CINEFORUM BORGOI film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020 |
Messaggi di Marzo 2014
Post n°200 pubblicato il 31 Marzo 2014 da cineforumborgo
AMOUR Regia: Michael Haneke (...) vedendo questo doloroso e feroce film di Haneke sul binomio amore e morte (visto nella quarta età, fuori dal consumo ormai banale) non ci viene da piangere, se mai da pensare e stare in silenzio perché la storia non è suonata mai sul pedale del melodramma, anche se i due protagonisti sono musicisti in pensione, con un curriculum di raffinate serate culturali, come si vede all'inizio. Due ottantenni che vivono «reclusi» per scelta in un appartamento borghese parigino dove ogni tanto capita la figlia (straordinaria Isabelle Huppert, per lei non esistono piccoli ruoli) e qualche ex allievo. Poi il Male, sotto forma di un ictus, colpisce la donna attraverso un lento palesarsi, momento di cinema e tensione altissimi, funny game del miglior Haneke. Ma chi si ammala davvero è il marito che diventa ossessivo e patologico nei confronti della moglie inferma e tenta la grande magia di trasformare l'amore in tenerezza, dedizione tanto da rifugiarsi in alcune splendide sequenze oniriche (un incubo polanskiano ma anche una glossa a Hitchcock, alla mercé d'una semplice anticamera); il film si conclude con una magnifica trovata di regia che esclude appunto ogni lacrima e sostituisce il Tempo eterno, al tempo reale. Stringendo sempre più la visuale sociale, dalla piccola comunità de “Il nastro bianco” alla famiglia di “Funny Games” ai due anziani coniugi di questi sussurri senza grida (un'altra Palma a Cannes), Haneke, uno dei più serenamente cinici maestri austriaci, in pessimistica gara con Ulrich Sedl e Thomas Bernhard, ci dà lezione di vita & regia. Un finale di partita faticoso e senza uscite di sicurezza. Sul tema dell'amorosa constatazione che ogni affetto ha una fine, già trattato da maestri come Bergman ed ora in teatro da Paravidino col diario della madre Maria Pia morente, Haneke ci offre una riflessione rigogliosa espressa con un cinema europeo rigoroso, claustrofobico, discreto, dove nulla è per caso e ogni oggetto, ogni attimo rimanda al conto finale di una vita. E se la malattia è terminale, il dolore, dice l'autore, no, continua e si trasforma a volte in un esplosivo dramma da camera come questo che solo gli stolti potranno dire che è teatro (sulla rotta Strindberg-Ibsen-Bergman) e che i grandi reduci Jean Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva interpretano con una misura che ha del miracoloso nella leggerezza del tocco tragico. Morale: è un film che fa bene, se ne esce liberati, riconcilia col cinema dopo tanto pop corn. Il momento più difficile della vita, che naturalmente è la fine, in un film che tiene fede per due ore al suo titolo: “Amour”. Senza effetti di stile, ma con un linguaggio sorvegliatissimo che esalta la prova davvero magnifica dei protagonisti. E senza ricorrere a medici, letti d'ospedale, flebo, cateteri e altri elementi ricattatori, immancabili nella pornografia del dolore oggi dilagante. Anzi senza mai uscire dal vasto appartamento parigino in cui vivono gli anziani musicisti Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant. Se non nel prologo, un concerto visto dal palcoscenico, perché sono loro due a interessarci. Unica concessione al mondo esterno insieme a qualche giornale, alle visite della figlia (Isabelle Huppert) o di un ex-allievo ora famoso concertista, e a un piccione bizzarro che si ostina a entrare dalla finestra. Come la vita che resiste, malgrado tutto. Dopo film magnifici e terribili come “Funny Games”, “La pianista”, “Niente da nascondere”, “Il nastro bianco”, si poteva temere che il regista austriaco avrebbe riservato la stessa durezza agli ultimi mesi di questa coppia unitissima e devastata dalla malattia improvvisa di lei. Falso allarme. Haneke non è mai stato più delicato, anche se non fa sconti. Dal primo malore al ritorno a casa dopo l'operazione, al progressivo e inesorabile deteriorarsi della Riva (la grande protagonista di “Hiroshima mon amour”), fino al momento estremo, sullo schermo ci sono solo loro, i loro ricordi, i loro sentimenti, quella casa piena delle cose di una vita. Insomma i loro sentimenti, ma senza mai un'ombra di sentimentalismo (perfino la musica è usata con parsimonia ammirevole). Questione di sguardo: Haneke coglie bellezza, e tenerezza, e sentimenti indicibili, nei momenti più imprevisti (quel goffo abbraccio per alzare la moglie inferma e farla sedere sulla poltrona che diventa un paradossale pas de deux). Concentra decenni di routine e probabilmente di felicità coniugale in poche frasi, un campo lungo, un lampo di civetteria o di ironia (...). E difende la libera scelta dei malati e dei loro cari (...) senza fare proclami, ma con una discrezione e insieme un'empatia che dovrebbero proibire per sempre di etichettare il bellissimo “Amour”, dominato dall'insofferenza dei protagonisti per quel male che non solo li aggredisce ma invade la vita che gli resta, come un film «su» - sulla malattia, la vecchiaia, eccetera. Da vedere in originale naturalmente, per cogliere ogni vibrazione, ogni sfumatura, di questa partitura carezzevole e implacabile. Come lo sguardo che Haneke posa sui suoi due memorabili protagonisti. MICHAEL HANEKE Martedì 8 aprile 2014:
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Post n°199 pubblicato il 24 Marzo 2014 da cineforumborgo
MONSIEUR LAZHAR Regia: Philippe Falardeau In una scuola elementare di Montreal una maestra s’impicca in classe; a trovarla è uno dei suoi alunni. Nello shock generale occorre cercare un supplente: è lo stesso Bachir Lazhar, un immigrato algerino di 55 anni, a presentarsi di sua sponte alla preside e, come un deus ex machina, ad aiutare la classe a fare i conti con l’idea del lutto e della morte. Ma anche Bachir deve affrontare un passato tragico di cui nessuno è a conoscenza. Un inizio folgorante. Niente di meglio per catturare lo spettatore fin dall’inizio. Non facile, ma riesce in pieno a Philippe Falardeau nel suo “Monsieur Lazhar”, nominato agli Oscar 2013 come rappresentante del Canada.Viviamo la morte della maestra di una scuola elementare del Québec attraverso gli occhi di un alunno di 11 anni che la trova impiccata nella sua aula. A sostituirla arriverà un elegante signore algerino che dice di aver insegnato letteratura per 19 anni nel suo Paese. Un impatto difficile, per lui, per i ragazzi colpiti dall’evento tragico e per i genitori che forse sono i più scioccati e irrazionali di tutti. Genitori che per i sensi di colpa ormai soccombono ai figli su tutto e non permettono di farli contraddire dagli insegnanti, portandoli alla perdita della loro autorità. Scopriamo presto che l’incapacità di capire il gesto estremo così pubblico dell’insegnante per Bachir Lazhar, questo il nome dell’insegnante, è legata al fatto che la sua famiglia è stata vittima di una tragedia ad Algeri. Per lui è impossibile capire, vittima di una morte imposta, chi possa togliersi la vita, pur potendone disporre. PHILIPPE FALARDEAU Martedì 1° aprile 2014: |
Post n°197 pubblicato il 10 Marzo 2014 da cineforumborgo
ZERO DARK THIRTY Regia: Kathryn Bigelow Non è facile accostarsi a questo film serenamente, anzi non è possibile. È “Zero Dark Thirty”, titolo che si riferisce alla fascia oraria notturna con la quale in gergo gli incursori indicano le operazione segrete, realizzato dalla stessa regista Kathryn Bigelow che nel 2010 fu coperta di Oscar per “The Hurt Locker” sugli artificieri in Iraq, ancora una volta in tandem con il giornalista Mark Boal suo compagno nella vita (da un suo articolo aveva tratto spunto il film “Nella valle di Elah”). A sua volta candidato a cinque Oscar tra il quali quello a miglior film (……). Posticipata l’uscita in America dove si era sotto le elezioni presidenziali che hanno condotto alla conferma di Obama, il film di Bigelow si è trovato rapidamente al centro di un fuoco incrociato: accusato per aver mostrato senza mezzi termini l’uso della tortura da parte della Cia da chi ha eccepito sulla possibilità di accesso a dati recenti e segreti relativi alla sicurezza nazionale che, secondo gli accusatori, sarebbe stata consentita dall’amministrazione Obama, non è stato risparmiato neanche dalle critiche di chi ha invece sospettato che quell’esibizione includesse anche adesione e approvazione. “Zero Dark Thirty” ricostruisce con minuzia di riferimenti il lavoro d’indagine svolto da parte della Cia lungo il decennio che va dall’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle fino alla cattura e all’esecuzione nel maggio 2011, da parte dei reparti speciali, di Osama Bin Laden in Pakistan. Tutto ruota intorno al personaggio di Maya (Jessica Chastain), l’agente che all’inizio arriva in una delle prigioni segrete della Cia e viene immediatamente introdotta ad assistere all’interrogatorio di un prigioniero che ha avuto un ruolo nell’attentato terroristico di New York e di cui si ha ragione di credere che possieda informazioni che lo collegano a Bin Laden e dunque utili a inseguirne le tracce. Non è un interrogatorio: è tortura. Vengono usati gli stessi mezzi e metodi usati dagli apparati polizieschi delle dittature. Tutto ruota intorno al personaggio di Maya e al contrasto tra il suo essere donna, il suo contegno, i suoi modi, il suo aspetto così diversi e distanti dallo stereotipo, il suo carattere riservato introverso e solitario, e la tempra d’acciaio, la determinazione superiore a chiunque altro, che dimostrerà nel corso della lunga operazione, della lunga caccia, che condurrà infine, dieci anni dopo, a stringere il cerchio intorno a una casa-fortezza alla periferia di una cittadina pakistana. Dieci anni nel corso dei quali il terrorismo continua a colpire con attacchi e attentati gravissimi: a Madrid (11 marzo 2004), a Londra (7 luglio 2005), all’hotel Marriott di Islamabad (20 settembre 2008). Diversamente da quanto accaduto in passato (ma accade ancora: ne è esempio “Argo” che torna a fatti di oltre trent’anni fa e sulla base di documenti desecretati) per esempio sul Vietnam su cui il cinema intervenne solo con una certa distanza temporale, Bigelow (ma non è la sola) interviene a caldo su materie ancora incandescenti. E lo fa, come già in “The Hurt Locker”, con uno stile personale e ibrido, di finzione che dà un’impressione documentaristica. Ed è forse proprio questa sua intenzione di rappresentazione distaccata e obiettiva («fare un film moderno e rigoroso sull’antiterrorismo incentrato su una delle missioni più importanti e segrete della storia americana») a procurare commenti e reazioni che travalicano i consueti confini del fatto cinematografico. Il film più controverso dell’anno negli Stati Uniti è anche un caso politico. “Zero Dark Thirty” racconta la caccia all’uomo più imponente del secolo come fosse la ‘recherche’ di una Nazione. Costretta a guardare dentro sé stessa, l’America scopre di essere capace delle cose peggiori per raggiungere il proprio scopo. Scopo che coincide con la rivendicazione di un ruolo (‘paladina della democrazia’) e di una identità: valori, credenze, rancori, vendette di una comunità che si radicalizza se minacciata, e per questo persegue ogni minaccia in modo spettacolare. KATHRYN BIGELOW Martedì 18 marzo 2014: |
Post n°196 pubblicato il 03 Marzo 2014 da cineforumborgo
IL LATO POSITIVO - SILVER LININGS PLAYBOOK Titolo originale: Silver Linings Playbook Patricio, Pat, è un bipolare. Non lo sapeva. Se n’è accorto nel suo box doccia, mentre stava picchiando a sangue l’amante della moglie. Ma questo è il passato, anche il ricovero coatto è il passato, anche l’ordinanza restrittiva passerà, l’importante è essere ottimisti, positivi, riempire un libretto (il ‘silver lining playbook’) di buoni propositi, mantenerli, e Nikki tornerà. Nikki è la moglie scomparsa. Era dal 1981 che un film non otteneva quattro nomination agli Oscar nelle quattro categorie riservate agli attori (l’ultimo fu “Reds” di Warren Beatty, chi l’avrebbe mai detto). Anche se alla fine la statuetta l’ha portata a casa soltanto Jennifer Lawrence. Per il suo personaggio, Tiffany, era stata opzionata Anne Hathaway che però aveva un impegno, ed evocate tra le altre Angelina Jolie e Kirsten Dunst: dopo un provino che doveva essere una formalità, Russell ha scelto la 21enne Lawrence, assolutamente fuori parte. Non si è trattata di una scelta al risparmio: la Lawrence è un talento naturale fuori discussione (chiunque ha visto “Winter’s Bone” lo sa, purtroppo siamo in pochissimi che ci svegliamo nel cuore della notte davanti a Rai Movie e non riusciamo a trovare il telecomando). Ma soprattutto è la protagonista di “Hunger Games”, ovvero il primo capitolo di una saga per adolescenti, ovvero una montagna di soldi che deve ancora emergere del tutto. È brava, è bella, e a 21 anni ha vinto un Oscar interpretando una vedova ninfomane che incontra Pat e lo trascina in un concorso di ballo. DAVID O. RUSSELL Martedì 11 marzo 2014: |
Inviato da: PaceyIV
il 25/02/2020 alle 13:33
Inviato da: Recreation
il 08/02/2018 alle 13:37
Inviato da: minarossi82
il 11/11/2016 alle 18:03
Inviato da: generazioneottanta
il 16/07/2016 alle 19:27
Inviato da: generazioneottanta
il 20/03/2016 alle 10:30