WrnzlaAscari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei. |
L'Ascaro del cimitero d'Asmara.
Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......
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Messaggi del 28/01/2009
Post n°212 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla
Uòrk Ambà la Ridotta dei Leoni Durerà anni. Sentenziarono gli esperti militari stranieri, tra cui gli inglesi i massimi esperti del tempo in fatto di guerre coloniali. Durerà anni ripeterono pediquessamente alcuni generali italiani. Lo stesso Badoglio, poi comandante in capo, era di questa opinione. Invece la nostra guerra in Abissinia durerà soltanto sette mesi, dal 3 ottobre 1935 al 9 Maggio 1936. E fu veramente una campagna coloniale da manuale, oggetto di studio nelle accademie militari di tutto il mondo. Eravamo fuori tempo massimo, diranno poi i soliti storici col senno di poi. Si era al tramonto del colonialismo e noi, ingenui, andavamo a conquistare un impero. Allora però non lo sapevamo. Il bello è che non lo sapeva nessuno. Né gli inglesi e né i francesi, che difendevano con i denti i loro immensi imperi. Né gli americani, che allora non sapevano ancora di essere alla vigilia delle loro prime prove per sostituire il loro moderno, ma ben più spregiudicato imperialismo a quello anglo-francese. Imperialismo, quello degli USA, che sotto molti aspetti dura tutt’ora, e questo non per fare il solito antiamericanismo di maniera, ma soltanto per dire le cose come effettivamente stanno. Si disse in seguito che, in fondo in fondo, avevamo sconfitto delle bande di povere selvaggi armati di zagaglie. E si disse una bugia. Gli italiani ebbero di fronte i migliori guerrieri dell’Africa, eguagliati solo dagli zulù. Guerrieri che il coraggio e il disprezzo della morte rendevano temibilissimi. Soprattutto per quelle loro veloci, terribili manovre avvolgenti, che tanti dispiaceri c’erano costati in un passato non troppo lontano. A Dogali, ad Adua. Ferite che a quel tempo ancora bruciavano. D’altronde eravamo in buona compagnia. Gli zulù, anch’essi magnifici combattenti, s’erano presi il lusso di dare una disastrosa sconfitta agli inglesi in quel di Isandlwana, nell’Africa del sud. La conclusione vittoriosa della guerra in Abissinia coincise con il punto più alto del consenso del popolo italiano nei confronti del fascismo e di Mussolini. In quell’occasione anche molti avversari del regime si intiepidirono. Questa breve premessa è necessaria per un oggettivo inquadramento storico dei fatti che andiamo a narrare, perché col senno di poi è facile trinciare giudizi, decidere da che parte stare e quale camicia indossare. Di questa guerra dimenticata e rimossa dalla nostra coscienza nazionale, ci piace oggi ricordare la figura della medaglia d’oro Ugo Di Fazio. La damnatio memoriae con personaggi di questo tipo è stata particolarmente severa. Da rimuovere assolutamente, perché doppiamente esecrabile in quanto morto da colonialista e con la camicia nera indosso. Ugo Di Fazio nasce a Palma Campania, in provincia di Napoli. Giovanissimo partecipa, con i gradi di ufficiale, alla Grande Guerra. Nel primo dopoguerra aderisce al fascismo e si arruola in seguito nei ranghi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, prestando servizio in qualità di ufficiale nella 144a Legione Camice Nere “Avellino”. In Eritrea il centurione Ugo Di Fazio prende il comando della II Compagnia del I Battaglione Camice Nere, facente parte del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea sotto il comando del console generale Filippo Diamanti . Il 2 ottobre questo Gruppo è assegnato al Corpo d’Armata Eritreo del generale Pirzio Biroli. All’alba del 3 ottobre 1935, i tre Corpi d’Armata italiani del fronte nord iniziano le ostilità contro l’Etiopia e varcano la linea di confine Mareb-Belesa-Muna. Da Belesa il Corpo d’Armata Eritreo, dopo una ininterrotta marcia di oltre 14 ore, raggiunge Guzat. Da qui, nei giorni successivi, avanza nell’Enticciò. Il 26 ottobre è già attestato nella conca di Zattà. Il 9 novembre occupa Hauzien. Il 23 è la volta di Gheraltà. Infine l’avanzata verso il Tembièn, dove si trovano riunite ingenti forze avversarie. Agli inizi di dicembre 1935 le avanguardie delle camice nere del Corpo d’Armata Eritreo sono davanti al Passo Uarièu, la porta della regione del Tembièn.
Passo Uarièu è una sella posta tra due cocuzzoli montuosi, su ognuno dei quali c’è un fortino. Il passo, situato ai piedi orientali dell’Uòrk Ambà, la Montagna d’Oro, costituirà con quest’ultima la chiave strategica di tutte le nostre operazioni nel Tembièn. Il loro controllo sarà pertanto decisivo nella 1a e 2a battaglia del Tembièn. Il 5 dicembre viene occupata Abbì Addì , capitale di quella regione, ma viene sgombrata il 27 dello stesso mese per la pressione di soverchianti forze nemiche. Infatti Ras Cassa e Ras Seium stanno ammassando nella zona un’armata di 20.000/30.000 abissini, per tentare lo sfondamento del fronte italiano in quel punto. A causa di ciò la nostra linea di resistenza viene arretrata a Passo Uarièu, che per la particolare conformazione dei luoghi si presta egregiamente a tale scopo difensivo. Proprio da questo passo, il 21 gennaio 1936, parte una colonna di camice nere, agli ordini del generale Diamanti, per un’azione dimostrativa in direzione di Abbì Addì, divenuta ora quartier generale di Ras Cassa e Ras Seium. Ai roccioni di Debra Ambà la colonna si scontra con forti bande abissine e le volge in disordinata fuga. Alla fine i legionari della colonna Diamanti riescono a sganciarsi e a rientrare nei fortini di Passo Uarièu, grazie anche all’intervento dell’artiglieria e del presidio del passo, ma grazie soprattutto al sacrificio dei mitraglieri della 2a Divisione CC. NN., che, attestati sulle estremi propaggini del passo, falciano le prime ondate dei guerrieri abissini, fermandoli temporaneamente e consentendo così il rientro dei camerati. Quei coraggiosi verranno, poi, tutti massacrati dal nemico sulle canne ancora roventi delle loro mitragliatrici. Il combattimento di Mài Belès è costato agli italiani la perdita di 171 camice nere, di cui 15 ufficiali, oltre a 163 feriti. Sono caduti nello scontro, tra gli altri, padre Reginaldo Giuliani e il seniore Luigi Valcarenghi. Gli abissini contano da parte loro qualche migliaio di morti. In tutti quegli aspri scontri si è sentita, spesso, risuonare una canzone, Pallida luna, assai cara agli ufficiali e ai legionari del I Gruppo Battaglioni Camice Nere d’Eritrea. “Pallida luna/pallida luna/…../porta fortuna”. E’ l’armonioso canto dei legionari del Tembièn, intonato ogni qualvolta si va all’assalto. Sono veramente gli ultimi romantici epigoni di un mondo coloniale, che non sa ancora di essere al tramonto. In quei giorni il I Battaglione CC. NN., di cui fa parte il Nostro, si trova a Monte Pellegrino, situato a circa 6 chilometri a est di Passo Uarièu. Questo monte è di vitale importanza per le operazioni militari in corso a causa delle sue sorgenti, le uniche in tutta la zona. Per questo motivo è presidiato in forze. Nella 1a battaglia del Tembièn, Ras Cassa, usando come esca proprio queste sorgenti, aveva sperato di attirare in una trappola mortale gli italiani assediati, che soffrivano enormemente per la mancanza d’acqua. Ma gli italiani non avevano abboccato. Da Monte Pellegrino il I Battaglione CC. NN. riceve l’ordine di portarsi a Passo Uarièu, dove giunge all’alba del 27 febbraio. Lo segue un battaglione di granatieri del Gruppo Battaglioni Nazionali del colonnello Gotti. Sta per iniziare la 2° battaglia del Tembièn. Nella notte, impreziosita dallo scintillio di miriadi di stelle del bel cielo africano, gli italiani e gli ascari eritrei si muovono senza far rumore. Non portano niente di superfluo, nemmeno i viveri, solo le armi. La scalata deve essere rapida e silenziosa. Moschetto a tracollo, pugnale alla cintura e i tascapani ripieni di bombe a mano. La scalata avviene strisciando al riparo della scarna vegetazione dell’Ambà. Le sentinelle abissine, sparse qua e là, pur vigili nei loro ferini sguardi non si accorgono di nulla. Per le camice nere del costone nord va tutto bene. Raggiunta la cima, fanno fuori col pugnale le poche sentinelle e si apprestano a difesa. Sono le prime ore del mattino del 27, quando il comando italiano decide di mandare dei rincalzi. Arriva quindi l’ordine a Di Fazio di portarsi subito con la sua compagnia in appoggio agli alpini. La scalata si presenta oltremodo pericolosa perché bisogna trovare un varco tra nugoli di abissini che attaccano. Nonché ardua e faticosa, per via di quei costoni irti e scoscesi e per quella pesante mitragliatrice che si portano appresso. D’altronde Di Fazio e i suoi uomini non sono alpini, come quelli a cui vanno in aiuto e che in quel momento stanno vendendo cara la pelle. Comunque bisogna andare avanti. Di Fazio, vecchio reduce dalle trincee della Grande Guerra, conosce bene lo stato d’animo che genera quella carneficina. Calmo e impassibile rincuora quindi i suoi ragazzi, predisponendoli per la resistenza ad oltranza. Ed ecco risuonare il canto di Pallida luna. “Pallida luna/…/porta fortuna”. Il centurione sa dell’importanza fondamentale di quella posizione per le sorti della battaglia in corso e non la mollerà per nessuna ragione al mondo. Lo preoccupano solo la scarsità delle munizioni e le armi, che per il fuoco continuato cominciano ad incepparsi. Come quel moschetto, con cui poc’anzi sparava nel mucchio degli attaccanti. Di Fazio si rende conto che può fare ben poco con quel suo moschetto. Un rapido sguardo tutt’intorno e scorge un roccione a strapiombo, sovrastante la massa dei nemici. Raccoglie dunque dei tascapani pieni di bombe a mano, poi si arrampica sulla roccia. Calmo, con i denti strappa la sicura e lancia una bomba a mano. Poi un’altra. E ancora un’altra. E poi ancora, a decine. Vuoti paurosi si aprono tra gli abissini, costretti a disperdersi per ripararsi da quella pioggia di micidiali schegge, che uccide, ferisce, mutila. Comincia intanto un rabbioso fuoco di fucileria da parte degli abissini contro quel temerario, che ha fermato l’ultimo e decisivo assalto contro quel pugno di camice nere. Tra il grandinare dei proiettili nemici, Di Fazio continua imperterrito a lanciare i micidiali ordigni. Alla fine avrà lanciato più di novanta bombe a mano, come testimonierà il suo attendente, la camicia nera Ernesto Genovesi . Sull’onda travolgente dell’esempio del loro comandante, adesso sono tutte le camice nere della II Compagnia a comportarsi da leoni. Al canto legionario di “Pallida luna/pallida luna/…/porta fortuna”, è il contrattacco. Una valanga di ferro, fuoco e rabbia si abbatte sugli abissini, che danno i primi segni di cedimento. Alla fine la giornata sarà nostra, grazie anche al sacrificio di Di Fazio e di altri come lui. Anche il generale Diamanti scriverà poi alla vedova, annunciandole che il fortino sulla cima destra dell’Uòrk Ambà era stato intitolato al nome del marito, Ugo Di Fazio, e terminando “…signora, dica a suo figlio di ricamare sul suo fazzoletto di balilla il nome del suo eroico padre”. Annotiamo che il fortino Di Fazio sarà conosciuto, per tutta la breve esistenza dell’impero italiano d’Etiopia, anche con il nome di fortino dei Leoni. E’ la testimonianza concreta di quello che pensano i soldati nazionali e eritrei del comportamento di quegli alpini e di quel pugno di camice nere. |
Post n°211 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla
Eritrea: Hic Sunt Leones. I Miei Eroi. ......I miei eroi sono oggi un pugno di vecchi reduci stanchi e malandati con lo sguardo annacquato dallo scorrere del tempo ma che pare riaccendersi nella fierezza del leone al ricordo di un Italia che non esiste più e la cui dignità resiste oggi solo nella nobiltà della loro memoria......Segue >>> |
Post n°210 pubblicato il 28 Gennaio 2009 da wrnzla
La Strana Storia della Nave ERITREA. L'Ascari di Marina Mohammed Shun Omar. Fonte Testi: www.storiain.net Una nostra unità, intrappolata nella base navale italiana di Massaua (1941), tenta Quando verso la fine di gennaio del 1941 la situazione militare in Africa Orientale Italiana iniziò ad aggravarsi e fu subito chiaro che la grande offensiva scatenata dalle forze britanniche di stanza in Sudan avrebbe prima o poi investito anche la base navale di Massaua (Eritrea), Supermarina attuò alcuni provvedimenti, preventivamente studiati, relativi all'abbandono della base da parte di tutte quelle unità, civili e militari (italiane ma anche di nazionalità tedesca), in grado di raggiungere porti neutrali o amici. Tuttavia, ai responsabili delle forze navali italiane di Massaua (nella fattispecie, l'Ammiraglio Bonetti) fu subito chiaro che il tentativo di sfuggire alla morsa nemica sarebbe riuscito soltanto ad un numero relativamente modesto di unità, cioè a quelle dotate di autonomia e attrezzature sufficienti ad affrontare le traversata che le avrebbe dovute condurre in salvo. LA NAVE COLONIALE "ERITREA" GIAPPONE E GERMANIA LESINANO LA LORO COLLABORAZIONE UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA Gira voce che sia dotato di un particolare intuito extrasensoriale. In circostanze drammatiche come questa, i marinai, stirpe notoriamente scaramantica, si appellano non soltanto a ciò che è noto ma anche all'ignoto. Mohammed guarda l'oscurità, senza battere un ciglio, in totale silenzio, poi si volta verso i compagni e li rassicura sussurrando: "Tranquilli, la nave nemica non aprirà il fuoco". E così accade. * Il dramma della Marina Italiana 1940-1945, di Marc'Antonio Bragadin - Arnoldo Mondadori Editore, 1982, Milano. |
INFO
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.
Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.
Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.
QUESTA È LA MIA STORIA
.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....
...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."
(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)
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