Creato da Leseratte il 14/10/2013

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Bernhard Lichtenberg, Giusto tra le nazioni

Post n°25 pubblicato il 09 Settembre 2014 da Leseratte
 

In questi giorni sto leggendo il saggio La banalità del male (eng. Eichmann in Jerusalem) di Hanna Arendt, resoconto scritto per il settimanale New Yorker sul processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, tenutosi a Gerusalemme nel 1961. Non voglio dilungarmi sul contenuto del saggio - peraltro disponibile gratuitamente in PDF su internet e che consiglio vivamente a chiunque voglia comprendere più a fondo e in modo più oggettivo la questione ebraica e quella colossale catastrofe che fu la "soluzione finale"-, ma dedicare questo post a un personaggio citato dall'autrice, Bernhard Lichtenberg. Più volte nel libro viene posto un quesito che chiunque, più o meno interessato alla questione ebraica e all'Olocausto, si sarà posto: come sia stato possibile che in una nazione di ottanta milioni di persone (culturalmente molto avanzata) pochi si siano ribellati alla follia di un regime terrorista senza precedenti come quello nazista e abbiano alzato la testa o semplicemente aperto gli occhi davanti alla barbarica tragedia del vicino di casa ebreo?

Nei difficili tentativi di risposta proposti, la Arendt cita una figura di cui mai avevo letto o sentito (paradossale per me che vivo a Berlino): Bernhard Lichtenberg.

Bernhard Lichtenberg nasce a Ohlau nel Niederschlesien (allora regione prussiana) il 5 Dicembre 1875 da una modesta famiglia cattolica (in un regione a prevalenza protestante). Conclusi gli studi liceali nella sua città, si iscrive alla Facoltà di Teologia prima a Innsbruck poi a Breslau e viene ordinato sacerdote nel 1899.  Dopo un primo incarico a Neisse viene trasferito a Berlino, ove svolge servizio dal 1913 al 1930 presso la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù (Herz-Jesu-Gemeinde) e dal 1932 presso la Cattedrale di Sant'Edvige (Sankt-Hedwigs-Kathedrale)

Dopo la prima guerra mondiale, in cui presta servizio come cappellano militare, Lichtenberg diventa membro dell'"Associazione per la pace de cattolici tedeschi" (Friedensbund Deutscher Katholiken) e nel 1929 viene eletto nel consiglio direttivo del gruppo di lavoro interconfessionale del "Gruppo per la pace" ("Arbeitsgemeinschaft der für den Frieden Konfessionen"). Nel 1931 Lichtenberg invita i parrochiani del suo quartiere Charlottenburg alla proiezione del film Niente di nuovo sul fronte occidentale ispirato all'opera di Erich Maria Remarque. Si tratta di un film con un chiaro messaggio pacifista e antibellico e il gesto gli costa il primo feroce attacco da parte di Joseph Goebbels e una prima perquisizione della sua abitazione da parte dei servizi segreti.

Lichtenberg non si fa tuttavia scoraggiare da queste prime minacce. Appena il segretario del partito del SPD, Jürgen Jürgensen, lo informa nel 1935 sulle condizioni dei prigionieri nel campo di concentramento Esterwegen (uno dei primi, destinato ai detenuti politici) scrive due lettere di protesta. Werner Best, capo sostituto della Gestapo, e Theodor Eicke, comandante del campo di Esterwegen, in tutta risposta gli comunicano che lo "stato di diritto" non esiste più e con l'accusa di "procurato allarme" lo torturano - invano - per conoscere la fonte delle sue informazioni.

Dopo gli atti di violenza a danno degli ebrei e dei cristiani di origine ebraica perpetrati dai nazisti nel novembre del 1938 (la famosa Kristallnacht), Lichtenberg dedica le sue omelie e  le preghiere domenicali esclusivamente al tema dei perseguitati di ogni credo, ribadendo la vicinanza agli ebrei e all'ebraismo. Nel 1941 prende posizione contro l'uccisione dei disabili (il programma di "eutanasia") in una lettera indirizzata a Leonardo Conti (Segretario di Stato alla Sanità presso il Ministero degli Interni e capo del programma di eugenetica nazista - un italiano di cui andare fieri!).

A seguito di una denuncia anonima Lichtenberg viene arrestato il 23 ottobre 1941 con l'accusa di attività sovversiva e il 22 maggio 1942 viene condannato a due anni di reclusione per abuso della sua carica sacerdotale. Sconta la pena nel carcere berlinese di Tegel e poi nel campo di transito di Berlino-Wuhlheide. In carcere riceve la visita del vescovo di Berlino, Konrad von Preysing Lichtenegg Moos, che gli presenta la proposta della Gestapo che gli avrebbe permesso di rimanere libero, se avesse giurato di astenersi dal predicare per tutta la durata della guerra. Lichtenberg chiede invece di poter accompagnare i deportati ebrei e cristiani, al fine di adempiere al proprio ministero.

Il servizio di sicurezza nazista ordina dunque il suo internamento, a 67 anni, nel campo di concentramento di Dachau. Il suo ultimo breve viaggio insieme ad altri duecento prigionieri inizia il 3 novembre 1943. Già malato al cuore e ai reni, viene ricoverato in un ospedale di Hof, tappa intermedia della deportazione, dove riceve l'estrema unzione dal parroco della cittadina, Prälat Michael Gehringer. Muore il giorno seguente, il 5 novembre. Prima che la Gestapo abbia il tempo di intervenire e cremare le sue spoglie, la polizia locale riesce a trasferire il suo corpo a Berlino, dove arriva l'11 novembre e dove viene celebrato il suo funerale il 16 novembre nella Chiesa di San Sebastiano.


Il feretro, seguito da circa cinque mila cittadini, viene condotto alla Cattedrale di Sant'Edvige, dove tuttora si trova. Tale corteo funebre viene ricordato come una delle ultime e più grandi manifestazioni dei cattolici berlinesi nel periodo nazista.

Bernhard Lichtenberg è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 23 giugno 1996 e riconosciuto Giusto tra le nazioni da Yad Vashem il 7 luglio 2004.

La prossima volta che passerò dalla Cattedrale di Sant'Edvige (a Bebelplatz a Mitte) avrò un motivo in più per fermarmi e rendere onore a un uomo giusto.

Forse non siamo ancora in grado di rispondere alla domanda "perché pochi tedeschi si sono ribellati?", ma sappiamo con certezza che se in tanti, come Lichtenberg, lo avessero fatto, i nazisti non avrebbero potuto deportare tutti e tanti uomini giusti e innocenti come lui non avrebbero sacrificato la loro vita per quello che Eichmann stesso definì "idealismo".

 
 
 

Cosa leggere sotto l'ombrellone? Dieci libri da non perdere

Post n°24 pubblicato il 25 Giugno 2014 da Leseratte
 

Finalmente, dopo tanta faticosa attesa, è arrivata la calda estate e i più fortunati (io per il momento non ne faccio parte, visto che a Berlino ci sono 12 gradi e piove da giorni...) possono rilassarsi al mare sotto un ombrellone oppure godersi il sole sulla riva di un lago o su un bel prato verde. Cosa c'è dunque di meglio di una lettura intrigante ma rilassante?

Ecco i miei consigli di lettura per quest'estate: ho scelto sia alcuni classici che qualche novità editoriale, romanzi come thriller (gli ultimi tre). Tutti i libri che ho deciso di consigliare in questo post hanno un aspetto in comune, a mio avviso il must dei libri "da ombrellone": il lettore rimane incollato dalla prima all'ultima pagina.

PS. Nonostante io prediliga i "mattoni", questa volta ho cercato di restare sul leggero...

Trilogia della città di K., Agota Kristof

E' senza dubbio l’opera più nota della Kristof. In realtà consta di tre romanzi separati ("Il grande quaderno", "La prova", "La terza menzogna") che assumono però un preciso significato globale, anche a livello di trama, uniti l’uno all’altro. L’ambiente è quello fangoso, povero, guasto delle campagne dell’Est dove la gente vive in simbiosi con gli animali e in sordida promiscuità. In tale ambiente due fratelli crescono, allevati da una nonna gretta e disumana, raccogliendo in un quaderno le loro esperienze. Da lì inizia poi la loro esistenza, fatta di abbandoni e successivi incroci, sino ad un epilogo sconvolgente.

Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer

Jonathan, un giovane ebreo statunitense, si reca in Ucraina alla ricerca di Augustine, la donna che salvò la vita a suo nonno durante le deportazioni naziste. Armato di una fotografia che ritrae Augustine con suo nonno, Jonathan inizia così la sua ricerca della città fantasma di Trachimbrod, lo shtetl (villaggio) in cui all'epoca suo nonno viveva. Nel suo viaggio è accompagnato da una guida locale, Aleksandr (Alex), dallo strambo nonno di Alex e dal proprio cagnolino, Sammy Davis Junior Junior. Un vero e proprio tuffo in un capitolo tragico del Novecento, alleggerito dalla sapiente e piacevole ironia dei personaggi.

La casa degli spiriti, Isabel Allende

E' una saga nella quale si intrecciano le vicende di due famiglie sudamericane che diventano il pretesto per ripercorrere la recente storia cilena con i suoi eventi più drammatici come il terremoto del 1960, il Golpe, la morte di Neruda. Ma il libro è arricchito dal fascino della magia, dell’esoterismo e del mistero. Tutta la storia ruota intorno alle indimenticabili figure di Clara del Valle ed Esteban Trueba. Romanzo particolarmente consigliato a chi ama le saghe familiari travolgenti e appassionanti. Il libro fa parte di una trilogia ideale insieme a La figlia della fortuna e Ritratto in seppia (anche loro consigliatissimi).

Lolita, Vladimir Nabokov

Un professore di letteratura francese, quarantenne, si trova a fare conoscenza con la giovanissima, maliziosa, spregiudicata Dolores Haze (Lolita), per la quale perde la testa a tal punto da sposarne la madre pur di averla sempre vicina. Le avventure – disavventure del professore giungeranno persino a drammatici risvolti giudiziari legati alla morte dell’uomo che istiga alla fuga la sua Lolita. Capolavoro assoluto: intrigante, piacevole, arguto e scorrevole come un giallo ben riuscito.

La famiglia Karnowski, Israel Joshua Singer

Un grandioso affresco familiare in cui si snoda, attraverso tre generazioni e tre paesi – Polonia, Germania e America –, la saga dei Karnowski. Comincia con David, il capostipite, il quale all'alba del Novecento lascia lo shtetl polacco in cui è nato per dirigersi alla volta di Berlino. Il figlio Georg, divenuto un apprezzato medico e sposato a una gentile, incarnerà il vertice del percorso di integrazione e ascesa sociale dei Karnowski. Il figlio Jegor però, contagiato da un masochista razzismo nazista, porterà alle estreme conseguenze, in una New York straniante e nemica, la contraddizione che innerva l'intera storia familiare. Singer ci regala pagine d'inconsueta bellezza e allo stesso tempo anticipa la grande tragedia degli ebrei europei, rivelando quelle virtù profetiche che solo i veri scrittori possiedono.

Un cappello pieno di ciliege, Oriana Fallaci

Un'altra saga familiare, questa volta tutta italiana, opera ultima della grande, quanto discussa, Oriana Fallaci. La giornalista, conscia del poco tempo che le resta, ricostruisce e reinventa la rocambolesca storia della propria famiglia a partire dal 1773. Personaggi meravigliosi che vivono i momenti clou della prima storia italiana e che rimangono impressi nella memoria del lettore. Non fatevi spaventare dalla mole del libro: già a partire dall'introduzione la curiosità non vi darà tregua e, quando lo avrete finito, correrete anche voi a cercare i vostri trisnonni negli archivi del comune (come ho fatto io).

L'ombra del vento, Carlos Ruiz Zafòn

Dubito che ci sia ancora qualcuno che non abbia letto questo libro, ma nel caso foste proprio voi l'eccezione, rimediate al più presto ! Una mattina del 1945 il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri vengono sottratti all'oblio. Qui Daniel entra in possesso del libro "maledetto" che cambierà il corso della sua vita, introducendolo in un labirinto di intrighi legati alla figura del suo autore e da tempo sepolti nell'anima oscura della città.

Uomini che odiano le donne, Stieg Larsson

Opera postuma dello scrittore svedese Stieg Larsson. Trama: da molti anni, la nipote prediletta del potente industriale Henrik Vanger è scomparsa senza lasciare traccia. Il cadavere non è mai stato ritrovato. Quando, ormai vecchio, Vanger riceve un dono che riapre la vicenda, incarica Mikael Blomkvist, noto giornalista investigativo, di ricostruire gli avvenimenti e cercare la verità. Aiutato da un'abilissima e stravagante giovane hacker, Lisbeth Salander, Blomkvist indaga a fondo la storia della famiglia Vanger, ma più scava, più le scoperte sono spaventose. Giallo appassionante, non consiglio però i due successivi romanzi della trilogia, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta.

Il silenzio degli innocenti, Thomas Harris

Chi di voi non ha visto il film, vincitore di cinque premi Oscar, con il terribile Hannibal Lecter, interpretato dal grandissimo Anthony Hopkins, e la promettente Clarice Starling (la giovanissima Jodie Foster) alla ricerca del più stravagante dei serialkiller? Ciò non toglie nulla al libro che, come il film, rimane uno dei migliori thriller in circolazione, sia per la suspense che per la forte carica emotiva, sia per la caratterizzazione dei personaggi che per l'impatto psicologico sul lettore.

La terapia, Sebastian Fitzek

Viktor Larenz è un brillante psichiatra di Berlino. La sua vita va improvvisamente in frantumi quando la figlia dodicenne Josy, affetta da una malattia sconosciuta, scompare nel nulla. Viktor la cerca ovunque senza mai rassegnarsi, sacrificando carriera e matrimonio. Quattro anni dopo, mentre si trova bloccato su un'isola a causa di una tempesta, l'uomo riceve la visita di un'enigmatica scrittrice di libri per l'infanzia, Anna Spiegel. La donna vuole assolutamente entrare in terapia con lui perché è perseguitata dai suoi personaggi, in particolare da una bambina che somiglia in modo impressionante a Josy. Ma chi è davvero Anna Spiegel? Considerato l'inventore del genere psychothriller e bestseller assoluto in Germania, Fitzek riesce in tutti i suoi libri a tenere incollato il lettore dalla prima all'ultima pagina, senza mai risultare noioso o banale.

Un ultimo sentito consiglio: sia che preferiate i libri in formato cartaceo, che gli e-book, per favore evitate di acquistarli su Amazon (prima o poi gli dedicherò un post cattivissimo). L'ideale sarebbe rivolgersi a una libreria vecchio stile, ma se volete comprarli su internet vi consiglio siti nostrani come Deastore (spedizione gratuita anche per l'estero!), Ibs.it o La feltrinelli. A chi volesse risparmiare parecchio, consiglio un sito ove è possibile acquistare da privati libri in seconda mano anche fuori catalogo e per pochi euro: comprovendolibri.it (purtroppo solo spedizioni in Italia).

 
 
 

I significati della bandiera italiana

Post n°23 pubblicato il 20 Giugno 2014 da Leseratte
 

Come tutti sapete, è tempo di Mondiali. Mi è capitato di seguire le partite dell'Italia con diversi amici stranieri, che mi hanno spesso domandato quale sia il significato dei colori della nostra meravigliosa bandiera. Ecco quindi una breve spiegazione dell'origine del tricolore italiano.

La bandiera italiana è costituita da tre colori: il verde, il bianco e il rosso. I tre colori sono stati disposti a bande verticali di uguali larghezza e lunghezza per ricordare gli ideali della rivoluzione francese, ovvero gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Il verde simboleggia la speranza, che caratterizzò il difficile periodo delle rivoluzioni dell'Ottocento, e il colore tipico della macchia mediterranea, elemento distintivo del paesaggio italiano; il bianco simboleggia la religione di stato cattolica e le Alpi famose per i loro ghiacciai; il rosso ricorda il sangue sacrificato per l'Unità d'Italia.

Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all' Etna; le nevi delle alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch'ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà.
(Giosuè Carducci, discorso tenuto a Reggio Emilia il 7 gennaio 1897)

Questi tre colori assumevano un forte valore simbolico già nella Commedia di Dante, ove rappresentano le tre virtù teologali: verde-speranza, bianco-fede, rosso-carità.

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva

e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva

donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

(Divina Commedia, Purgatorio, canto XXX, versi 28/33)

Padre del tricolore è considerato Giuseppe Compagnoni, anche se i primi a ideare l'accostamento dei colori della bandiera nazionale sono stati due patrioti e studenti dell'Università di Bologna, Luigi Zamboni e Giovanni Battista de Rolandis che nell'autunno del 1794 unirono il bianco e il rosso delle rispettive città natie al verde, colore della speranza, su modello della bandiera francese nata dagli ideali della rivoluzione francese. Si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti, catturati e giustiziati.

Il tricolore apparve per la prima volta il 14 novembre 1794 come coccarda sugli abiti dei patrioti nella sommossa di Bologna. Il 18 maggio 1796 i colori di questa coccarda furono accettati da Napoleone, a Milano, e questi consegnò alla Guardia Civica, alla Legione Lombarda e alla Guardia Nazionale una bandiera a strisce verticali verde, bianca e rossa. (Nel corso di questa cerimonia Napoleone specificò come questi tre colori provenissero dalla coccarda della sollevazione bolognese, dicendo testualmente: visto che loro (i due studenti) hanno scelto questi tre colori, così siano.) Il 18 ottobre 1796 il senato, riunito a Bologna e a Modena, decretò che venisse realizzata una bandiera a bande verticali con questi tre colori, simbolo della nuova Repubblica Cispadana, prima tappa del percorso che portò in seguito alla nascita della Repubblica Italiana. Il 7 gennaio del 1797, a Reggio Emilia, i convenuti delle assise fecero proprio il nuovo stendardo e si impegnarono a renderlo simbolo riconosciuto universalmente.
Il tricolore a tre bande verticali (così come lo conosciamo oggi), venne ereditato dalla Repubblica Cisalpina (1797-1802). Con la nascita della Repubblica Italiana (1802-1805), invece, vennero conservati i colori ma la forma mutò in un quadrato verde, inserito in un rombo bianco, a sua volta inserito in un quadrato rosso: si tratta di una composizione identica all'attuale stendardo presidenziale italiano, salvo che quest'ultimo è a sua volta contenuto dal blu dei Savoia (a sua volta frutto di un’antica dedica alla Madonna). Con la nascita del Regno d'Italia (1805-1814), nel primo quadrato verde venne iscritta l'aquila imperiale. Il 14 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza. Soltanto nel 1923 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale. Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. E perfino dall'arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l'emozione di quel momento. Presidente [Ruini]: Pongo ai voti la nuova formula proposta dalla Commissione: "La bandiera della repubblica è il tricolore italiano Cisalpino: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.".

 
 
 

Suite francese (Irène Némirovsky)

Post n°22 pubblicato il 17 Giugno 2014 da Leseratte
 
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Ultimamente ho avuto il piacere di leggere i capolavori di due autori scoperti solo di recente: La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer e Suite francese di Irène Némirovsky. Il primo è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice Adelphi soltanto nel 2011, mentre il secondo è stato tradotto e pubblicato, sempre dall'Adelphi, nel 2005. Si tratta di due capolavori della letteratura mondiale, opere di due scrittori ebrei, origine tanto orgogliosamente rivendicata dal primo (Singer scrisse l'originale in yiddish) quanto fortemente avversa dalla seconda (Némirovsky si convertì al cattolicesimo e in alcune sue opere precedenti descrisse gli ebrei in modo quasi antisemita), ma che sarebbe meglio, a mio avviso, considerare scrittori cosmopoliti o europei ante litteram.

Oggi vorrei esporre delle brevi considerazioni su Suite francese, che mi ha lasciato un vero e proprio nodo alla gola. L'opera, stando alle annotazioni della Némirovsky, avrebbe dovuto comprendere cinque parti (Tempesta in Giugno, Dolce, Prigionia, Battaglie, La pace), seguendo la struttura della Quinta sinfonia di Beethoven, per un totale di circa mille pagine (una mole degna, non a caso, del Guerra e pace di Tolstoj, cui la Némirovsky dichiara apertamente di ispirarsi). Purtroppo - un purtroppo che andrebbe scritto con la maiuscola e in grassetto - l'autrice è stata deportata e uccisa ad Auschwitz poco prima che potesse concludere la seconda parte del romanzo (Luglio 1942). Tuttavia, grazie al suo spirito osservatore e premonitore, dalle annotazioni trascritte sul suo romanzo-diario, è possibile ricostruire a grandi linee cosa sarebbe successo nelle altre tre parti dell'opera, se solo la follia nazista non ci avesse privato ante tempus di questo grande talento.

Stando al progetto originale, il romanzo avrebbe dovuto raccontare le vicende di alcuni francesi nobili e borghesi (le famiglie Pericand e Michaud, Gabriel Corte, Charlie Langelet: qui la trama in dettaglio) dallo scoppio della seconda guerra mondiale alla sua conclusione (che la Némirovsky non potè nè vivere nè descrivere, dal momento che era già stata uccisa...). Le cinque parti progettate avrebbero dovuto scandire sia le storie dei personaggi che le fasi della guerra. Il lavoro interrotto ci lascia, amaramente e bruscamente, prima della fine della seconda parte, ovvero subito dopo la partenza dell'ufficiale tedesco Bruno, innamorato di Lucile, per la campagna in Russia e la fuga organizzata da Lucile per il ricercato Benoit. Quello che sappiamo grazie agli appunti è che Lucile e Jean Marie si innamoreranno, ma che Jean Marie partirà per la guerra per cancellare l'onta della precedente relazione di Lucile con l'ufficiale tedesco. L'ufficiale tedesco morirà in Russia.

Ciò che caratterizza maggiormente l'opera è il suo realismo, un realismo asciutto, concreto, quasi cinico e privo di qualsiasi forma di idealismo, eccezion fatta per i personaggi di Lucile e di Jean Marie, che incarnano ancora uno spirito romantico. Si tratta di un realismo totale, proprio perché la Némirovsky visse in prima persona le vicende attribuite ai suoi personaggi e perché la maggior parte delle loro azioni e dei loro modi di pensare sono esattamente quelli che lei osservava nella propria quotidianità. Così quando, per esempio, racconta dell'arrivo dei tedeschi in Francia e dei sentimenti provati dai francesi nel dover ospitare in casa propria i soldati nemici, lo fa in modo così dettagliato e chiaro, proprio perché lei stessa e la sua famiglia avevano dovuto vivere con i tedeschi dopo esser fuggiti da Parigi.

Ma l'aspetto che più mi ha colpito è proprio la storia dell'opera stessa, di come è nata e di come è sfuggita per lungo tempo agli editori (per poi essere riscoperta molti anni dopo). Il romanzo si interrompe bruscamente prima della conclusione della seconda parte, ovvero quando l'ufficiale tedesco parte per la Russia e Lucile accompagna Benoit nella sua fuga a Parigi. Al tempo della stesura la Némirovsky viveva con il marito e le sue due bambine a Issy-l’Evêque. L'undici Luglio 1942 la scrittrice scrive tra i suoi appunti, dando prova di una lucidità e di una coscienza di sé a dir poco toccanti: «Sto scrivendo molto, immagino che saranno opere postume, però almeno mi fanno passare il tempo». Il tredici Luglio i gendarmi l'arrestano e la deportano a Pithiviers, il diciassette Luglio viene deportata ad Auschwitz-Birkenau, dove viene ricoverata in infermeria (Ravier) perché malata. Il diciassette Agosto 1942 Irène Némirovsky viene uccisa nelle camere a gas.

Dopo la scomparsa della Némirovsky e del marito Michel Ipstein (deportato e ucciso anche lui ad Auschwitz il 6 Novembre successivo), le bambine, Élisabeth e Denise, furono affidate a una tutrice. Tra un nascondiglio e l'altro fino alla fine della guerra, le bambine portarono sempre con sé una valigia che conteneva fotografie, documenti e l'ultimo manoscritto della madre, redatto con una grafia minuscola per risparmiare l'inchiostro e la pessima carta del tempo di guerra. La figlia maggiore, Denise, conservò il quaderno contenente il manoscritto di Suite francese per cinquant'anni senza mai aprirlo, sia per paura di riaprire vecchie ferite sia per non ostacolare la "biografia immaginaria" della madre (Le Mirador) cui stava lavorando la sorella. Alla fine del 1990 Denise decise di donare tutti gli scritti ad un archivio francese. Una volta scoperto cosa contenevano i quaderni, Suite francese fu pubblicato in Francia nel 2004 e in Italia nel 2005. L'edizione italiana include gli appunti e le riflessioni della Némirovsky sulla revisione e la continuazione del racconto, e la corrispondenza tra la Némirovsky, suo marito Michel, il suo editore Albin Michel e altri, nel periodo precedente e successivo alla sua deportazione. Gli appunti rendono vivi e tangibili la personalità della scrittrice, i suoi pensieri e il suo talento, così come le lettere, in particolare le drammatiche richieste d'aiuto del marito ad amici e conoscenti, ci trasmettono il senso tragico delle loro vite e di uno dei periodi più bui della storia mondiale. Forse nessuna conclusione sarebbe stata più adatta per questo capolavoro, interrotto drammaticamente proprio come la vita della sua talentuosa autrice.

Per sollevare un così grande peso                                               

ci vorrebbe la tua forza, o Sisifo.

Questa fatica non mi spaventa

ma la meta è lontana e breve il tempo.

Irène Némirovsky (25 Giugno 1942)

 
 
 

Il Signor von Ribbeck su Ribbeck a Havelland (Heinrich Theodor Fontane)

Post n°21 pubblicato il 05 Giugno 2014 da Leseratte
 

Oggi vorrei presentarvi il componimento di un autore molto famoso e amato in Germania, Heinrich Theodor Fontane (Neuruppin 1819, Berlin 1898). Tutti i ragazzini e le ragazzine imparano (o imparavano?) a memoria questa poesia a scuola, così come noi imparavamo a memoria Il cinque Maggio di Alessandro Manzoni o Il sabato del villaggio di Giacomo Leopardi.

A mio parere, questo componimento, seppur o proprio perché semplice e immediato, esprime al meglio lo spirito tedesco ed eredita quell'idea di vivere romantica, idealista e illuminata che tanto ha reso famosi scrittori come Johann Wolfgang von Goethe e Friedrich Schiller (esponenti del movimento letterario Sturm und Drang ("Tempesta e impeto")) e filosofi come Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Il componimento qui presentato fa parte delle poesie pubblicate da Fontane nel 1851, cui seguì una raccolta di ballate nel 1861.

Il Signor von Ribbeck di Ribbeck in Havelland

Il Signor von Ribbeck di Ribbeck in Havelland

aveva un pero nel suo giardino,

e, quando arrivava la stagione autunnale,

le pere splendevano in ogni direzione.

Quando mezzogiorno risuonò dal campanile,

se ne riempì von Ribbeck entrambe le tasche.

Giunse un giovane con gli zoccoli,

e lui gli disse: “Ragazzo, vuoi una pera?”

E arrivò una ragazza, quindi le disse: “Ragazzina,

avvicinati, ho una pera.”


Trascorsero molti anni finché l'illustre

von Ribbeck di Ribbeck morì.

Egli sentiva giungere la fine. Era autunno.

Di nuovo splendevano le pere in ogni dove;

allora disse von Ribbeck: “io mi accomiato.

Mettete una pera nella mia tomba.”

Tre giorni dopo fuori dal castello

portarono von Ribbeck,

tutti i contadini e i piccoli possidenti con espressione gioiosa

cantavano “Gesù, (sei la) mia fiducia”

e i bambini piagnucolavano, il cuore pesante:

"Adesso lui è morto. Ora chi ci darà una pera?"


Così si lamentavano i bambini. Non era giusto:

loro conoscevano bene o male il vecchio Ribbeck;

il nuovo naturalmente, che lesina e risparmia,

chiude il giardino e amministra severamente il pero.

Ma il vecchio, già presentendo

e pieno di diffidenza verso il proprio figlio,

perché sapeva esattamente cosa avrebbe poi fatto,

gli chiese di mettere una pera nella tomba,

e dopo tre anni dalla silenziosa dimora

spuntò un germoglio di pero.


Gli anni trascorsero,

da molto tempo un pero s'inarca sulla tomba,

e nell'autunno dorato

splende di nuovo in lungo e in largo.

E un giovane attraversa il cimitero della chiesa,

si sussurra nell'albero: “vuoi una pera?”

e arriva una ragazzina, così si mormora “Ragazzina, avvicinati,

ti do una pera”.


In questo modo sparge ancora benedizioni la mano

di von Ribbeck di Ribbeck in Havelland.

 

Herr von Ribbeck auf Ribbeck im Havelland

Herr von Ribbeck auf Ribbeck im Havelland,

Ein Birnbaum in seinem Garten stand,

Und kam die goldene Herbsteszeit

Und die Birnen leuchteten weit und breit,

Da stopfte, wenn's Mittag vom Turme scholl,

Der von Ribbeck sich beide Taschen voll.

Und kam in Pantinen ein Junge daher,

So rief er: »Junge, wiste 'ne Beer?1«

Und kam ein Mädel, so rief er: »Lütt Dirn,

Kumm man röwer, ick hebb 'ne Birn.2«


So ging es viel Jahre, bis lobesam

Der von Ribbeck auf Ribbeck zu sterben kam.

Er fühlte sein Ende. 's war Herbsteszeit,

Wieder lachten die Birnen weit und breit;

Da sagte von Ribbeck: »Ich scheide nun ab.

Legt mir eine Birne mit ins Grab.«

Und drei Tage drauf, aus dem Doppeldachhaus,

Trugen von Ribbeck sie hinaus,

Alle Bauern und Büdner mit Feiergesicht

Sangen »Jesus meine Zuversicht«,

Und die Kinder klagten, das Herze schwer:

»He is dod nu. Wer giwt uns nu 'ne Beer?3«


So klagten die Kinder. Das war nicht recht -

Ach, sie kannten den alten Ribbeck schlecht;

Der neue freilich, der knausert und spart,

Hält Park und Birnbaum strenge verwahrt.

Aber der alte, vorahnend schon

Und voll Mißtrauen gegen den eigenen Sohn,

Der wußte genau, was er damals tat,

Als um eine Birn' ins Grab er bat,

Und im dritten Jahr aus dem stillen Haus

Ein Birnbaumsprößling sproßt heraus.


Und die Jahre gehen wohl auf und ab,

Längst wölbt sich ein Birnbaum über dem Grab,

Und in der goldenen Herbsteszeit

Leuchtet's wieder weit und breit.

Und kommt ein Jung' übern Kirchhof her,

So flüstert's im Baume: »Wiste 'ne Beer?1«

Und kommt ein Mädel, so flüstert's: »Lütt Dirn,

Kumm man röwer, ick gew' di 'ne Birn.2«


So spendet Segen noch immer die Hand

Des von Ribbeck auf Ribbeck im Havelland.

1 Willst du eine Birne?

2 Kleines Mädchen, komm mal (da)rüber, ich gebe dir eine Birne.

3 Er ist tot nun. Wer gibt uns eine Birne nun?

 
 
 
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