno sempre del loro meglio. Come adesso. La posizione assegnata è alla fine raggiunta, dopo averne sloggiato il nemico con le baionette e con un po’ di fegato dietro. Quindi s’inizia un fuoco serrato per alleggerire la pressione avversaria sugli alpini. Il luogo, in cui si trova la II Compagnia, si presenta naturalmente fortificato con delle rocce a strapiombo
Adesso a migliaia i guerrieri abissini sciamano ai piedi dell’Uòrk Ambà e rinnovano gli assalti con più ardimento. E’ un formicaio nero che avanza inesorabilmente. La loro agilità, favorita dalla perfetta conoscenza dei luoghi, li porta ben presto a ridosso delle posizioni italiane. Come sempre, per l’estremo sprezzo del pericolo, si rivelano guerrieri intrepidi. Gli italiani dal canto loro non intendono mollare le posizioni e quindi rispondono con un nutrito fuoco di moschetteria e di mitragliatrici, che apre varchi paurosi nelle fila degli attaccanti. I dirupi e le forre dell’Uòrk Ambà diventano rapidamente veri e propri carnai. Dappertutto grida e gemiti. Anche gli italiani hanno la loro parte d’inferno, diversi caduti nei loro ranghi.

Di Fazio, vecchio reduce dalle trincee della Grande Guerra, conosce bene lo stato d’animo che genera quella carneficina. Calmo e impassibile rincuora quindi i suoi ragazzi, predisponendoli per la resistenza ad oltranza. Ed ecco risuonare il canto di Pallida luna. “Pallida luna/…/porta fortuna”. Il centurione sa dell’importanza fondamentale di quella posizione per le sorti della battaglia in corso e non la mollerà per nessuna ragione al mondo. Lo preoccupano solo la scarsità delle munizioni e le armi, che per il fuoco continuato cominciano ad incepparsi. Come quel moschetto, con cui poc’anzi sparava nel mucchio degli attaccanti.
Intanto non sente più il crepitio della mitragliatrice, accorre e vede l’addetto giacere in una pozza di sangue. Rimette in posizione l’arma e comincia a sgranocchiare personalmente i lucenti nastri dei caricatori. “Pallida luna/…/porta fortuna”. Sotto l’impatto dei colpi le fila degli abissini sembrano ondeggiare lievemente. Anche la mitragliatrice però purtroppo s’inceppa. Prende il 91 di un caduto lì vicino e riprende a colpire il nemico. E’ chiaro che gli abissini stanno serrando sotto, certi ormai di avere, con un ultimo sforzo, la vittoria a portata di mano.

Di Fazio si rende conto che può fare ben poco con quel suo moschetto. Un rapido sguardo tutt’intorno e scorge un roccione a strapiombo, sovrastante la massa dei nemici. Raccoglie dunque dei tascapani pieni di bombe a mano, poi si arrampica sulla roccia. Calmo, con i denti strappa la sicura e lancia una bomba a mano. Poi un’altra. E ancora un’altra. E poi ancora, a decine. Vuoti paurosi si aprono tra gli abissini, costretti a disperdersi per ripararsi da quella pioggia di micidiali schegge, che uccide, ferisce, mutila.
Testimone d’eccezione di tutta questa scena incredibile, che sembra tratta da un quadro oleografico, è il generale Pirzio Biroli, che da un osservatorio sta seguendo col binocolo l’andamento dei combattimenti sull’Uòrk Ambà. Si racconta che il generale, vedendo quella figura solitaria, di cui ignorava in quel momento il nome e il grado, in piedi sulla roccia lanciare bombe a mano contro il nemico, abbia esclamato “Che magnifico soldato!” .

Comincia intanto un rabbioso fuoco di fucileria da parte degli abissini contro quel temerario, che ha fermato l’ultimo e decisivo assalto contro quel pugno di camice nere. Tra il grandinare dei proiettili nemici, Di Fazio continua imperterrito a lanciare i micidiali ordigni. Alla fine avrà lanciato più di novanta bombe a mano, come testimonierà il suo attendente, la camicia nera Ernesto Genovesi .
E’ ancora sul costone, malgrado gli inviti pressanti dei suoi uomini a ripararsi, quando una pallottola nemica lo colpisce al petto. Al suo attendente e agli altri legionari accorsi per prestargli soccorso, ha ancora la forza di raccomandare “… ragazzi non mi abbandonate la posizione…” poi aggiunge “…un bacio a mia moglie, a mio figlio…viva l’Italia”.

Sull’onda travolgente dell’esempio del loro comandante, adesso sono tutte le camice nere della II Compagnia a comportarsi da leoni. Al canto legionario di “Pallida luna/pallida luna/…/porta fortuna”, è il contrattacco. Una valanga di ferro, fuoco e rabbia si abbatte sugli abissini, che danno i primi segni di cedimento.

Alla fine la giornata sarà nostra, grazie anche al sacrificio di Di Fazio e di altri come lui.
“Sulle pendici dell’Uòrk Ambà è caduto da vero eroe. Solo, sprezzando il pericolo, dall’alto d’una roccia fulminava il nemico con lancio di bombe a mano e tiro di moschetto, trascinando col suo esempio tutti i militi della sua II Compagnia alla più bella vittoria della II Battaglia del Tembièn…”.
Così il comandante del I Battaglione Camice Nere in una lettera alla vedova.

Anche il generale Diamanti scriverà poi alla vedova, annunciandole che il fortino sulla cima destra dell’Uòrk Ambà era stato intitolato al nome del marito, Ugo Di Fazio, e terminando “…signora, dica a suo figlio di ricamare sul suo fazzoletto di balilla il nome del suo eroico padre”.

Annotiamo che il fortino Di Fazio sarà conosciuto, per tutta la breve esistenza dell’impero italiano d’Etiopia, anche con il nome di fortino dei Leoni. E’ la testimonianza concreta di quello che pensano i soldati nazionali e eritrei del comportamento di quegli alpini e di quel pugno di camice nere.
Ancora un canto testimonierà poi del valore dei legionari a Passo Uarièu e all’Uòrk Ambà.
……….
I morti che lasciammo a Passo Uarièu
sono i pilastri del Romano Impero.
Gronda di sangue il gagliardetto nero
che contro l'Amba il barbaro inchiodò.
Sui morti che lasciammo a Passo Uarièu
la croce di Giuliani sfolgorò!
………
Alla memoria del centurione Ugo di Fazio sarà conferita la medaglia d’oro al valor militare con la seguente superba motivazione:
“Comandante di una compagnia di rincalzo, giunto sulla linea di combattimento, mentre la dura pressione del nemico sembrava aver ragione del numero notevolmente inferiore delle nostre forze, si slanciava alla testa della sua compagnia al contrattacco, riuscendo a raggiungere una linea che non fu più ceduta. Ritto su una roccia dominante, animava per oltre due ore i combattenti col suo esempio, lanciando bombe e fulminando col moschetto e con la mitragliatrice di un caduto gli assalitori, cui causava gravissime perdite. Mentre le sue camice nere lo esortavano a ripararsi dal tiro avversario, cadeva colpito a morte, avendo ancora la forza di gridare Viva l’Italia.
Uòrk Ambà, 27 febbraio 1936 - XIV”

 
 
 

Hic Sunt Leones. I Miei Eroi.

Post n°211 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla

Eritrea: Hic Sunt Leones. I Miei Eroi.

......I miei eroi sono oggi un pugno di vecchi reduci stanchi e malandati con lo sguardo annacquato dallo scorrere del tempo ma che pare riaccendersi nella fierezza del leone al ricordo di un Italia che non esiste più e la cui dignità resiste oggi solo nella nobiltà della loro memoria......Segue >>>

 
 
 

La Strana Storia della Nave ERITREA. L'Ascari di Marina Mohammed Shun Omar.

Post n°210 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla

La Strana Storia della Nave ERITREA. L'Ascari di Marina Mohammed Shun Omar.

Fonte Testi: www.storiain.net

Una nostra unità, intrappolata nella base navale italiana di Massaua (1941), tenta
di sfuggire agli inglesi. Missione disperata. Dall'Oceano indiano al Giappone
COME LA NAVE COLONIALE "ERITREA"
GABBÒ LA MARINA BRITANNICA
di ALBERTO ROSSELLI
Nel 1941, alla vigilia della caduta della base navale italiana di Massaua, un'unità tricolore tenta una missione disperata per sfuggire alla cattura da parte delle forze britanniche: raggiungere il lontano Giappone attraversando l'Oceano Indiano e i mari del Sud Est asiatico. Epopea di una nave e del suo coraggioso equipaggio che, attraverso mille insidie, riuscirono a portare a compimento un'impresa che, sia sotto il profilo nautico che militare, ha assunto i connotati di un vero e proprio record.

Quando verso la fine di gennaio del 1941 la situazione militare in Africa Orientale Italiana iniziò ad aggravarsi e fu subito chiaro che la grande offensiva scatenata dalle forze britanniche di stanza in Sudan avrebbe prima o poi investito anche la base navale di Massaua (Eritrea), Supermarina attuò alcuni provvedimenti, preventivamente studiati, relativi all'abbandono della base da parte di tutte quelle unità, civili e militari (italiane ma anche di nazionalità tedesca), in grado di raggiungere porti neutrali o amici. Tuttavia, ai responsabili delle forze navali italiane di Massaua (nella fattispecie, l'Ammiraglio Bonetti) fu subito chiaro che il tentativo di sfuggire alla morsa nemica sarebbe riuscito soltanto ad un numero relativamente modesto di unità, cioè a quelle dotate di autonomia e attrezzature sufficienti ad affrontare le traversata che le avrebbe dovute condurre in salvo.
Per quanto concerneva la squadra militare, le uniche navi adatte ad intraprendere una così difficile missione (i porti neutrali o amici più vicini erano quelli della colonia francese del Madagascar) risultavano essere la nave coloniale Eritrea e le ex bananiere Ramb I e Ramb II, che erano state recentemente trasformate in incrociatori ausiliari. Dopo avere analizzato tutte le possibili rotte da percorrere, Supermarina decise di fare tentare alle tre unità (che tra tutte erano quelle in migliori condizioni e le uniche armate) la traversata più lunga e difficile: quella che avrebbe dovuto condurle in Estremo Oriente, dove avrebbero potuto trovare rifugio presso i sorgitori controllati dall'alleato giapponese.
L'approntamento delle tre unità venne ufficializzato nei primi giorni di febbraio e, per prima cosa, un folto gruppo di tecnici e marinai venne incaricato di iniziare immediatamente i lavori di revisione degli scafi, degli apparati motore e dell'armamento di bordo, nel mentre l'intendenza della base provvedeva a rifornire le navi di tutto l'occorrente (carburante, pezzi di ricambio, munizioni, viveri, acqua potabile e medicinali) per la missione.
Delle tre unità quella che per caratteristiche tecniche e belliche e per composizione dell'equipaggio risultava forse la più idonea a svolgere una così lunga missione era l'Eritrea: una nave piuttosto moderna (era entrata in servizio il 28 giugno 1937) destinata a specifici compiti coloniali. Senza nulla togliere alle due Ramb che pur essendo anch'esse dei buoni scafi, non erano state però concepite per svolgere impieghi che includessero azioni belliche. La presenza nel Mar Rosso e in Oceano Indiano di diverse basi militari britanniche e di numerose unità da guerra della Royal Navy, faceva infatti intendere che la missione delle tre navi italiane avrebbe, probabilmente, comportato l'incontro e lo scontro con il nemico: eventualità che si sarebbe trasformata in una autentica iattura per i piroscafi civili Ramb che poco avrebbero potuto fare contro navi militari britanniche.
L'Eritrea, dal canto suo, non era certo una nave da guerra temibilissima, ma proprio per le sue caratteristiche "militari" avrebbe potuto, in ogni caso, cavarsela meglio. Ovviamente, solo nel caso di un suo incontro con unità sottili nemiche. L'armamento dell'Eritrea risultava, infatti, sufficiente a controbattere la potenza di fuoco di un dragamine, di una torpediniera o, al massimo, di un caccia. Valutate tutte le soluzioni atte a dare il massimo dell'efficienza tecnica e operativa alla nave, l'ammiraglio Bonetti lavorò affinché l'equipaggio ad essa destinato fosse scelto con grande cura, affidando il comando dell'unità ad un ufficiale di vagliata esperienza: il capitano di fregata Marino Iannucci che alla fine di gennaio era stato fatto venire appositamente dall'Italia a bordo di un trimotore speciale Savoia Marchetti SM75 a lunga autonomia.

LA NAVE COLONIALE "ERITREA"
La nave coloniale Eritrea era, come si è detto, un'unità piuttosto moderna e ben riuscita. Impostata il 25 luglio 1935 nel cantiere di Castellamare di Stabia, essa venne varata il 20 settembre dell'anno seguente, entrando poi in servizio il 28 giugno 1937. La nave misurava 96,90 metri, era larga 13,32 metri e aveva un'immersione di 4,73 metri. Lo scafo dislocava 3.117 tonnellate ed era dotato di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano una velocità massima (diesel) di 20 nodi e una (elettrica) di 11. L'autonomia dell' Eritrea era di 6.950 miglia marine ad 11,8 nodi di velocità (diesel). E l'armamento di bordo era composto da 4 cannoni da 120 millimetri (su due torrette binate, prodiera e poppiera, parzialmente scudate), da 2 cannoncini semiautomatici da 40 mm. antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm. antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.

GIAPPONE E GERMANIA LESINANO LA LORO COLLABORAZIONE
Prima di addentrarci nel racconto della missione dell'Eritrea, è opportuno fare il quadro della situazione politico-militare del periodo, in stretta relazione con gli avvenimenti concomitanti e con l'atteggiamento diplomatico del Giappone, nazione alla quale il Governo italiano aveva chiesto la necessaria collaborazione per la riuscita della missione dell'Eritrea e delle Ramb I e Ramb II. In un primo momento (nell'autunno del 1940), la disponibilità a cooperare da parte di Tokyo era apparsa ai vertici di Supermarina (organo al quale spettava, ovviamente, il coordinamento di tutte le operazioni coinvolgenti le unità italiane) quasi certa.
Tuttavia, dopo qualche mese (tra il febbraio e il marzo 1941), il governo dell'alleato nipponico decise di fare un passo indietro, costringendo il Comando della Regia a modificare improvvisamente alcuni dettagli inerenti all'operazione combinata delle tre unità. Nella fattispecie, quando gli addetti militari giapponesi a Roma vennero a sapere che era intenzione di Supermarina non soltanto fare fuggire le sue navi dislocate a Massaua in direzione del Far East, ma fare compiere ad esse, durante la traversata, azioni di guerra nei confronti di isolati piroscafi britannici, Tokyo comunicò subito la sua totale disapprovazione, minacciando di ritirare ogni promessa fatta in precedenza.
Per questa ragione, l'11 marzo del '41, cioè ben più tardi della partenza delle tre navi da Massaua (in quella data l'Eritrea e la Ramb II si trovavano in procinto di passare dall'Oceano Indiano al Mar delle Molucche, mentre la Ramb I - comandata dal tenente di vascello Bonezzi -giaceva già in fondo al mare essendo stata intercettata e affondata da un incrociatore britannico Leader ad ovest delle Maldive il 27 febbraio), Supermarina dovette comunicare ai comandanti delle due unità superstiti (la Ramb II era comandata dal tenente di vascello Mazzella) di astenersi tassativamente da qualsiasi azione offensiva.
Contrordine che venne impartito per due precisi motivi: l'assoluta volontà manifestata dal Giappone di non inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti e la presenza in Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi nipponiche del Pacifico. Nella circostanza, fu anche l'atteggiamento, altrettanto palesemente contrario, dell'Ammiragliato germanico (che temeva un'intrusione di unità italiane, peraltro bellicamente poco efficienti, nelle aree battute dai propri efficientissimi "corsari") a fare desistere Supermarina dai suoi progetti offensivi. A questo proposito, va ricordato che, ai primi di marzo del '41, il responsabile dell'ufficio Collegamento della Kriegsmarine di Roma, ammiraglio Weichold, aveva messo in guardia Supermarina circa "l'inopportunità diplomatica e tecnica di una disposizione - quella di affidare all'Eritrea e alle due Ramb il compito di effettuare 'guerra di corsa' in Oceano Indiano o in Oceano Pacifico - che avrebbe potuto incrinare seriamente i rapporti tra Germania, Italia e Giappone": un consiglio, quello dell'ammiraglio tedesco, che assumeva, per il tono e la sostanza, i connotati di un vero e proprio ordine che il Comando della Regia (già fortemente dipendente nei confronti della Germania per le forniture di nafta) non ebbe la forza di ignorare.

UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA
L'Eritrea lascia la base di Massaua all'imbrunire del 18 febbraio, e la sera seguente supera agevolmente lo stretto di Bab el Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22, quando la nave si trova a circa 250 miglia dalla costa somala, il comandante Marino Iannucci è costretto ad ordinare il "posto di combattimento" per l'avvistamento di un'unità sconosciuta, individuata ad una distanza di circa 30 chilometri. Passato un quarto d'ora, il comandante ha più chiara la situazione, distinguendo con il binocolo alcune caratteristiche della nave che si rivela essere un grosso incrociatore ausiliario inglese da 12/14.000 tonnellate, presumibilmente armato con più pezzi da 152 millimetri.
Fortunatamente, l'unità inglese (dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea) effettua un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Il comportamento del nemico agevola Iannucci che fa subito accostare a dritta l'Eritrea, favorendo l'allontanamento. L'equipaggio italiano tira un sospiro di sollievo. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'Isola di Socotra, un altro piroscafo che viaggia a fanali spenti. Gli uomini tornano ai loro posti di combattimento. La sensazione di Iannucci è infatti quella di trovarsi di fronte ad un "avviso scorta" della classe Pathan.
Giunto ad una distanza di 6.000 metri, il comandante italiano accosta e cerca di allontanarsi, ma si accorge che la nave nemica non intende abbandonare il contatto visivo, forse per fare accorrere sul posto altre unità da guerra. Iannucci sa bene che in quel quadrante di Oceano sono frequenti i convogli scortati britannici operativi lungo le rotte Socotra-Mahè e Mombasa-Bombay. Il rischio di essere intercettati da preponderanti forze nemiche è quindi molto alto. La tensione a bordo sale. Gli artiglieri, in posizione ai loro pezzi da 120 e anche le mitragliere da 40 e quelle da 13,2 sono pronti al tiro. Le vedette scrutano l'orizzonte, ma la visibilità è molto bassa a causa dell'oscurità.
Sulla plancia, accanto ad alcuni marinai fa la guardia anche un personaggio decisamente strano, un ascaro eritreo quarantenne di nome Mohammed Shun Omar; un uomo alto, magro e con il turbante bianco in testa. Egli è l'unico elemento di colore imbarcato sull'Eritrea. Mohammed viene più volte consultato dai suoi compagni.

Gira voce che sia dotato di un particolare intuito extrasensoriale. In circostanze drammatiche come questa, i marinai, stirpe notoriamente scaramantica, si appellano non soltanto a ciò che è noto ma anche all'ignoto. Mohammed guarda l'oscurità, senza battere un ciglio, in totale silenzio, poi si volta verso i compagni e li rassicura sussurrando: "Tranquilli, la nave nemica non aprirà il fuoco". E così accade.
Il comandante Iannucci, dopo avere tentato invano di sganciarsi dall'unità inglese, sempre alle calcagna, cerca di allungare la distanza che separa quest'ultima dall'Eritrea (i due scafi stavano viaggiando quasi paralleli e ad una distanza di neanche due chilometri). La situazione si fa troppo pericolosa. Da un momento all'altro i cannoni della nave nemica potrebbero aprire il fuoco. Gli artiglieri italiani sono sempre ai loro posti, ma Iannucci preferirebbe evitare un combattimento. Un colpo fortunato dell'avversario potrebbe colpire qualche organo vitale della nave o peggio (sulla coperta sono, tra l'altro sistemati, ben 750 fusti di nafta aggiuntivi imbarcati a Massaua per aumentare l'autonomia della nave) e compromettere l'intera missione.
Quindi, meglio sganciarsi, protetti da una cortina fumogena. E così l'Eritrea accosta a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti la avvolgono completamente. Sconcertata dall'improvvisa manovra di Iannucci, la nave inglese non apre il fuoco e cerca invece di aggirare la cortina di sopravento per poi accostare a sinistra e riprendere il contatto. Ma la manovra fallisce in quanto l'Eritrea riesce a dileguarsi nella notte. Come raccontò lo stesso comandante Iannucci: "alle 23,00, dopo accuratissime esplorazioni, le mie vedette si accorsero che il nemico era stato seminato. La missione poteva quindi procedere e l'Eritrea si avventurava in pieno Oceano Indiano, in direzione sud-sud est", lasciandosi alle spalle l'isola di Socotra, e il nemico con un palmo di naso.
L'8 marzo 1941, dopo circa 16 giorni di navigazione piuttosto tranquilla nel corso della quale l'Eritrea non incrocia navi nemiche, l'unità italiana raggiunge le acque a sud di Giava, tra la grande isola olandese e il piccolo isolotto di Christmas. Tutto procede per il meglio: il morale dell'equipaggio è altissimo e i motori dell'unità non sembrano affaticati dalla lunga traversata. L'Eritrea è quasi a metà del suo viaggio. Il comandante Iannucci annota sul suo diario di bordo: "Fra tre giorni mi troverò nei mari della Malesia. Le rotte e i passaggi sono obbligati; non ho come in Oceano Indiano la possibilità di evitare di essere avvistato da qualche nave nemica e di sfuggirle scegliendo la rotta che più fa comodo nei 360° dell'orizzonte.
Sono quindi costretto a provvedere al camuffamento della nave. Ed escludendo che possa trasformare l'Eritrea in un mercantile, non mi rimane che cercare sull'almanacco navale un'unità militare appartenente ad un paese neutrale che abbia una sagoma abbastanza vicina alla nostra". Dopo qualche ora di attenta ricerca, Iannucci trova sull'annuario una bella immagine fotografica del Pedro Nunez, un avviso scorta portoghese che, assomiglia parecchio all'Eritrea. La scelta da parte di Iannucci di una nave lusitana non è casuale. Il Portogallo possiede infatti metà orientale dell'Isola di Timor (quella occidentale è sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante può inviare in quelle acque (che verranno solcate dall'Eritrea) qualsiasi nave militare, senza che la Marina britannica se ne preoccupi più di tanto.
Per cercare di fare coincidere il più possibile le caratteristiche esterne delle due unità, Iannucci fa innalzare sull'Eritrea un finto tripode di prora e fa costruire un altrettanto finto pezzo di murata lungo la sezione poppiera di coperta. "Oltre a ciò, rivestiamo due stralli
Clicca sulla immagine per ingrandire
Un gruppo di ufficiali della nave
del trinchetto in modo che abbiano un diametro di una trentina di centimetri, e invece che a murata faccio loro dormiente in coperta più spostati al centro, in modo che il tripode risulti giustamente divaricato. Alla battagliola di poppa, infine, faccio mettere il para gambe pitturato in grigio come il resto dello scafo". Effettuate queste modifiche, l'Eritrea risulta quasi completamente somigliante al Pedro Nunez. Intanto la navigazione procede e la nave italiana punta verso l'Isola di Sumba, situata ad occidente di Timor.
L'11 marzo, Iannucci riceve un telecifrato da Supermarina che gli consiglia il passaggio lungo il canale tra Timor e la piccola isola di Alor per poi addentrarsi nel Mare di Banda. Il 14 marzo, dopo avere doppiato la costa ovest dell'Isola di Buru ed essere riuscita a sfilare ad occidente dell'Isola di Waigeo, l'Eritrea esce dal Mare di Banda ed entra finalmente nell'Oceano Pacifico, puntando decisamente verso nord-est. Il 16 marzo, la nave si lascia sulla sua destra l'Isola di Yap (Isole Caroline occidentali) e prosegue la sua navigazione verso nord in direzione delle Isole Bonin, che raggiunge il giorno 18.
L'Eritrea naviga ora in una zona posta sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese. Salvo qualche sgradito ma improbabile incontro con qualche unità britannica, la lunga missione sembra volgere a termine nel migliore dei modi. E così è. Pochi giorni dopo essersi lasciata alle spalle le Bonin, la nave coloniale italiana raggiunge Kobe. Ad accogliere e a festeggiare il comandante Iannucci e il suo equipaggio non sono in molti. Soltanto una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana attende su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non deve suscitare infatti troppo clamore.
Questo è il desiderio espresso dal governo e dalla Marina di Tokyo che, curiosamente, proprio in quei giorni stanno ultimando in gran segreto i dettagli di un eventuale attacco a sorpresa contro le forze anglo-americane in Asia.
BIBLIOGRAFIA

* Il dramma della Marina Italiana 1940-1945, di Marc'Antonio Bragadin - Arnoldo Mondadori Editore, 1982, Milano.
* Ultima missione in Mar Rosso, di Fabio Gnetti, - Ed. Mursia, 1979, Milano
* La Marina Italiana nella Seconda Guerra Mondiale, Collana Ufficio Storico della M.I. fra il 1952 e il 1978.
* Guerra Segreta sugli Oceani, di Alberto Santoni - Ed. Mursia, 1984, Milano.
* Storia della Marina del Terzo Reich 1939-1945, di C.Bekker - Milano, 1974.
* Storia generale della guerra in Asia e nel Pacifico 1939-1945, di Alberto Santoni, - Modena, 1977-1979.
* Guida alle Navi d'Italia, dal 1861 ad oggi, di Gino Galoppini - Arnoldo Mondadori, 1982, Milano.
* Gli Italiani in Africa Orientale; La caduta dell'Impero, di Angelo Del Boca - Editori Laterza, 1982, Roma-Bari.
* La Guerra in Africa Orientale, Ministero della Difesa, Stato maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico - Tipografia Regionale, 1971, Roma

 
 
 

XXXII° Battaglione Coloniale Eritreo. "Osa e Vinci".

Post n°209 pubblicato il 26 Gennaio 2009 da wrnzla

XXXII° Battaglione Coloniale Eritreo. "Osa e Vinci".

 
 
 
 
 

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- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
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Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA è LA MIA STORIA

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...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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