Per il presidente della destra nazionalista e guerrafondaia, uno scandalo così poteva essere fatale. E invece no. Quando il celebre giornalista televisivo Dan Rather tira fuori quella storia su Cbs News, il 9 settembre 2004 (a due mesi dalle elezioni) la destra comincia un'implacabile «caccia all'errore». Trovano delle contraddizioni in una delle fonti. La storia si rovescia, diventa «lo scandalo Dan Rather». Non importa che le rivelazioni sul finto servizio militare di Bush siano vere, quelle passano in secondo piano. Rather ci rimette l'incarico, la sua lunga e onorata carriera finisce malamente su quell'incidente. Finisce ancora peggio per la sua producer Mary Mapes (autrice del libro da cui è tratta la sceneggiatura, e interpretata nel film da Cate Blanchett).

Alla vigilia dell'uscita di Truth nelle sale in Italia, ne parlo con Robert Redford, che interpreta la parte di Rather. Incontro il quasi-ottantenne attore, regista, attivista e filantropo al Crosby Street Hotel di New York, per questa intervista esclusiva al Venerdì di Repubblica.

In un altro film straordinario su giornalismo e politica, quasi all'inizio della sua carriera, esattamente quarant'anni fa, lei recitò la parte del reporter Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente. Rispetto allo scandalo del Watergate, all'inchiesta del Washington Post che costò la Casa Bianca a Richard Nixon, che cosa è cambiato trent'anni dopo? In Truth non c'è il lieto fine, anzi vincono i cattivi. Colpa degli errori dei giornalisti? Oppure i media nel 2004 contano meno che nel 1974? O, infine, l'establishment che sta dietro Bush è più potente che ai tempi di Nixon?

«È vera la terza ipotesi, penso. Inoltre l'America ha un partito repubblicano molto più ... che ai tempi di Nixon, ha la destra più estremista di tutti i tempi. Una deriva che era cominciata già ai tempi di George W. Bush. Mi ha sempre affascinato lo scontro fra le ragioni del giornalismo investigativo, la ricerca della verità, e la politica. In Tutti gli uomini del presidente in fondo la situazione di partenza era abbastanza simile. Nixon cercò di bloccare le rivelazioni del Washington Post, eccome se ci provò. Anche allora i due reporter impegnati nell'inchiesta si trovarono in difficoltà, come Dan Rather e la sua producer. Ciò che fece la differenza, è che i due giornalisti del Washington Post alla fine ebbero il pieno sostegno dei loro capi e dell'editrice. Dan Rather no, ed è questo il dramma che il film racconta».

Se la Cbs lo avesse difeso, se avesse tenuto duro sulla sostanza delle rivelazioni che erano fondate, Bush poteva perdere la battaglia per la sua rielezione? Avremmo avuto John Kerry come presidente? Una politica estera molto diversa? 

«Queste sono speculazioni, mi è difficile avventurarmi in uno scenario ipotetico. Certo, c'era una possibilità che lo scandalo influisse sugli elettori. Il film ricostruisce la vicenda in modo onesto, obiettivo. Un errore tecnico venne commesso nell'inchiesta della Cbs, non c'è dubbio. Ma è triste che questo errore finì per occultare una storia vera e un problema serio. Dan Rather venne abbandonato, fu lasciato solo, con la sua producer. Alla fine la verità che dà il titolo al film viene sconfitta, rimane nell'ombra. L'Amministrazione Bush era così potente che quel piccolo errore giornalistico fu ingigantito fino a uccidere l'intera inchiesta. Uno sbaglio secondario fece scomparire una storia molto più grande».

Nel finale del film – quando la Cbs organizza un processo interno contro Dan Rather e la producer, chiamando avvocati legati a filo doppio con l'Amministrazione Bush – si capisce un problema che sta a monte: gli interessi economici di chi possiede la tv, l'intreccio di collusioni e scambi di favori con il governo, dunque il problema degli assetti proprietari nel mondo dell'informazione. 

«Questo è un tema a cui voi giornalisti, per primi, dovreste dedicare più attenzione. Il ruolo della proprietà nei media, e come gli interessi economici prevalgono o manipolano l'informazione. Spero che questo film aiuti ad aprire una discussione su questo tema essenziale per la nostra democrazia».

La storia vera di Truth si svolge in un'epoca recente, appena 12 anni fa, e tuttavia il panorama dell'informazione è quasi irriconoscibile oggi rispetto ad allora. Nel 2004 Facebook era nato da pochi mesi, Twitter non esisteva, Google si era appena quotata in Borsa; il loro impatto nel modo d'informare era nullo. Oggi gli stessi problemi di concentrazione si ripropongono, ma con soggetti diversi. Forse perfino più potenti e concentrati. 

«Ne sono certo, il mondo dei media è cambiato profondamente dal 2004. Ma non mi faccia parlare di cose su cui non sono davvero competente. Devo confessarle che non uso neppure un computer, tantomeno Facebook! L'impressione che ho, da osservatore esterno, è che da una parte ci sia stata una proliferazione e moltiplicazione di voci; dall'altra parte sia diventato forse ancora più difficile distinguere il vero dal falso. Ai tempi di Dan Rather, o di un altro leggendario anchorman televisivo come Walter Cronkite, i loro volti personificavano The News, incarnavano una credibilità delle notizie, erano fonti autorevoli e rispettate. Oggi quando accendo lo schermo vedo una faccia parlante, e sotto scorrono le cosiddette banner, strisce di notizie o commenti che distraggono la mia attenzione. È un brusìo nel quale perdiamo concentrazione, facciamo fatica a ricostruire una gerarchia d'importanza delle notizie».

C'è un retroscena personale su Truth. Non è solo la storia della sua attrazione verso il mondo del giornalismo, dai tempi di Tutti gli uomini del presidente. Lei è anche amico di Dan Rather, vi siete conosciuti tanto tempo fa, giusto? 

«Questa è una storia che risale alle origini del mio impegno ambientalista. Erano gli anni Settanta. In alcuni Stati del West, dalla California allo Utah, delle aziende energetiche volevano costruire ben undici centrali elettriche a carbone. Io cercai di fare sentire la mia voce, di organizzare una protesta. Riuscii a entrare in contatto con la redazione di 60 Minutes, il magazine d'inchieste di Dan Rather. Fu così che c'incontrammo la prima volta. Lo aiutai a mettere insieme il materiale per alcune inchieste sui parchi nazionali, la battaglia per la protezione delle nostre riserve naturali. Fu un successo politico. Quando andò in onda l'inchiesta, le aziende energetiche dovettero abbandonare i loro piani. Cosa che non mi rese popolare tra alcune fasce della popolazione locale. Per un po' di tempo divenni un paria, una sorta di nemico pubblico, in quattro Stati».

E quando vi siete ritrovati per la realizzazione di Truth

«Gli ho chiesto dei consigli prima d'interpretare il suo personaggio. Lui mi ha detto: "Questa è una storia che al fondo è basata sulla lealtà.C'è un rapporto di lealtà molto profonda, che rimane intatta, tra me e la mia producer Mary Mapes. C'è una storia di lealtà da parte nostra verso i nostri capi. Non ricambiata, da parte loro"».

(4 marzo 2016)