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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi del 07/08/2008

I figli degli Ascari una storia di oggi

Post n°35 pubblicato il 07 Agosto 2008 da wrnzla

I figli degli Ascari una storia di oggi

C’è anche la storia di oggi legata alla storia degli ascari dell’Africa italiana.
Ce lo ricorda il figlio di uno di quei moltissimi fedeli soldati dei nostri reparti coloniali, l’eritreo Zegai Kahsai.

Ci ricorda che oltre mezzo milione di eritrei (“oggi siamo tre milioni, a parte i profughi”) sono caduti combattendo per l’Italia (“Io stesso sono orfano di un padre che ha servito l’Italia per 26 anni”, senza contare l’altissimo numero di mutilati che ancora sino a pochi anni fa era possibile incontrare mentre si trascinavano penosamente con l’ausilio di rudimentali arti ortopedici. E spesso sulle povere giacche un distintivo o una medaglia orgogliosamente esibiti per farsi riconoscere come “soldati italiani”. Il padre di Zegai era a sua volta figlio di uno degli ascari superstiti della tragica battaglia di Adua del 1896. Ed è indicativo che anche per la generazione “post-italiana”, cui appartiene Zegai, i tempi “prima dell’Italia” siano oscura preistoria di cui non c’è memoria, proprio come se la storia dell’Eritrea sia cominciata soltanto con l’arrivo degli italiani.Chi invece sembra aver perduto memoria di quel mezzo milione di eritrei caduti sotto le insegne del tricolore - dall’epoca di Crispi, quando l’Asmara, poi costruita dagli italiani, era soltanto un villaggio, sino al 1943 - sono proprio i governi avvicendatisi a Roma dal dopoguerra.

“Noi non ci spieghiamo questo disinteresse”, ci dice Zegai, “non solo per noi, ma anche per la vita, l’attività e la proprietà dei vostri connazionali laggiù”.
Effettivamente il legame con l’Italia degli ascari che avevano indossato l’uniforme dei nostri reparti coloniali, specialmente di quelli eritrei, è stato sempre molto forte. Ci sono episodi memorabili - e non solo relativi alle guerre - che ancora si tramandano di padre in figlio. Per esempio, l’emozione che provarono gli ascari eritrei quando, a conclusione dell’impresa libica del 1911, il governo italiano invitò una loro rappresentanza a Roma, a quel tempo geograficamente lontanissima e storicamente avvolta da mitiche leggende.
Per quei valorosi soldati indigeni furono giornate indimenticabili, a contatto con le millenarie testimonianze dell’Urbe, in spirito di fraterna amicizia con i romani che li gratificavano di attenzioni. Finito il soggiorno nella Capitale partirono per Napoli, dove li attendeva il piroscafo che li avrebbe riportati in Eritrea.
Ma lungo il percorso, esattamente a Nettuno, chiesero di potersi fermare per recarsi in visita da un vecchio amico, Domenico Rossi, un pioniere che in Africa aveva vissuto a lungo, lasciando di sé un forte ricordo, prima lavorando agli scavi per il Canale di Suez-aveva 17 anni - poi organizzando una fiorente piantagione di tabacco e avviando un redditizio commercio di animali vivi per gli zoo. Ci furono molti posti di lavoro per i nativi che appresero preziosi segreti della coltivazione - e qualche figlio italo-eritreo , visto che l’avventuroso colono aveva sposato una bella indigena. Della quale rimase vedovo quando i dervisci gli invasero la proprietà, gli uccisero la moglie e gli rapirono una figlioletta di due anni. Lui si salvò per miracolo, grazie alla coraggiosa fedeltà di un collaboratore eritreo.
L’intraprendente pioniere si era sempre fatto voler bene, sin da quando, a dorso di asino, aveva raggiunto nel 1878 il Lago Tana, attraversando sperduti villaggi, suscitando ovunque curiosità e ammirazione. Alla fine tornò in Italia, si risposò ed ebbe altri sette figli. Poi ancora altri tre a 70 anni, quando, rimasto nuovamente vedovo, si era sposato per la terza volta. Continuò a vivere sino a 90 anni. Ma fra i mille ricordi della sua vita avventurosa la memoria più commovente che amava rievocare era la visita di quella delegazione di ascari nella sua casa di Nettuno nel settembre del 1912. A consegnarci queste memorie è il nipote del singolare personaggio, il giornalista Cesare Falessi, gran viaggiatore in tutti i continenti ma con lo struggente rammarico di non aver mai avuto l’occasione di recarsi in Eritrea.
Non era soltanto la fedeltà e la dedizione a rendere così straordinari i nostri ascari. Che fossero guerrieri nati lo si notava a prima vista dalla loro struttura fisica: agili come gazzelle anche sui costoni e sulle pietraie, erano tutti magri e scatenati.
Non uno che avesse il minimo indizio di obesità, tranne qualche rarissimo caso nei graduati anziani delle truppe libiche. Tutti gli altri, eritrei, somali, amhara, galla, scioani, tigrini, dancali, apparivano smilzi ma dotati di straordinaria energia. Forse perché abituati da secoli a vagare lungo territori immensi, in continua tensione per mille pericoli sempre in agguato.
Fronte nobile, sguardo fiero, mani ossute, l’ascaro, e specialmente il dubat somalo, ricordava l’aristocratica potenza del leopardo.
Il comandante italiano doveva esserne all’altezza, il che diventava molto impegnativo se l’ufficiale non aveva maturato una profonda conoscenza della particolare psicologia di quegli uomini, generosi ma esigenti nell’aspettativa di essere ben comandati da un “capo” di spiccato carisma del quale seguire esaltanti esempi.
Vita durissima per quei comandanti: primi alla sveglia, ultimi al riposo, sorvegliati continuamente da uomini fantasiosi, pronti a imitarne gesta coraggiose e sfide estreme. Sui campi di battaglia era abituale la scena del “capo” impassibile sul muletto mentre le pallottole gli fischiavano intorno, con i gregari lanciati con impeto all’attacco cantando, per poi, a postazione raggiunta, “fare fantasia” al “signor tinenti”.
Tenete o capitano, era sempre l’ultimo a cedere alla fatica, alla sete, alla fame, a coprirsi con una coperta nelle notti all’addiaccio.
E i suoi cento ascari a farsi in quattro per esserne degni. A non fermarsi se non con la vittoria o la morte.
Innumerevoli gli episodi di ascari gravemente feriti che continuarono ad andare avanti con una resistenza incredibile. Una volta un giornalista inviato di guerra nelle prime linee si dovette pentire di aver apostrofato un graduato indigeno che aveva precariamente agganciato con il braccio destro un ascaro ferito seriamente per trasportarlo all’infermeria “ Ma ti sembra il modo di trasportare un moribondo ?” “ Io non potere portare meglio” – rispose il sottufficiale - e, spostandosi sul fianco, mostrò il braccio sinistro sfracellato dalla mitraglia.
Di sovrumano stoicismo diedero prova i dubat somali per superare i reticolati di filo spinato. Formavano una passerella umana, protetti soltanto da una coperta ripiegata e distesa sugli spuntoni, nel seguente modo: un gregario si sdraiava supino sul filo spinato, difeso dalla precaria copertura, seguito da un altro che gli passava sopra, per distendersi a sua volta, e così via, una catena i cui anelli umani restavano praticabili anche se qualche dubat restava ucciso da un colpo di fucile o di mitraglia. L’ultimo gregario si serviva così dei corpi vivi e dei corpi morti per lanciare la sua bomba contro la posizione nemica.
Un trucco escogitato in battaglia dagli ascari eritrei appostati dietro un riparo era quello di alzare con la sinistra il tarbush (il loro vistoso copricapo rosso a tronco di cono) contro cui il tiratore nemico era pronto a sparare. Un attimo per localizzare il cecchino e colpirlo, imbracciando il moschetto con la sola destra. E ripeteva lo scherzo sino a quando gli riusciva.
Erano davvero indomabili. Nel secondo conflitto mondiale, quando le sorti della guerra volsero in favore degli inglesi, gli ascari soffrirono molto, forse più e con maggiore intensità di tanti italiani. Proprio nei giorni in cui ci si poteva aspettare da parte degli indigeni la comoda scelta della discrezione - ormai tutto era perduto - gli ascari eritrei offrirono invece esempi incredibili di valore e di dedizione. Furono i più tenaci difensori del tricolore persino dopo che il secondo conflitto mondiale si era concluso in Africa Orientale con la nostra sconfitta.C’è per esempio la storia di Alemaiò Agos, un fedele eritreo guardiano dell’Ossario di Daharò Conat, dove erano raccolti i resti dei caduti della battaglia di Adua del 1896. Tanto fedele da essere stato prescelto dal “Residente” Adi Quala, Fabio Roversi Monaco, quando, ammainato il tricolore per l’ultima volta (ma l’andamento delle operazioni in Africa Settentrionale autorizzava speranze di riconquista), bisognava affidarlo a qualcuno per custodirlo.
Alemaiò, mutilato del dito indice della mano destra durante la battaglia del Tembien del 1935, così come suo padre aveva curiosamente riportato la stessa mutilazione nella battaglia di Adua del 1896, fu orgogliosissimo dell’incarico e giurò su “Cristòs” che lo avrebbe assolto con la massima dedizione. Passati gli anni, nel 1948 Fabio Roversi Monaco incontrò in Italia un amico proveniente dall’Eritrea e in procinto di tornarvi, il dr. Franchini. Gli espresse il desiderio di avere notizie di Alemaiò. Le ebbe dopo qualche mese, con una lettera dell’amico che era riuscito a rintracciare il fedele eritreo : “Ha provato una grande emozione”, scriveva il dr. Franchini, “nel sentire che ti avevo visto. Mi ha accompagnato nella sua capanna, non lungi dal monumento, e mi ha fatto vedere la tua roba, gelosamente custodita in due coppie di borse da mulo; in una cassa e nel grande recipiente di terra usato per i cereali. In fondo a questa è nascosta la bandiera”.
Ma la storia di Alemaiò non finisce qui. Racconta ancora Traversi Monaco che quando nel 1950 il nostro governo inviò in Eritrea una commissione incaricata di corrispondere ai nostri ex ascari gli arretrati dovuti, anche Alemaiò beneficiò della modesta liquidazione, e, vedendosi arrivare una sommetta inaspettata, pensò ad un intervento del suo vecchio “Residente”, che, invece, non c’entrava per nulla. L’eritreo impugnò allora faticosamente per scrivere - in italiano - una lettera a Traversi Monaco, tanto semplice quanto indicativa dei sentimenti dei nostri ex ascari: “ Con animo riconoscente e commosso la ringrazio di tutto cuore per il gentile pensiero verso la mia persona. Grazie per i 50 scellini inviatimi tramite la delegazione italiana. Dio benedica lei, sua gentile moglie, i figli e l’Italia”. Firmato: “Suo figlio Alemaiò”.
Traversi Monaco si ripromise di tornare in Eritrea appena possibile per abbracciare il suo fedele amico. E decise di lasciare a lui, per sempre, quel tricolore che aveva saputo custodire con tanta religiosa dedizione. In Italia chissà che fine avrebbe fatto. Meglio laggiù. Nell’Ossario dei Caduti di Adua, nazionali e indigeni.
Poi c’è la storia sublime dell’ascaro di Marina, Mohammed Ibrahim Farag, medaglia d’Oro al valor militare, e quella incredibile di Alì Gabrè, un graduato del Terzo Carabinieri Eritrei, che alla testa di cento cavalieri alla macchia non si arrese nel 1941 come gli era stato ordinato ma continuò a combattere contro gli inglesi sino al 1946, a conclusione di vicende da epopea.
Storie dimenticate. Ma da non dimenticare.

Franz Maria D'Asaro.
Tratto da: www.italiaeritrea.org
Altri articoli Sig. Franz Maria D'Asaro. >>> 1di1

 
 
 

E gli Ascari sfilarono a Roma

Post n°34 pubblicato il 07 Agosto 2008 da wrnzla

E gli Ascari sfilarono a Roma

Se gli Italiani erano andati nelle Colonie, anche le Colonie vennero in Italia. Accadde nel 1937, in occasione del primo anniversario della fondazione dell’Impero, con un’imponente e pittoresca parata a Roma dei reparti delle nostre truppe coloniali. Con gli ascari in estasi al cospetto degli scenari dei Fori Imperiali, un mondo mai visto, nemmeno immaginato nei sogni, e con i romani festosamente assiepati lungo l’itinerario della sfilata.
Insieme con quegli uomini sfilava la storia delle nostre truppe iniziata nel 1885, quando furono arruolati i primi ascari eritrei. Che diventarono subito leggendari, per valore, dedizione e fedeltà nelle epiche e spesso sfortunate battaglie del 1887 a Dogali, del 1895 all’Amba Alagi, del 1896 a Macallè, Adigrat e Adua, per poi essere organicamente inquadrati nel definitivo “Regio Corpo Truppe Indigene” nel 1904, su iniziativa del gen. Baldissera. E continuarono a battersi nelle successive battaglie coloniali, sino ad essere ancora loro fra gli ultimi difensori del Tricolore in Africa Orientale nel 1941.Non solo, ma qualcuno di quegli uomini, come Alì Gabrè, “muntaz” (caporalmaggiore) dei Carabinieri Eritrei (“zaptiè”) continuò per conto suo, con un centinaio di altri “irriducibili”, a combattere nelle boscaglie abissine per ulteriori cinque anni, sino alla metà del 1946. Ma questa storia merita un articolo a parte.
Alla suggestiva parata dei nostri soldati africani parteciparono le rappresentative di tutti i reparti, dai meharisti sahariani, ai “dubat” somali, dagli ascari della Fanteria, della Marina, dell’Aviazione e dei Carabinieri, a quelli delle cavallerie eritrea e libica, tutti meno due: gli ascari paracadutisti e gli ascari della Polizia dell’Africa Italiana, per la semplice ragione che le due specialità furono costituite l’anno successivo, nel 1938. Anzi, con gli “ascari del cielo” sarebbe nato l’iniziale nucleo del paracadutismo italiano. Il primo lancio di quei pionieri fu infatti effettuato nel 1938, sul Gebel cirenaico, da 800 paracadutisti libici addestrati da ufficiali e sottufficiali nella scuola della nuova specialità che nello stesso anno il governatore della Libia, Italo Balbo, aveva fatto istituire a Tripoli.
Ascari del Corpo Truppe Coloniali si presentarono in gran numero per essere ammessi alla scuola, affascinati all’idea di far parte del primo “Battaglione Fanti dell’Aria” . Riuscirono a superare le impegnative prove attitudinali in 450, insieme con 30 ufficiali e sottufficiali nazionali. Successivamente, con l’afflusso di altri volontari, fu costituito un secondo battaglione indigeno e un primo battaglione di nazionali, sino a unificare i tre battaglioni in un unico 1 Reggimento Paracadutisti.
L’anno successivo alla fondazione della prima scuola italiana di paracadutismo a Tripoli, fu inaugurata nel 1939 a Tarquinia quella per formare i reparti nazionali. Vi furono addestrate due divisioni che poi avrebbero fatto storia, la “Folgore” nel 1941, e la “Nembo” nel 1942.Alla sfilata romana furono particolarmente ammirati i meharisti sahariani, uno spettacolo fascinoso e inedito nelle strade dell’Urbe, con tutti quei cammelli dal portamento solenne e maestoso e quei misteriosi uomini del deserto avvolti nei veli bianchi delle loro uniformi per sopravvivere alle torride temperature delle sabbie roventi. Questo Corpo militare, molto speciale, era stato costituito in Somalia nel 1910, con reparti addestrati ad operare in territori ampiamente sabbiosi e di scarse risorse idriche. Successivamente furono inquadrati in gruppi e squadroni sahariani e impiegati nelle zone desertiche libiche dove gli automezzi non potevano avventurarsi, pena paralizzanti insabbiamenti.
Quanto fossero preziosi i “dromedari veloci” per operazioni nel deserto lo avevano già scoperto i Romani nelle loro conquiste in Africa e Mesopotamia, e più tardi anche Napoleone, che li impiegò nella spedizione verso le Piramidi del 1798.
Nella sfilata ai Fori Imperiali dei meharisti, gli animali sembravano più sorpresi dei cavalieri nel percorrere strade asfaltate, mai prima conosciute e non più la familiare e faticosa sabbia delle dune. Anche le cavalcature dei meharisti erano molto speciali, non i comuni dromedari, ma una varietà particolare di animali molto veloci, in grado di percorrere sino a 200 chilometri al giorno a rapida andatura. Ancora oggi è la cavalcatura preferita dai Tuaregh, i famosi “uomini blu”, nomadi del Sahara, abili guerrieri ma anche pastori e allevatori di cammelli. Detti “uomini blu” in quanto usano coprirsi il capo e il volto per proteggersi dalla sabbia con veli neri o blu. Non sono arabi, con i quali non hanno un buon rapporto, ma di antiche origini meticce, per le vicinanze delle regioni dell’Africa Nera.
Molto ammirati nella parata romana anche i “dubat” somali, snelli, scattanti, dal passo lungo, nerissimi di pelle ma bianchissimi nei turbanti e nell’abbigliamento molto leggero per potersi muovere con agilità nei rapidi spostamenti a guardia delle frontiere. Vigili e fedeli furono sempre pronti a reagire contro le incursioni dei razziatori abissini entro i nostri confini. Il più famoso fu Alì Ualle che comandava il posto di frontiera di Ual-Ual al momento di respingere il proditorio attacco del capo predone Omar Sammantar che in precedenza aveva assassinato a pugnalate un nostro ufficiale e con i suoi uomini massacrato i difensori di un nostro presidio. L’incidente di Ual-Ual – dove rifulse il valore dei “dubat”- fu la scintilla che accese il conflitto italo-etiopico del 1935.
Suscitarono curiosità anche gli “zaptiè”, i Carabinieri Eritrei, che poi si copriranno di gloria durante la disperata ed ultima resistenza in Africa Orientale sugli spalti di Cheren. Non meno applauditi gli ascari della Marina, anche loro straordinari protagonisti di eroiche vicende nel Mar Rosso quanto per noi ormai era tutto perduto.
Pittoreschi gli ascari a cavallo “Penne di falco”, in due versioni, i “Savari”, equipaggiati come i militari della cavalleria nazionale,e gli “Spahis” attrezzati secondo la tradizione locale, armati di lancia o sciabola, fucile e pistola. Gli “Spahis” avevano alle spalle una lunga e remota storia, sin da quando questo Corpo speciale di Cavalleria Leggera Ottomana era stato costituito nel 1362 dal sultano Murad I, vincitore anche per merito di questi combattenti, di molti eserciti: bizantini, ungheresi, serbi, dell’imperatore di Bisanzio, insomma, di mezza Europa balcanica sino al Kosovo, dove morì nel 1369. Gli “Spahis” furono poi ricostituiti nel 1834 dal generale francese d’Erbon, che li impiegò in Algeria, Marocco e Tunisia. Infine furono adottati anche dagli italiani dopo la conquista della Libia, che ne fecero un reparto scelto della cavalleria coloniale.
Applauditi infine i reparti molto fantasiosi degli ascari di fanteria, che sfilarono in gioioso disordine cantando inni nelle loro lingue ed agitando in aria i moschetti. Raccolti in vasti accampamenti, gli ascari vivevano insieme con le famiglie, in ordinate comunità, in un clima di serenità: il comandante italiano era considerato un punto di riferimento, al quale rivolgersi con fiducia per risolvere problemi di ogni genere, far venire un medico per il figlio febbricitante, risolvere controversie, persino per riportare la pace fra marito e qualcuna delle sue mogli, gelosa delle altre.
Mentre in Libia le truppe coloniali erano costituite da reparti nazionali e indigeni, in Eritrea e in Somalia, in tempo di pace, operavano soltanto gli ascari, comandati da ufficiali e sottufficiali nazionali.
Le truppe locali diedero un notevole contributo alla nostra storia coloniale. Anche in termini di vite umane. Cinquemila morti nelle campagne contro l’Abissinia dal 1890 al 1896; mancano dati attendibili dei Caduti nei combattimenti in Libia contro i Turchi nel 1911 e contro i senussiti negli anni ’30, mentre 4.500 rimasero sui campi di battaglia nella campagna etiopica del 1935-37; incerto il numero – ma sicuramente molto alto – degli ascari che caddero durante la seconda guerra mondiale in Eritrea, Somalia, Africa Orientale e Libia. Finita la guerra, i nostri ascari avrebbero meritato riconoscenza, invece furono frettolosamente dimenticati, e con loro oltre settant’anni di fedeltà e di comuni percorsi di storia.
Accorato interprete dello stato d’animo di quanti servirono l’Italia è uno dei più influenti rappresentanti della comunità eritrea, Zegai Kahsai: “Io stesso sono orfano di un padre che dopo 26 anni di servizio con l’Italia è morto combattendo; perché avete dimenticato il mezzo milione di eritrei caduti nelle guerre combattute dall’Italia in Africa?”.
Loro non dimenticano l’Italia, anche perché il nostro Paese aveva scelto una strada ben diversa, completamente opposta a quella praticata dalle altre potenze coloniali che senza alcuno scrupolo impiegavano reparti africani nei fronti delle guerre europee. L’Italia infatti non portò mai alcun soldato delle truppe coloniali a combattere in Europa. Non solo, ma non portò mai volontari stranieri nei nostri territori d’Oltremare, come facevano i francesi con la Legione Straniera, gli spagnoli con il Tercio, e gli inglesi con i militari indigeni arruolati in India e nelle colonie asiatiche.
Le nostre truppe invece operarono soltanto ed esclusivamente in Africa, suddivise in reparti regolari e in bande irregolari. Unica forza trascinatrice, il prestigio dei comandanti nazionali o dei capi del luogo.
La sfilata dei nostri Ascari per le vie di Roma, nel primo anniversario della fondazione dell’Impero, si concluse in un clima di grande festa e di fraternità, con i romani che facevano a gara per testimoniare agli ospiti il loro entusiasmo.

Franz Maria D'Asaro
Tratto da: www.italiaeritrea.org  

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   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

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.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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ASCARI A ROMA 1937

 

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