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C'era una volta l'Italiano 13

Post n°121 pubblicato il 07 Aprile 2010 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare

di Nino L. Bagnoli

(13) 

Nuovo florilegio (5)  

«Non essere in grado a stirare» - Massimo Giletti, da un po’ di tempo a questa parte sta, piano piano, insidiando il record di gaffe targate RAI, detenuto per molti anni da Luca Giurato. L’ultima che abbiamo ascoltato, nella trasmissione «L’Arena», è stata quella riportata nell’incipit di questo capitolo.  I nostri lettori hanno già letto, in queste note (puntata precedente) la stramba costruzione sintattica usata dall’ex ministro delle Pubblica Istruzione Fioroni, molto simile a quella di Giletti. Il quale, così procedendo, ha, forse, un posto assicurato in un prossimo (?) governo di sinistra.
Dobbiamo ribadire che la preposizione giusta era
«di»?
Speriamo di no.
 

«affatto» - Nelle nostre scorrerie nei canali televisivi, come potrete immaginare, ne sentiamo di cotte e di crude. I nostri “mezzibusti”, giornalisti o intrattenitori sembrano volerci molto bene e si dànno un gran da fare per non lasciarci senza materiale per la nostra rubrichetta.
Il marrone di cui stiamo per rendervi edotti è l’uso improprio dell’avverbio
«affatto», il quale, in buona lingua, ha il significato di “interamente” , “del tutto”, ma che, con grande disinvoltura, è usato quasi sempre con valore negativo. Quando qualcuno vi chiede se siete stanco e voi lo siete, rispondete pure «affatto», ossia “del tutto”, se non lo siete, dovete rispondere «niente affatto», o «non sono affatto stanco». Difficile? Per tanti, forse, lo è. 

«alzare le mani a qualcuno» - Lo si sente, con sconcertante frequenza, in alcuni “talk show” e nei “reality”, nel senso di “percuotere”, “picchiare” e simili. Eccellono, in questa brutta e scorretta costruzione Rita Dalla Chiesa e i suoi due palafrenieri, oltre a molti (troppi) dei cosiddetti «opinionisti» (pensate che balzo all’indietro ha fatto il valore delle parole!) che affollano lo studio di «Forum». Ogni occasione è buona per enfatizzare che «le mani non si alzano a nessuno!»
E, invece, sarebbe sacrosanto diritto degli onesti spettatori vilipesi dai troppi insulti alla Lingua italiana che si perpetrano in quella trasmissione, di «alzare le mani su qualcuno di loro». 

«avere il diritto a chiedere» -  Altra costruzione errata. A parte il fatto che oggi chiunque apra la bocca, esordisce rivendicando un diritto, il più delle volte solo presunto, va notato che, eventualmente, si ha il «diritto di chiedere».
E, a proposito di chiedere, pochi sanno la differenza tra «chiedere» e «domandare». Ricordiamo che «si chiede» per ottenere qualcosa un favore, un documento, ecc., mentre «si domanda» per sapere qualcosa, come un’informazione stradale, la giusta coniugazione di un verbo e così via. 

«defaticante» / «defatigante» - I due verbi, quasi omografi, non sono sinonimi, anzi, hanno significati opposti. Il primo, infatti, «defaticante», significa «che consente defaticamento», e si applica a quegli esercizi fisici, di breve durata e a ritmo leggero, che si praticano per rilassare i muscoli dopo una prestazione impegnativa. L’altro, «defatigante», vuol dire «logorante, stancante», come può essere un esercizio fisico particolarmente intenso, o come l’assistere a certi programmi televisivi.  
Appare evidente che si deve prestare particolare attenzione nell’usare l’uno o l’altro.
 

«dimissioni e dimissione» - Da oltre cinquant’anni è viva la polemica sull’espressione «rassegnare le proprie dimissioni», caratteristica del linguaggio burocratico, ottocentesca, ridondante e irrazionale. Ma, si sa, la burocrazia è dura a morire. Intanto quel «proprie», che senso ha? Potrei io presentare le dimissioni di un altro? E perché «rassegnare» le dimissioni? “Presentare” apparve, forse, troppo banale al funzionario di turno nel “Reparto Creativo Mostri Lessicali”? Ma, soprattutto, perché «le dimissioni»? Non basta una?
Questo mostriciattolo ha ingenerato una grave confusione nel cranio del giornalista Mastromauri del TG5, il quale, dall’esterno dell’Ospedale dove era ricoverato Berlusconi, dopo l’aggressione subita in piazza Duomo a Milano nel pomeriggio del 13 dicembre 2009, dovendo riferire della imminente decisione dei medici di «dimettere» il Presidente dall’Ospedale, si è più volte “incartato”  nel discorso parlando di «dimissioni»  del Premier, anzi che di «dimissione».
Ringalluzzendo, così, le speranze dei tanti oppositori.

«guàina» - La pronuncia del sostantivo è errata. Forse i «creativi» della pubblicità televisiva non lo sanno (ma leviamo pure il “forse”), e tanto meno lo sanno le donnine che, in abiti succinti, mostrano l’indumento “snellente” e ne consigliano l’uso. Il vocabolo «guaìna» , in buona Lingua, deve essere pronunciato con l’accento tonico sulla : «guaìna».Con buona pace dei pubblicitari.
Ricordiamo, poi, che l’oggetto di cui parliamo prende il nome dalla guaìna del pugnale o della sciabola, quello che alcuni chiamano anche “fodero”. Ma se pensate al verbo che indica l’azione di estrarre la sciabola dal fodero, ricorderete che quel verbo è, appunto, «sguainare».
 

«è quello che abbiamo bisogno» - È una frase che si comincia a sentire troppo spesso in Tivvù, sulla bocca delle persone intervistate per la strada, nei mercati, nei posti di lavoro. È la conferma del pessimo stato in cui versa la nostra lingua. Fa il paio con l’altra espressione «è un popolo che piace sognare» , che ricorre anch’essa attraverso i microfoni televisivi. È chiaro che la Lingua vuole che il pronome giusto sia, nel primo caso, «di cui», e, nel secondo, sia «cui» . Di sicuro, in nessuno dei due potrà essere «che».

«la cosa che a me colpisce» - Questo erroraccio è uscito dalla bocca di Elisa Caleffi, giornalista di Libero, nel corso di un suo intervento a “8 e ½”, la rubrica di Lilly Gruber, sulla “7”. Due o tre di questi errori, in uno scritto presentato in una prova per l’ammissione all’Ordine, dovrebbe comportare, da parte di una Commissione “seria”, l’esclusione del candidato. E, da parte del Direttore del giornale, l’«invito» a frequentare un “corso di recupero”. Il verbo colpire è un verbo transitivo, quindi si costruisce con il complemento oggetto (me), non con il complemento di termine (a me). Cosa può aver indotto la giornalista ad un marrone così grave? Presumiamo che ella abbia più volte sentito la frase «quello che mi colpisce» ed, essendo poco pratica di grammatica e di sintassi, abbia dimenticato che il pronome «mi» significa sia «me» (complemento oggetto) che «a me» (complemento di termine), ed ha usato quest’ultimo al posto del più corretto «me», posto dopo il verbo, ovviamente.
Voto: 2, per indulgenza.

 

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