Tag Cloud
FESTIVAL, Particolarità, STORIA, comunicazione, editoria, eventi, film in uscita, incassi, libri, musica, news, novità, premi, recensioni, trailer, tv
Monicelli, senza cultura in Italia...
Archivio messaggi
Lu | Ma | Me | Gi | Ve | Sa | Do |
|
|
|
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
21 |
22 |
23 |
24 |
25 |
26 |
27 |
28 |
29 |
30 |
31 |
|
|
Chi può scrivere sul blog
Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti. I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
tutto il materiale di questo blog può essere liberamente preso, basta citarci nel momento in cui una parte del blog è stata usata. Ladridicinema
FILM PREFERITI
Detenuto in attesa di giudizio, Il grande dittatore, Braveheart, Eyes wide shut, I cento passi, I diari della motocicletta, Il marchese del Grillo, Il miglio verde, Il piccolo diavolo, Il postino, Il regista di matrimoni, Il signore degli anelli, La grande guerra, La leggenda del pianista sull'oceano, La mala education, La vita è bella, Nuovo cinema paradiso, Quei bravi ragazzi, Roma città aperta, Romanzo criminale, Rugantino, Un borghese piccolo piccolo, Piano solo, Youth without Youth, Fantasia, Il re leone, Ratatouille, I vicerè, Saturno contro, Il padrino, Volver, Lupin e il castello di cagliostro, Il divo, Che - Guerrilla, Che-The Argentine, Milk, Nell'anno del signore, Ladri di biciclette, Le fate ignoranti, Milk, Alì, La meglio gioventù, C'era una volta in America, Il pianista, La caduta, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Le vite degli altri, Baaria, Basta che funzioni, I vicerè, La tela animata, Il caso mattei, Salvatore Giuliano, La grande bellezza, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo Modo, Z - L'orgia del potere
Tag Cloud
FESTIVAL, Particolarità, STORIA, comunicazione, editoria, eventi, film in uscita, incassi, libri, musica, news, novità, premi, recensioni, trailer, tv
|
Messaggi del 28/05/2017
Post n°13872 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
CANNES – E’ tra i film più apprezzati del festival quello presentato fuori concorso da Roman Polanski, Based on a True Story, annunciato l’anno scorso proprio a Cannes. Un film nato dalla collaborazione con Olivier Assayas, che ne ha firmato la sceneggiatura: “Mi è molto piaciuto far parte dello staff di Roman, in questo film ho messo me stesso al servizio della sua visione cinematografica”. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Delphine de Vigan, rispetto al quale rimane sostanzialmente fedele. “Merito di Assays, sottolinea Polanski, che è riuscito a comprimere nella sceneggiatura un libro di cinquecento pagine, e niente è andato perduto”. Un atteggiamento, quello della fedeltà al materiale originale, tipico di Polanski che rivela di essere stato durante l’infanzia spesso deluso dagli adattamenti cinematografici dei suoi romanzi preferiti, in cui magari proprio i personaggi più amati scomparivano, tanto da riproporsi per la sua carriera futura di rimanere sempre fedele alle storie originali.
Al centro del racconto la crisi creativa e personale di una scrittrice di successo, interpretata dalla moglie di Polanski, Emmanuelle Seigner, autrice di un romanzo dedicato alla madre che è diventato un best-seller. Tormentata da lettere anonime che l’accusano di aver dato la sua famiglia in pasto ai leoni, e in pieno stallo creativo, incontra una giovane donna, Eva Green (Sin City), affascinante ed intelligente ghostwriter che sembra capirla meglio di chiunque altro. Ma man mano che si fa strada nella sua vita, i dubbi su di lei aumentano. “Non ho voluto definire il carattere di questo personaggio che ho lasciato ambiguo - spiega Polanski. Non si sa mai se è o meno un personaggio reale, lascio che sia il pubblico a deciderlo”. A chi chiede, poi, al regista com’è lavorare sul set con sua moglie che ha diretto più volte: “Più facile che viverci insieme”, risponde scherzando. “Abbiamo da sempre sul set una relazione molto professionale, e non ho trovato diverso lavorare con Emanuelle piuttosto che con Eva. Sul piano personale la tentazione per un regista è continuare a dirigere la propria attrice anche nella vita. Ma quando torno a casa dimentico il set e voglio parlare d'altro”. Ed è stata proprio Emmanuelle a proporre a Polanski questa storia in cui, per la prima volta nel suo cinema, sono due donne le protagoniste di un confronto ambiguo che ha affascinato subito Polanski. “Appena ho letto il libro ho pensato che fosse un materiale interessante per Roman e gliel’ho proposto. Ma non sono io la sua fonte d'ispirazione, al contrario è lui la mia”.
Rispetto all’ossessione del pubblico per il racconto della realtà, il regista la ritiene un desiderio amplificato dal continuo bombardamento elettronico che sovraespone tutti alla visione delle vite degli altri. Un appetito dell’audience per la verità che definisce "ambiguo, perché la realtà di un contenuto può essere manipolata, ed esaltato dal fatto che un semplice gesto, come pubblicare una foto, ha la potenzialità di cambiare le sorti di una nazione grazie all’enorme eco della rete”. Ma in internet e nelle sue modalità distributive al centro delle polemiche tra festival e Netflix, Polanski non vede un nemico da combattere: “Le persone continueranno comunque ad andare al cinema perché è un’esperienza unica di condivisione, e il desiderio di condividere fa parte dell’essere umano. La diffusione del walkman non ha distrutto l'industria dei concerti e così accadrà per il cinema. È diverso vedere Borat da soli a casa piuttosto che in una sala avvolti dalle risate degli altri spettatori”.
Post n°13871 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
Pirati Dei Caraibi - La vendetta di Salazar non è nient'altro che una ripetizione degli stessi temi del primo capitolo della saga. La vendetta di Salazar funziona se lo si considera un film a se, anche per via di Javier Bardem nei panni del cattivo e grazie agli effetti speciali; ma per il resto assistiamo ad un remake, con una prima parte lenta e la seconda reattiva, ma il risultato è molto deludente con il povero Jake Sparrow che sembra ormai una mascotte più che un pirata
Post n°13870 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
Nel 2005 Dan Rather, celeberrimo anchorman del network televisivo americano CBS, rassegnò le sue dimissioni in seguito alla controversia esplosa dopo la messa in onda di un servizio che metteva in discussione l'appartenenza dell'allora presidente George W. Bush alla Guardia Nazionale Aerea durante la guerra nel Vietnam. Responsabile di quel servizio era Mary Mapes, una produttrice televisiva che, per il programma giornalistico "60 Minutes", aveva realizzato molti storici scoop con grande intuito giornalistico. Maples ha poi raccontato la storia di quella controversia in un memoriale che è la base su cui James Vanderbilt, sceneggiatore alla sua prima regia (nonché erede della celebre dinastia di bramini newyorkesi), ha strutturato il copione di Truth, solido e coinvolgente dramma nella tradizione americana del cinema hollywoodiano che esplora i rapporti tra politica e giornalismo. La messiscena è classica e rigorosa, anche se dichiaratamente di parte, ovvero dalla parte di Mary Mapes e di Dan Rather, e racconta con ritmo incalzante e continui colpi di scena ciò che succede in un network televisivo quando il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare. Ma al di là del resoconto della vicenda realmente accaduta, Truth è una riflessione su come sta cambiando la cronaca e come, in particolare, stia scomparendo il giornalismo di inchiesta: troppo costoso, troppo pericoloso, troppo soggetto al fuoco incrociato dei poteri forti e del popolo di Internet, che se da un lato ha fatto da cane da guardia della libertà di informazione (merito cui la sceneggiatura, colpevolmente, non fa cenno), dall'altro ha dato voce a centinaia di anonimi troll e lanciatori di fango, ancor più velenosi quando il bersaglio appartiene al sesso femminile. In modo artificiale ma efficace, la sceneggiatura di Vanderbilt semina nella prima parte tutti gli ami che andrà a recuperare nella seconda, compresi gli accenni al passato oscuro della Mapes, figlia di un padre retrogrado e violento, e all'importanza del coraggio per un giornalista davvero intenzionato a raccontare quella verità che dà titolo al film (e che Mapes, con ingenuità e un certo grado di faziosità, presupponeva essere unica). La verità è al centro della storia anche perché, nel grande circo multimediatico, sembra contare meno di un'opinione strillata, o di uno scandalo ben confezionato. Spesso dunque si perde di vista la sostanza dei fatti, o la gravità di certe azioni, per dare spazio alle querelle e alle chiacchiere, e quando questo succede a farne le spese è la democrazia. La regia di Vanderbilt è scolastica nel senso migliore del termine, perché privilegia una narrazione lineare che rinuncia ai tocchi (ma anche ai vezzi) autoriali che un Oliver Stone, ad esempio, avrebbe senz'altro utilizzato per raccontare questa storia. Le complicazioni della trama sono semplificate dagli stessi espedienti visivi che caratterizzano i programmi televisivi di approfondimento politico, e il montaggio serve ad aggiungere spettacolo e pathos ad una storia altrimenti troppo didascalica. Truth si colloca su un crinale storico, quello fra informazione vecchio stile, affamata di scoperte e coraggiosa fino all'incoscienza, e informazione nell'epoca in cui le notizie non si cercano ma rimbalzano di sito in sito, di blog in blog, senza che chi le ripropone si prenda la responsabilità di verificarne la veridicità (ma di certo si prende il gusto di fare le pulci alle rivelazioni altrui). Il rischio, afferma il film, è quello di dimenticare l'imperativo deontologico della seconda (e terza, e quarta) domanda per concentrarsi su sterili querelle e gogne mediatiche sempre utili a chi vuole che le notizie, quelle vere, passino in secondo piano. Cate Blanchett è efficace come sempre nel ruolo di Mary Mapes, ma risente dell'impostazione classica hollywoodiana della sceneggiatura che le toglie quella libertà di movimento necessaria ad utilizzare le sue corde più sottili. Perfettamente in parte, invece, il liberal Robert Redford, che mette i suoi quasi ottant'anni a frutto nell'incarnare la gravitas (ma anche la fragilità fisica) di un giornalista duro e puro entrato a far parte del mito americano.
Post n°13869 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
NEW YORK. La storia d'America e del mondo poteva essere molto diversa, forse. Se la verità avesse avuto la meglio. Truth, la verità, appunto. È il titolo del film che racconta una piccola vicenda ignobile, quella che avrebbe potuto e dovuto affondare George W. Bush, impedirne la rielezione nel 2004. Non per via della sua grande bugia sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l'impostura che spianò la strada all'invasione dell'Iraq nel 2003. Quella comunque sarebbe rimasta impunita. Ma c'era un'altra macchia nel passato di Bush, raccomandato da giovane per evitare il servizio di leva e la guerra del Vietnam. Imboscato in un incarico di tutto riposo nella Guardia nazionale del Texas. E assenteista cronico anche lì. Con tante piccole bugie a coprire le sue colpe. |
Per il presidente della destra nazionalista e guerrafondaia, uno scandalo così poteva essere fatale. E invece no. Quando il celebre giornalista televisivo Dan Rather tira fuori quella storia su Cbs News, il 9 settembre 2004 (a due mesi dalle elezioni) la destra comincia un'implacabile «caccia all'errore». Trovano delle contraddizioni in una delle fonti. La storia si rovescia, diventa «lo scandalo Dan Rather». Non importa che le rivelazioni sul finto servizio militare di Bush siano vere, quelle passano in secondo piano. Rather ci rimette l'incarico, la sua lunga e onorata carriera finisce malamente su quell'incidente. Finisce ancora peggio per la sua producer Mary Mapes (autrice del libro da cui è tratta la sceneggiatura, e interpretata nel film da Cate Blanchett).
Alla vigilia dell'uscita di Truth nelle sale in Italia, ne parlo con Robert Redford, che interpreta la parte di Rather. Incontro il quasi-ottantenne attore, regista, attivista e filantropo al Crosby Street Hotel di New York, per questa intervista esclusiva al Venerdì di Repubblica.
In un altro film straordinario su giornalismo e politica, quasi all'inizio della sua carriera, esattamente quarant'anni fa, lei recitò la parte del reporter Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente. Rispetto allo scandalo del Watergate, all'inchiesta del Washington Post che costò la Casa Bianca a Richard Nixon, che cosa è cambiato trent'anni dopo? In Truth non c'è il lieto fine, anzi vincono i cattivi. Colpa degli errori dei giornalisti? Oppure i media nel 2004 contano meno che nel 1974? O, infine, l'establishment che sta dietro Bush è più potente che ai tempi di Nixon?
«È vera la terza ipotesi, penso. Inoltre l'America ha un partito repubblicano molto più ... che ai tempi di Nixon, ha la destra più estremista di tutti i tempi. Una deriva che era cominciata già ai tempi di George W. Bush. Mi ha sempre affascinato lo scontro fra le ragioni del giornalismo investigativo, la ricerca della verità, e la politica. In Tutti gli uomini del presidente in fondo la situazione di partenza era abbastanza simile. Nixon cercò di bloccare le rivelazioni del Washington Post, eccome se ci provò. Anche allora i due reporter impegnati nell'inchiesta si trovarono in difficoltà, come Dan Rather e la sua producer. Ciò che fece la differenza, è che i due giornalisti del Washington Post alla fine ebbero il pieno sostegno dei loro capi e dell'editrice. Dan Rather no, ed è questo il dramma che il film racconta».
Se la Cbs lo avesse difeso, se avesse tenuto duro sulla sostanza delle rivelazioni che erano fondate, Bush poteva perdere la battaglia per la sua rielezione? Avremmo avuto John Kerry come presidente? Una politica estera molto diversa?
«Queste sono speculazioni, mi è difficile avventurarmi in uno scenario ipotetico. Certo, c'era una possibilità che lo scandalo influisse sugli elettori. Il film ricostruisce la vicenda in modo onesto, obiettivo. Un errore tecnico venne commesso nell'inchiesta della Cbs, non c'è dubbio. Ma è triste che questo errore finì per occultare una storia vera e un problema serio. Dan Rather venne abbandonato, fu lasciato solo, con la sua producer. Alla fine la verità che dà il titolo al film viene sconfitta, rimane nell'ombra. L'Amministrazione Bush era così potente che quel piccolo errore giornalistico fu ingigantito fino a uccidere l'intera inchiesta. Uno sbaglio secondario fece scomparire una storia molto più grande».
Nel finale del film – quando la Cbs organizza un processo interno contro Dan Rather e la producer, chiamando avvocati legati a filo doppio con l'Amministrazione Bush – si capisce un problema che sta a monte: gli interessi economici di chi possiede la tv, l'intreccio di collusioni e scambi di favori con il governo, dunque il problema degli assetti proprietari nel mondo dell'informazione.
«Questo è un tema a cui voi giornalisti, per primi, dovreste dedicare più attenzione. Il ruolo della proprietà nei media, e come gli interessi economici prevalgono o manipolano l'informazione. Spero che questo film aiuti ad aprire una discussione su questo tema essenziale per la nostra democrazia».
La storia vera di Truth si svolge in un'epoca recente, appena 12 anni fa, e tuttavia il panorama dell'informazione è quasi irriconoscibile oggi rispetto ad allora. Nel 2004 Facebook era nato da pochi mesi, Twitter non esisteva, Google si era appena quotata in Borsa; il loro impatto nel modo d'informare era nullo. Oggi gli stessi problemi di concentrazione si ripropongono, ma con soggetti diversi. Forse perfino più potenti e concentrati.
«Ne sono certo, il mondo dei media è cambiato profondamente dal 2004. Ma non mi faccia parlare di cose su cui non sono davvero competente. Devo confessarle che non uso neppure un computer, tantomeno Facebook! L'impressione che ho, da osservatore esterno, è che da una parte ci sia stata una proliferazione e moltiplicazione di voci; dall'altra parte sia diventato forse ancora più difficile distinguere il vero dal falso. Ai tempi di Dan Rather, o di un altro leggendario anchorman televisivo come Walter Cronkite, i loro volti personificavano The News, incarnavano una credibilità delle notizie, erano fonti autorevoli e rispettate. Oggi quando accendo lo schermo vedo una faccia parlante, e sotto scorrono le cosiddette banner, strisce di notizie o commenti che distraggono la mia attenzione. È un brusìo nel quale perdiamo concentrazione, facciamo fatica a ricostruire una gerarchia d'importanza delle notizie».
C'è un retroscena personale su Truth. Non è solo la storia della sua attrazione verso il mondo del giornalismo, dai tempi di Tutti gli uomini del presidente. Lei è anche amico di Dan Rather, vi siete conosciuti tanto tempo fa, giusto?
«Questa è una storia che risale alle origini del mio impegno ambientalista. Erano gli anni Settanta. In alcuni Stati del West, dalla California allo Utah, delle aziende energetiche volevano costruire ben undici centrali elettriche a carbone. Io cercai di fare sentire la mia voce, di organizzare una protesta. Riuscii a entrare in contatto con la redazione di 60 Minutes, il magazine d'inchieste di Dan Rather. Fu così che c'incontrammo la prima volta. Lo aiutai a mettere insieme il materiale per alcune inchieste sui parchi nazionali, la battaglia per la protezione delle nostre riserve naturali. Fu un successo politico. Quando andò in onda l'inchiesta, le aziende energetiche dovettero abbandonare i loro piani. Cosa che non mi rese popolare tra alcune fasce della popolazione locale. Per un po' di tempo divenni un paria, una sorta di nemico pubblico, in quattro Stati».
E quando vi siete ritrovati per la realizzazione di Truth?
«Gli ho chiesto dei consigli prima d'interpretare il suo personaggio. Lui mi ha detto: "Questa è una storia che al fondo è basata sulla lealtà.C'è un rapporto di lealtà molto profonda, che rimane intatta, tra me e la mia producer Mary Mapes. C'è una storia di lealtà da parte nostra verso i nostri capi. Non ricambiata, da parte loro"».
(4 marzo 2016)
Post n°13868 pubblicato il 28 Maggio 2017 da Ladridicinema
di Eva Carducci - 3 giorni fa L'inganno è il film che divide Cannes, le donne lo amano, gli uomini lo temono, e tutti sperano che il film di Sofia Coppola porti a casa un premio. Come ogni film che si rispetti, o almeno, come ogni film in questa settantesima edizione del Festival di Cannes, anche il film di Sofia Coppola divide. A fine proiezione gli applausi sono stati tanti, e durante lo screening riservato alla stampa i giornalisti si sono divertiti e hanno riso molto su battute come "Ti piace la torta di mele?" o "passami il libro di anatomia!". Battute che estrapolate dal contesto ci rendiamo conto possono non far ridere, ma che all'interno del narrazione orchestrata magistralmente da Sofia Coppola acquistano un senso e danno valore al racconto narrato da L'inganno. Tratto dal romanzo di Thomas P. Cullinan, il racconto fu trasposto per il grande schermo nel 1971 da Don Siegel e il suo interprete fu Clint Eastwood, ruolo che oggi ricopre Colin Farrell al fianco di Nicole Kidman, Kirsten Dunst e Elle Fanning. Durante la guerra di secessione negli Stati Uniti un soldato Yankee ferito viene accolta in un collegio femminile, una casa coloniale di proprietà di Martha Farnsworth (Nicole Kidman) che accoglie il soldato in casa, John McBurney (Colin Farrell), che, vista la soluzione favorevole, vuole tentare in tutti i modi di rimanere in quella situazione ottimale, lontano dalla guerra che imperversa in Virginia. Per farlo comincia a dedicare "romantiche" attenzioni a tutte le maggiorenni presenti in casa, in particolare con Edwina (Kirsten Dunst), ma non ha fatto i conti con una dura verità, mai mettersi contro un gruppo di donne! Il film arriverà a settembre in Italia distribuito dalla Universal.
|
Inviato da: Mr.Loto
il 28/03/2022 alle 11:57
Inviato da: Mr.Loto
il 15/10/2020 alle 16:34
Inviato da: RavvedutiIn2
il 13/11/2019 alle 16:33
Inviato da: surfinia60
il 11/07/2019 alle 16:27
Inviato da: Enrico Giammarco
il 02/04/2019 alle 14:45