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Truth

Post n°13870 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Truth - Il prezzo della verità

Nel 2005 Dan Rather, celeberrimo anchorman del network televisivo americano CBS, rassegnò le sue dimissioni in seguito alla controversia esplosa dopo la messa in onda di un servizio che metteva in discussione l'appartenenza dell'allora presidente George W. Bush alla Guardia Nazionale Aerea durante la guerra nel Vietnam. Responsabile di quel servizio era Mary Mapes, una produttrice televisiva che, per il programma giornalistico "60 Minutes", aveva realizzato molti storici scoop con grande intuito giornalistico. Maples ha poi raccontato la storia di quella controversia in un memoriale che è la base su cui James Vanderbilt, sceneggiatore alla sua prima regia (nonché erede della celebre dinastia di bramini newyorkesi), ha strutturato il copione di Truth, solido e coinvolgente dramma nella tradizione americana del cinema hollywoodiano che esplora i rapporti tra politica e giornalismo.
La messiscena è classica e rigorosa, anche se dichiaratamente di parte, ovvero dalla parte di Mary Mapes e di Dan Rather, e racconta con ritmo incalzante e continui colpi di scena ciò che succede in un network televisivo quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Ma al di là del resoconto della vicenda realmente accaduta, Truth è una riflessione su come sta cambiando la cronaca e come, in particolare, stia scomparendo il giornalismo di inchiesta: troppo costoso, troppo pericoloso, troppo soggetto al fuoco incrociato dei poteri forti e del popolo di Internet, che se da un lato ha fatto da cane da guardia della libertà di informazione (merito cui la sceneggiatura, colpevolmente, non fa cenno), dall'altro ha dato voce a centinaia di anonimi troll e lanciatori di fango, ancor più velenosi quando il bersaglio appartiene al sesso femminile.
In modo artificiale ma efficace, la sceneggiatura di Vanderbilt semina nella prima parte tutti gli ami che andrà a recuperare nella seconda, compresi gli accenni al passato oscuro della Mapes, figlia di un padre retrogrado e violento, e all'importanza del coraggio per un giornalista davvero intenzionato a raccontare quella verità che dà titolo al film (e che Mapes, con ingenuità e un certo grado di faziosità, presupponeva essere unica). La verità è al centro della storia anche perché, nel grande circo multimediatico, sembra contare meno di un'opinione strillata, o di uno scandalo ben confezionato. Spesso dunque si perde di vista la sostanza dei fatti, o la gravità di certe azioni, per dare spazio alle querelle e alle chiacchiere, e quando questo succede a farne le spese è la democrazia.
La regia di Vanderbilt è scolastica nel senso migliore del termine, perché privilegia una narrazione lineare che rinuncia ai tocchi (ma anche ai vezzi) autoriali che un Oliver Stone, ad esempio, avrebbe senz'altro utilizzato per raccontare questa storia. Le complicazioni della trama sono semplificate dagli stessi espedienti visivi che caratterizzano i programmi televisivi di approfondimento politico, e il montaggio serve ad aggiungere spettacolo e pathos ad una storia altrimenti troppo didascalica. 
Truth si colloca su un crinale storico, quello fra informazione vecchio stile, affamata di scoperte e coraggiosa fino all'incoscienza, e informazione nell'epoca in cui le notizie non si cercano ma rimbalzano di sito in sito, di blog in blog, senza che chi le ripropone si prenda la responsabilità di verificarne la veridicità (ma di certo si prende il gusto di fare le pulci alle rivelazioni altrui). Il rischio, afferma il film, è quello di dimenticare l'imperativo deontologico della seconda (e terza, e quarta) domanda per concentrarsi su sterili querelle e gogne mediatiche sempre utili a chi vuole che le notizie, quelle vere, passino in secondo piano. 
Cate Blanchett è efficace come sempre nel ruolo di Mary Mapes, ma risente dell'impostazione classica hollywoodiana della sceneggiatura che le toglie quella libertà di movimento necessaria ad utilizzare le sue corde più sottili. Perfettamente in parte, invece, il liberal Robert Redford, che mette i suoi quasi ottant'anni a frutto nell'incarnare la gravitas (ma anche la fragilità fisica) di un giornalista duro e puro entrato a far parte del mito americano.

 
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