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Messaggi del 04/02/2017

 

Lo chiamavano Jeeg Robot

Post n°13622 pubblicato il 04 Febbraio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Lo chiamavano Jeeg Robot

Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane. Mentre Enzo scopre cosa gli è successo e cerca di usare i poteri per fare soldi, a Roma c'è una vera lotta per il comando, alcuni clan provenienti da fuori stanno terrorizzando la città con attentati bombaroli e un piccolo pesce intenzionato a farsi strada minaccia la vicina di casa di Enzo, figlia di un suo amico morto da poco. La ragazza ora si è aggrappata a lui ed è così fissata con la serie animata Jeeg Robot da pensare che esista davvero. Tutto sta per esplodere, tutti hanno bisogno di un eroe.
Quello tentato da Gabriele Mainetti è un superhero movie classico, con la struttura, le finalità e l'impianto dei più fulgidi esempi indipendenti statunitensi. Pensato come una "origin story" da fumetto americano degli anni '60, girato come un film d'azione moderno e contaminato da moltissima ironia che non intacca mai la serietà con cui il genere è preso di petto, Lo chiamavano Jeeg Robot si muove tra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, felice di riuscire a tradurre in italiano la mitologia dell'uomo qualunque che riceve i poteri in seguito a un incidente e che, attraverso un percorso di colpa e redenzione, matura la consapevolezza di un obbligo morale.
Il risultato è riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, somiglia a tutto ma non è uguale a niente, si fa bello con un cast in gran forma scelto con la cura che merita ma ha anche la forza di farlo lavorare per il film e non per se stesso. Claudio Santamaria è il protagonista, outsider da tutto, un po' rintronato e selvaggio, avido, alimentato a film porno, pieno di libido ma anche dotato della dirittura morale migliore; Luca Marinelli è la sua nemesi, piccolo boss eccentrico e sopra le righe, spaventoso e sanguinario con i suoi occhi piccoli e iniettati di follia ma anche malato di immagine (ha partecipato a Buona Domenica anni fa e sogna di diventare famoso e rispettato con il crimine), l'anello di congiunzione tra la borgata di Roma e il Joker. Intorno a loro un trionfo di comprimari tra i quali spicca (per adeguatezza alla parte e physique du role) Ilenia Pastorelli.
Il duo creativo Mainetti/Guaglianone (regia e sceneggiatura) si era già fatto notare anni fa, prima mettendo in scena Lupin III con attori romani (tra cui Valerio Mastandrea nella parte principale) nel corto Basette e poi con Tiger boy (alla lontana ispirato a L'uomo tigre). I due, con la collaborazione alla sceneggiatura di Menotti, hanno così costruito un percorso creativo e tecnico originale centrato sulla forza dell'ispirazione. Ciò che nel loro primo lungometraggio emerge infatti è come le storie che assorbiamo influenzino la nostra vita, come siamo i primi a desiderare una narrazione di noi stessi. Alessia crede che Jeeg Robot esista, Enzo sa bene che non è così eppure lentamente comincia ad aderire alla sua visione senza senso per la quale è lui l'eroe, comincia a crederci e a ragionare in quella maniera. Da quando sostituisce i DVD porno con quelli della serie animata nella sua dieta mediatica inizia anche a maturare un'altra consapevolezza, dentro di lui germogliano altri concetti. Guardando un mito e assistendo alle sue storie egli stesso si "fa" personaggio. 
Ma anche a un livello più immediato quello di Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produttiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un'opera che si fa portatrice di una visione di cinema d'intrattenimento priva di boria e snoberia intellettuale, una boccata d'aria fresca per come afferma che il meglio di quest'arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma (da cui tutto il resto discende). Nonostante un budget evidentemente inadeguato al tipo di storia Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di movimenti interni alle inquadrature, di trovate ironiche e invenzioni visive, un tour de force di montaggio creativo e fotografia ispirata (per non dire di effetti digitali a costo contenuto), tutto ciò che serve per raccontare un mito senza crederci troppo e divertendosi molto.

 
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Irrationa

Post n°13621 pubblicato il 04 Febbraio 2017 da Ladridicinema
 

 


Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell'Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C'è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
Dopo le atmosfere retrò di Magic in the Moonlight Woody Allen torna a un presente che lui vede come eternamente ritornante perché ciò che riguarda il rapporto dell'essere umano con la propria esistenza può mutare nelle sue manifestazioni ma resta essenzialmente uguale. Da sempre Woody ci ricorda che Dio è morto, Marx è morto e anche lui si sente (esistenzialmente) poco bene. I suoi personaggi sono testimonial di questo suo profondo disagio a proposito del quale non smette mai di interrogarsi.
La vita non ha senso e, per cercare di attribuirgliene uno o almeno per non ricordarselo troppo spesso è necessario 'distrarsi'. Per lui la distrazione è fare cinema. Per Abe potrebbe essere la filosofia di Kant, di Kierkegaard e di tutti i pensatori le cui aporie sa illustrare con abilità ai suoi studenti. Il problema consiste però nel far aderire la teoria alla realtà. È allora che nascono i problemi perché un mondo kantiano privo della seppur minima menzogna sarebbe l'ideale ma comporterebbe, ad esempio, la denuncia della famiglia Frank dinanzi a una precisa domanda dei nazisti. 
Che fare allora quando l'altro sesso ti desidera ma tu non lo desideri più? Quando tutto ti appare come ormai privo di valore tanto da non temere una roulette russa? Forse allora ti trovi a dare ragione al Sartre che denuncia che "l'inferno sono gli altri" e individui nell'idea di fare del bene compiendo il male l'occasione per riprendere in mano la tua vita. La morte sembra diventare non più la signora con la falce di Amore e guerra ma uno strumento per risolvere le conflittualità. Abe ha dietro di sé una serie di partecipazioni ad attività umanitarie che gli hanno comunque lasciato il vuoto dentro perché gli sembra non abbiano portato a un vero cambiamento. Il suo bisogno di lasciare un segno lo accompagna in fondo da sempre. Tutto il resto gli appare come superficiale. Dopo Crimini e misfattiSogni e delitti e Match Point Allen torna a focalizzarsi sulla morte come estrema ir-ratio per liberarsi o liberare altri dai problemi. Aveva trattato il tema anche con il piacere della commedia raffinata in Pallottole su Broadway. Vede anche tornargli utile l'escamotage della casualità dell'ascolto che aveva avuto i suoi effetti comici in Tutti dicono I Love You e profondamente sconvolgenti in Un'altra donna. Questo significa che Woody si ripete? Forse sì ma lo fa come accade con la vita di tutti i giorni che a volte ci propone gli stessi quesiti chiedendoci, col passare degli anni, di ripensare le risposte. In modo più o meno razionale e tenendo conto delle conseguenze. Che, nell'universo alleniano, non possono comunque mai sfuggire a una valutazione morale.

 
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Ave cesare

Post n°13620 pubblicato il 04 Febbraio 2017 da Ladridicinema
 

 
Locandina Ave, Cesare!

Mentre sull'atollo di Bikini gli Stati Uniti sono impegnati con gli esperimenti sulla bomba H, a Hollywood Eddie Mannix si deve occupare di trovare una soluzione ad un altro tipo di problemi. Eddie è un fixer, cioè colui che deve tenere lontani dagli scandali in cui si vanno a ficcare le star che stanno lavorando ai film di un grande Studio. Deve quindi far sparire foto osé e cercare di camuffare gravidanze fuori dal matrimonio. Quando poi accade che scompaia il protagonista di un film su Gesù, nei panni di un centurione romano, la situazione si complica. Anche perché costui è stato rapito da un gruppo di ferventi comunisti.
Sono davvero pochi i registi in attività forniti di una solida conoscenza di tutti i generi cinematografici e della loro evoluzione nel corso della storia del cinema. I fratelli Coen fanno di diritto parte di questa ristretta cerchia. Il loro pregio ulteriore è quello di saperli declinare secondo letture che vanno dal dramma di impianto intellettuale alla commedia più brillante. 
Nell'ormai lontano 1991 (datazione che ci offre la misura della loro tenuta) la vicenda hollywodiana dello sceneggiatore Barton Fink finiva tra fiamme allucinatorie. Oggi il fil rouge di critica allo star system si è affinato grazie ad un'ironia che non nasconde l'amore per il cinema del passato ma lo depura da qualsiasi sospetto di nostalgia rétro. Le vicende del cattolicissimo Eddie Mannix (che confessa anche quante sigarette fuma di nascosto) ci fanno entrare in un mondo che ci ricorda ciò che affermava un vero sceneggiatore, Ben Hetch: "Io odio gli attori!". Qui sono tutti adatti a un ruolo ma goffi e incapaci di vivere o di accettare possibili mutamenti di caratterizzazione. Su tutti emerge il Baird Whitlock di George Clooney tanto abile sul set (anche se con qualche fondamentale defaillance) quanto capace di farsi incantare da abili mistificatori. 
Tra fondali finti e improbabili farm del West, i Coen ci ricordano anche come la fabbrica della finzione si nutra di un pubblico che ha fame di affabulazioni che stanno dentro e fuori dallo schermo. A quelle 'fuori' pensano le due gemelle giornaliste, interpretate da Tilda Swinton, sempre a caccia di quegli scandali che Eddie deve coprire per contratto. Così i due fratelli ci spingono a considerare quanto siano cambiati i costumi: oggi gli scandali delle star del mondo dello spettacolo non si nascondono, si creano ad arte. Sanno però fare anche molto di più: chi pensava di non poter assistere nella vita a un dibattito teologico e/o a uno sul materialismo dialettico senza annoiarsi profondamente sarà costretto a ricredersi. Anche perché se nel film precedente (A proposito di Davis) il gatto la faceva da padrone qui, davanti a un cane che si chiama Engels, non si può fare a meno di divertirsi sapendo che, come sempre con i Coen, non si sta smettendo di pensare.

 
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