ELENA VARRIALE

Non basta sentirsi liberi, bisogna educarsi alla libertà.

Creato da eleimprota_2012 il 10/03/2012

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IL DEFICIT DI FIDUCIA E LA NOBILTA' DEL GESTO!

Post n°10 pubblicato il 28 Febbraio 2013 da eleimprota_2012

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Le elezioni politiche sono finite con i dati che tutti conosciamo: il Pd vince di un soffio sul Pdl, un italiano su 4 ha votato per il Movimento 5 Stelle di Grillo, mentre un altro 25% degli italiani ha preferito non votare.

Il Paese, dunque, risulta ingovernabile. Ma c’è di più: i dati elettorali tratteggiano infatti un Paese in grave deficit di fiducia, come aveva già evidenziato il recente (2013) Rapporto Italia dell’Eurispes, in cui, ben il 72% degli intervistati aveva dichiarato di non aver fiducia nella politica. Una sfiducia che riguardava tutte le istituzioni: Parlamento, Governo, Partiti (si attestavano all’ultimo posto) e Sindacati (raccoglievano solo il 19,5% dei consensi). In negativo era anche la fiducia nella Chiesa Cattolica crollata al 36,6% dei consensi. Unico dato in controtendenza risultava quello del mondo del volontariato e dell’associazionismo che si attestava ad un 75,4% dei consensi.

In sostanza, gli italiani avevano già dichiarato di non credere più nell’autorevolezza di chi li rappresenta, mentre davano credito ai cittadini che liberamente si associano per un fine. Una crisi di fiducia che rispecchia non solo gli scandali e le appropriazioni indebite di molti politici e partiti, ma anche l’incapacità di questi di riformarsi e riproporsi con credibilità. Sono tutti uguali: era ed è questo il convincimento più diffuso, quello che gira nella Rete con sprezzante ironia dei candidati e dei loro partiti.

Dati preoccupanti che mettono in discussione il principio che è alla base della rappresentatività politica e sociale: la fiducia. Nell’ etimologia della parola, infatti, fides sottintende un patto o un credito che da un soggetto passa ad un altro. Di conseguenza, il non avere fiducia in qualcuno comporta la scissione del patto stesso o quantomeno l’affievolirsi della sua autorevolezza.

Ed è davvero difficile non dare ragione agli italiani che si sono visti “salassare” economicamente da un potere politico dedito più al rendiconto personale che al bene generale o comune. Eppure, dati così rilevanti sulla sfiducia sociale hanno altre e, purtroppo, più gravi cause. Sono infatti “figli” di una sfiducia che potremmo definire globale e provocata dalla crisi economica.

A ben guardare, infatti, il 2008 sarà ricordato come l’anno in cui le fondamenta dell’edificio della finanza globale sono crollate, scaricando sul mondo la più grave crisi economica dal dopoguerra ad oggi.  Una crisi di speculazione finanziaria che ha messo in evidenza tutti i suoi limiti e la fragilità di un sistema che non scambia prodotti, ma solo titoli.

La débacle ha naturalmente acceso i riflettori anche sulle responsabilità di chi doveva controllare la validità dei prodotti finanziari e non l’ha fatto. Non a caso il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha chiesto recentemente un risarcimento di 5 miliardi di dollari alle grande agenzia di rating americana, Standard & Poor’s per i danni causati dai mutui subprime.  In sostanza, l’accusa che viene rivolta all’agenzia è quella di aver gonfiato le valutazioni dei mutui ipotecari pur essendo consapevoli dei rischi di una tale operazione speculativa.

Ma lo scandalo non finisce qui, perché la speculazione finanziaria è andata oltre, rincorrendo false assegnazioni delle agognate AAA dei titoli rilasciate da altre agenzie di rating. Titoli sopravalutati come i derivati che hanno provocato deficit nelle Banche (emblematico è il caso di MPS) e nelle Amministrazioni Locali che ne hanno fatto uso per alleggerire o rimandare il saldo dei loro debiti.

In sostanza, ciò che è venuto a mancare nell’economia liberista è il necessario rapporto di fiducia tra speculatori di Borsa e controllori dei titoli. Ma in un’economia liberista, la fiducia nel mercato e nella sua spontaneità è una variabile fondamentale.

Dunque, un deficit di fiducia globale che può degenerare in paura, rabbia e violenza. La “temperatura” sociale del mondo e del nostro Paese si sta riscaldando sempre più e mai come in questo momento storico appaiono profetiche le parole di un grande Papa come Karol Wojtyla quando sosteneva: “La fiducia non si acquista per mezzo della forza. Neppure si ottiene con le sole dichiarazioni. La fiducia bisogna meritarla con gesti e fatti concreti”.

Se questo è vero, al deficit di fiducia politica ed economica che attanaglia il nostro Paese, la politica deve saper dare risposte concrete. Serve un gesto di autentica responsabilità dei politici. In fondo, tutti speriamo che la XVII Legislatura della Repubblica venga ricordata come un esempio di solidarietà e tolleranza verso i più deboli, di creatività e lealtà verso tutti i cittadini. Il deficit di fiducia si combatte solo con la nobiltà del gesto.

Elena Varriale

 

 

 
 
 

DONNA E POLITICA:LA VERA PARITA' E' NELLA COMPLEMENTARIETA'

Post n°9 pubblicato il 09 Febbraio 2013 da eleimprota_2012

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VI PROPONGO IL MIO ARTICOLO " LA VERA PARITA' E' NELLA COMPLEMENTARIETA' " PUBBLICATO DAL QUINDICINNALE D'INFORMAZIONE INDIPENDENTE "IL SOLIDO"...GRAZIE AL DIRETTORE, TERESA RUSSO! 

LA VERA PARITA’ E’ NELLA COMPLEMENTARIETA’

“ Una volta la natura nostra non era qual è ora” ha scritto Platone “ma tutt’altra: prima erano tre i generi degli uomini, non già due come ora maschio e femmina. E ce n’era anche un terzo, fatto di tutti e due insieme misti, il quale oggi non è mai spento, e ne rimane solo il nome”.Il terzo genere era un uomodonna con quattro gambe, quattro mani e due teste; un essere dalle “grandi idee” che osò sfidare l’Olimpo degli Dei. La risposta di Zeus, per Platone, fu implacabile: “Or ora fenderò ciascuno di loro per lo mezzo, sì che essi ne saranno sgagliarditi, e insieme, moltiplicando in numero a noi altri renderanno di più, e cammineranno su due gambe”. Ma Zeus non si limitò solo a scindere l’uomodonna, lo condannò anche a cercare per sempre “l’altra metà sua”.

Da allora, iniziano due storie parallele e diverse: nella “culla della civiltà occidentale”, infatti, mentre Platone si interrogava sul ti estì (cos’è una cosa) alle donne non era neanche consentito uscire dalle loro camere fintanto che non fossero sposate. Il lungo e faticoso cammino dell’emancipazione femminile è cominciato così, da questa triste prospettiva di vita! Le donne hanno dovuto conquistarsi tutto: identità, dignità, credibilità e fedeltà. Nessuno più di una donna ha conosciuto la violenza, l’impotenza fisica ed il dominio psicologico. Ogni volta, si trattava di rompere schemi, sfidare pregiudizi e rendere silenti le inevitabili sconfitte. Il senso della giustizia doveva essere un nervo infiammato, pulsante. Eppure, ogni conquista doveva scaldare il cuore e le speranze, altrimenti oggi, noi non saremmo quello che siamo.

Le donne, tutte le donne unite da questo camminodi sofferenza e dall’inguaribile voglia di crescere e migliorare. Un esempio di costanza e perseveranza: le donne non hanno reso solo più “sensibile” la vita, l’hanno resa anche più combattiva.Ma non si tratta di una guerra tra sessi, piuttostodi una sfida con noi stesse e con la nostra alterità, l’uomo. Non dunque due visioni del mondo, delle cose e dei sentimenti, ma solo un bisogno di differenziarsi per meglio conoscersi, forse per ritrovare, alla fine, quella metà perduta per mano divina.Se questo è vero, la vera parità allora è nella complementarietà: inizia dove finisce l’altro e viceversa.

Eppure, nonostante le conquiste raggiunte nella vita e sul lavoro, nel nostro Paese, le donne sono ancora discriminate in politica. Secondo i dati Istat, solo 197 donne sono presenti nel Parlamento italiano: 136 deputate e 61 senatrici. Una quota quella rosa che si ferma al 20% della rappresentanza e che, nella classifica 2011 stilata dal World Economic Forum sulla presenza delle donne in politica in 134 paesi, ci vede vergognosamente attestarci al 55° posto.  A questo poco onorevole dato, si aggiunge la percentuale del 46,1% di donne disoccupate nel nostro Paese che ci vede al penultimo posto in Europa, davanti solo a Malta. I dati, dunque, non lasciano dubbi: le donne nel nostro Paese sono ancora discriminate, nonostante siano in possesso di titoli di istruzione più elevati rispetto ai coetanei, le loro competenze ed il loro merito non solo non vengono valorizzati, ma persistono discriminazioni evidenti nelle differenze retributive, nella qualità del lavoro e di carriera.

Donna e politica, il “binomio” che in Italia non riesce a sommare le parti in gioco, perché in un agone politico in cui tutto è “maschile” diventa difficile se non inutile, teorizzare irrealizzabili “pensieri della differenza”. L’unico dato certo è che le donne hanno sempre fatto e faranno politica quando in gioco ci sono i diritti, le tutele dei più deboli, la difesa della maternità, della famiglia e la conquista della dignità. Non bisogna mai dimenticare che la modernizzazione dell’Occidente si è realizzata anche grazie alle lotte dei movimenti femministi: unica rivoluzione della storia, senza spargimento di sangue!

Sotto il cielo d’occidente, le consapevolezze di una donna sono triplicate: è veramente difficile trovare una donna che non abbia coscienza di sé e delle sue possibilità, che non abbia la duplice ambizione di realizzarsi nell’amore e nella carriera, nella maternità e nella vita. Le donne, oggi più che mai, investono su loro stesse e sui loro sentimenti. Sono libere, colte, emancipate, ambiziose. Sanno fare, pensare, organizzare e chiedere. Hanno imparato a gestire senza affanno i tempi degli affetti e quelli degli impegni. Sanno rischiare, inventare, assumersi responsabilità. Sono donne che non hanno bisogno di mortificanti “quote rosa” esibite come un trionfo della democrazia, no le donne di oggi hanno bisogno di più: chiedono, vogliono una società autenticamente meritocratica in cui le loro capacità ed i loro meriti vengano riconosciuti e premiati. Una libera concorrenza tra generi diversi che dunque, non allontani, ma completi. Come scrisse nel 1963, una delle “madri” del femminismo, Betty Naomi Friedan nel suo libro denuncia Mistica della femminilità: “una ragazza non dovrebbe aspettarsi speciali privilegi per il suo sesso, ma neppure dovrebbe adattarsi al pregiudizio e alla discriminazione. Deve imparare a competere... non in quanto donna, ma in quanto essere umano”.

 Elena Varriale

 

 

 

 

 
 
 

BENVENUTI NEL SECOLO DELLA FLESSIBILITA'

Post n°7 pubblicato il 03 Gennaio 2013 da eleimprota_2012

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E' uscito il n°2 de "Il Solido" quindicinnale 'informazione indipendente della penisola sorrentina...vi propongo il mio articolo:

   

BENVENUTI NEL SECOLO DELLA FLESSIBILITA’

La flexinsecurity: lavoratori a tempo e senza protezioni sociali

 

Benvenuti nel secolo della flessibilità. Parafrasando un famoso film, potremmo così definire il nostro tempo dove tutto cambia e si trasforma. E’ una rivoluzione tecnologica, ma anche sociale che attraversiamo con una rapidità che nessuna generazione aveva mai conosciuto prima d’ora.  E’ l’effetto della globalizzazione e della diffusione del web che ci fanno entrare e confrontare, almeno virtualmente, con l’intera umanità, prima ancora che con il popolo nel quale siamo venuti alla luce.

Il flusso di informazioni che ci attraversa non ha rigidità, né un punto di fuga: è elastico, duttile, inclinato, flessibile. Tutto scorre e passa tra le notizie, i commenti, le petizioni, i conflitti e le tragedie umane e naturali. L’unica cosa che resta è la paura di un mondo che non riusciamo più a contenere e comprendere con le conoscenze ed il sapere che abbiamo accumulato nel tempo e nello spazio. Stiamo diventando spettatori confusi di un mondo senza baricentro che ci possa proteggere, esposti ad un futuro non prevedibile. Le nostre sono speranze friabili che sembrano sbriciolarsi innanzi a ciò che ci aspetta. Siamo davvero “canne al vento” con le braccia ed il cuore tesi ad afferrare solide sicurezze.

Nuove parole e nuovi concetti, dunque,sono necessari per ridefinire il nostro esprit du temps: velocità, globalizzazione, ma soprattutto flessibilità. E’un nuovo vocabolario che descrive, racconta il presente, ma rimanda già al futuro. Ma la flessibilità spaventa perché mette in profonda crisi le logiche costruttivistiche, quelle della programmazione economica, dei piani di sviluppo e dell’ ”ortopedia” sociale. Sono infatti in crisi i simboli del benessere e del welfare: la fabbrica, la casa, l’automobile e le ferie, la sanità, le scuole pubbliche e le pensioni. Uno tsunami economico e sociale che travolge e lentamente cancella la vita “lineare” del ceto medio, così ben descritta dal sociologo Richard Sennett. Una vita forse noiosa, ripetitiva, alienante, ma scadenzata da precisi obiettivi e sicuri passaggi. Nella fabbrica s’impastavano sudori ed alienazioni, ma anche una discreta dose di certezze ed un tangibile, quanto misurabile benessere economico. Ma questa è la storia di ieri. Oggi, il mercato, la curva del capitale, quella degli investimenti e dei movimenti finanziari non hanno più un solo centro propulsore. Si piegano, si allineano, s’inclinano e si sistemano nei bacini e nei luoghi dove la produttività e le transazioni sono più rapide e meno costose. Non è un caso che gli imprenditori prediligano sempre più un’ organizzazione a rete con frammentazione delle aziende, piuttosto che quella a piramide e che assumano solo su progetti a tempo determinato richiedendo al mercato lavoratori adattabili, duttili, modificabili e dinamici. In sostanza, ciò che è valutato al fine di un’assunzione è la disponibilità al cambiamento. Si profila così un nuovo dipendente, il lavoratore flessibile: elastico, duttile, capace soprattutto di reinventare ed aggiornare continuamente sé stesso e la sua professionalità.

Le cifre e i numeri della flessibilità non lasciano dubbi: crescono, di fatto, in tutto il mondo ed anche nel nostro Paese i contratti a tipici. Secondo i dati forniti dall’Istituto regionale di studi sociali e politici “Alcide De Gasperi” di Bologna, nel 2011 gli occupati in Italia con contratti a termine sono stati ben 3.315.580 unità e la retribuzione netta mensile media tra i giovani con meno di 34 anni è stata di 836 euro (927 euro mensili per i maschi, mentre scende a 759 euro per le donne). Stipendi bassi con palese violazione delle pari opportunità e tempi brevi di assunzione: così si caratterizza l’offerta di lavoro, nonostante il 46% degli impiegati abbia un diploma di scuola media superiore ed il 15,1% sia laureato. Ed è proprio nel settore dei servizi ed in particolar modo nel commercio, nella ristorazione, negli alberghi e nei servizi alle famiglie e alle persone che i contratti atipici si stanno diffondendo a macchia d’olio. Le nuove generazioni sono, dunque, già nel secolo della flessibilità e nell’arco della loro vita cambieranno spesso occupazione, ricoprendo mansioni differenti con contratti sempre diversi. A ben guardare, ciò che appare chiaro, nel lungo elenco di contratti a termine previsti dalla legge è la necessità di considerare il lavoro e la sua contrattazione sempre più individualizzati. Sono, infatti, le persone e non le “categorie” a contrattare i propri tempi di lavoro e le retribuzioni.  

Se questo è vero, ne consegue che le tutele sociali si affievoliscono sempre di più e che per uscire dalla morsa della flex-insecurity, cioé dall’elevata flessibilità dei lavoratori e dallo scarso livello di protezione, occorrono misure urgenti che sappiano dare risposte civili, umane alla dignità delle persone. Occorrono ammortizzatori sociali e sostegni alle transazioni da un lavoro all’altro, forme nuove di previdenza sociale, ma soprattutto un grande investimento nella formazione, nella ricerca e nella riqualificazione professionale delle giovani generazioni. Come ha scritto Albert Camus: “la vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente”.

Elena Varriale

 

 
 
 

AUSTERITA' E TASSO DI ALTRUISMO GENERAZIONALE pubblicato dal Quindicinnale IL SOLIDO

Post n°6 pubblicato il 25 Novembre 2012 da eleimprota_2012

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L’AUSTERITA’ ED IL TASSO DI  ALTRUISMO GENERAZIONALE

La parola austerità deriva dal greco austeròs che letteralmente significa inaridisco, dissecco ed era infatti usata per designare i vini che rendevano la lingua pungente, arida, secca. Come la crisi economica che stiamo vivendo: un vento sterile e laconico che soffia impietoso sui nostri

stili di vita presenti e futuri.

Una crisi che ha già notevolmente ridimensionato e contratto i nostri consumi e desideri : secondo i dati forniti dall'Istat sul commercio, a luglio 2012 in Italia, le vendite al dettaglio hanno segnato un ribasso dello 0,2% su giugno e una caduta del 3,2% su base annua.  Un vero e proprio crollo della domanda, secondo l’Istat, si registra negli acquisti di giochi, giocattoli, sport e campeggio (-5,6%); mobili, articoli tessili, arredamento (-5,2%); abbigliamento e pellicceria (-4,7%); cartoleria, libri, giornali e riviste (-4,7%).  L’acquisto del “futile” dirada sempre più e nelle famiglie ci si concentra sulle spese essenziali per la sopravvivenza.

Austerità e rigore sono dunque diventati sinonimi e l’Italia con il suo vertiginoso debito pubblico che recentemente ha segnato un nuovo record, fissandosi a 1.955,1 miliardi, pari cioè al 126% del Pil ha dovuto varare leggi finanziarie tra luglio e agosto 2011 ed il decreto Salva Italia di dicembre in cui ha già chiesto ai suoi cittadini un sacrificio da 46 miliardi di euro e nel 2013 prevede un'altra stretta da 27 miliardi, a cui si sommeranno altri 5,7 miliardi nel 2014.

Il costo totale della crisi per gli italiani sarà perciò di oltre 80 miliardi di euro netti. Un disastro che pesa su di noi, ma anche e fortemente su chi verrà dopo di noi. Non è un caso che il 35% dei nostri ragazzi non trovi lavoro e che la ricchezza nazionale sia diminuita del 3,2% in due anni.

Cifre da capogiro che “fibrillano” non solo da noi, ma anche in altri paesi europei e che spiegano i motivi per i quali, lo scorso 14 novembre, i sindacati di Spagna e Portogallo hanno indetto e realizzato lo sciopero generale, mentre si registravano numerose astensioni dal lavoro anche in Grecia ed in Italia. Uno sciopero europeo contro l’austerità, ma soprattutto contro questa sensazione di asprezza e di rigidezza economica e politica che non lascia intravedere all’orizzonte né prospettive, né opportunità.

Se è vero, infatti, che la popolazione italiana nel mondo è quella che ha il maggior numero di anziani a carico, l’età media più alta ed i tassi di fertilità più bassi ed è, naturalmente, spaventata dalla possibilità di perdere diritti e sicurezze acquisiti: pensioni e sanità rappresentano per ciascuno di noi la certezza di una vecchiaia e di una morte dignitose; dall’altra, però, ci sono i nostri giovani che protestano contro un’austerità che non avevano mai conosciuto e che cancella i loro sogni ed il loro futuro.

I nostri ragazzi sono i figli del benessere, della rivoluzione tecnologica, dell’interconnessione. E’ la prima generazione che non apprende, ma insegna ai genitori l’uso delle nuove tecnologie. Sono sani, belli, intelligenti e vivranno in media cento anni. Loro sono la nostra speranza di una globalizzazione multirazziale e tollerante, il nostro migliore investimento per un futuro di pace e di progresso. Ma è’ indubitabile che sulle loro spalle, per adesso, stanno solo ricadendo finanziarie rigorose, l’inflessibilità tedesca, i tagli consistenti alla scuola ed alla loro formazione, nonché le ristrettezze familiari ed i vergognosi scandali politici.  

Il rigore non ammette sperperi e come cane che si morde la coda, l’austerità ci rende più poveri ed insicuri. Non abbiamo risposte certe ed il pessimismo aleggia come un fantasma su tutto il mondo globalizzato. Anche le tigri asiatiche come Cina e Giappone, dopo Europa e Stati Uniti danno segnali preoccupanti di stasi o recessione economica. A tratti, sembra che si stia globalizzando la povertà e la misera di un modello economico profondamente in crisi. La globalizzazione delle favelas, piuttosto che quella del benessere e del welfare occidentale.

E’infatti sempre più evidente che l’aumento dei tagli e delle tasse contraendo i consumi, senza investire in ricerca, sperimentazione ed innovazione ha indebolito la ricchezza ed il benessere di ciascuno di noi. Il ceto medio sta vivendo una vera ed inesorabile dèbacle, schiacciato dal senso di colpa per aver dato credito ad una classe politica e dirigente del nostro Paese incapace non solo di capire lo tsunami economico che stava arrivando, ma vergognosamente intenta ad assicurarsi solo rogiti, vitalizi e sperperi di ogni genere. In sostanza, l’austerità sta diventando sinonimo di angoscia, cinismo e paura del futuro. Un conflitto silenzioso del “si salvi chi può” che attraversa in modo trasversale le generazioni e le classi sociali.

Ma è proprio quando l’orlo del baratro è più vicino che diventa necessario pensare, proporre ed osare.  Come ha scritto Albert Einstein: “E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato.” Un monito ed un ottimismo del cuore e della ragione da perseguire e prendere ad esempio. Ed allora perché non proporre un nuovo patto sociale tra generazioni che preveda da una parte l’impegno ed il sacrificio dei nostri ragazzi a risanare i conti pubblici e dall’altra, la defiscalizzazione per almeno cinque anni delle imprese costituite dai giovani al di sotto dei 35 anni? Una politica, insomma, che faccia del “tasso di altruismo generazionale” il suo punto di forza e di rinascita per garantire un’austerità sobria ma non inflessibile, severa ma non ingiusta.

              Elena Varriale

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

LESSICO RIFORMISTA: IDENTITA'

Post n°5 pubblicato il 27 Ottobre 2012 da eleimprota_2012

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IDENTITA’

Io e gli altri, il me ed il sé, il noi e il voi. L’ossessione dell’alterità, la molteplicità dell’essere, il dilemma dell’identità: “ma chi è io, se essi non sono io?” si chiedeva il poeta Paul Valery.

L’identità, come ha spiegato l’antropologo Francesco Remotti, è un processo fatto di tagli, separazioni, assimilazioni, accostamenti. E’ un flusso su cui intervengono connessioni ed alternative, costruzioni dell’identità. Nel flusso “navigano” le indeterminazioni e le potenzialità della natura umana, ma anche il bisogno di costruire continuamente modelli aggiuntivi d’identità.

L’identità allora di confonde con la molteplicità: per ciascun individuo saper chi è l’altro, cosa fa e come considera ciò che avviene nel mondo, è il modo attraverso il quale costruisce la propria identità. L’identità è anche un problema di scelta, di decisioni, di rotture, di superamento. Di memoria che si conserva e di memoria che si vuole e si deve cancellare, allontanare, non ripetere mai. Sono gli errori o gli orrori della storia. Le sopraffazioni degli uni sugli altri. La violenza dei modelli imposti. L’annullamento della dignità umana. Il conformismo della cultura: il sapere ed il tacere per opportunismo o per paura.

Identità e libertà viaggiano sullo stesso binario. L’una senza l’altra relegano l’uomo in una vita fatta di compromessi, di doppie verità, di utopismi irrealizzabili e di violenze inaccettabili. Vivere significa essere e dire ciò che si vuole, non sopravvivere ai bisogni! L’identità presuppone la differenza, la molteplicità, il dissenso. La libertà.

Rosi Braidotti esponente più radicale del pensiero della differenza sessuale, individua almeno tre fondamentali, possibili e necessarie differenze: la prima tra uomo e donna, la seconda tra donna e donna e la terza all’interno di ciascuna donna. Il suo pensiero apre alla molteplicità, aspira ad arrivare a“ nuovi soggetti desideranti: molecolari, nomadi, multipli.” L’identità diventa un fluido privo di confini. Una ricerca, piuttosto che una certezza monolitica. E’ il bisogno di essere. La dimensione online dell’uomo contemporaneo.

Basta pensare ai trolls della rete, persone inventate il cui scopo è creare reazioni o processi su cui riflettere. Sfidando luoghi e sensi comuni, pudori. Aprendo nuove possibilità di confronto e comprensione. In rete si sperimentano realtà ed identità, basta nascondersi dietro un qualunque “nome di dominio” rendendo superfluo nella comunicazione, il nome anagrafico. Come direbbe Derek Parfit, gli individui diventano persone-sequenze di esperienze. Ciò che conta è la “connessione psicologica e/o la continuità psicologica” di chi fa l’esperienza.

Molteplice, flessibile, connessa: è questo il profilo dell’identità nell’era della globalizzazione. Un processo in fieri che spaventa per la sua portata e per la sua indeterminatezza. Non c’è nessun baricentro. La paura è di essere travolti da un divenire globalizzato che annulli particolarità e soggettività. La Babele resiste, non vuole divenire unità. E’ il rifiuto della mondializzazione degli stili di vita, della cultura e dell’economia. In fondo, è la paura dell’impero, il contraltare della fluidità, dell’indeterminatezza e del divenire.

Si spiega così il diffuso insorgere di potenti espressioni d’identità collettiva che si oppongono alla globalizzazione ed al cosmopolitismo in nome di specificità culturali, religiose, nazionali, etniche e territoriali. Come ha scritto il sociologo Manuel Castell, il fondamentalismo “punta a costruire l’identità sociale ed individuale sulla base di immagini del passato proiettate in un futuro utopico per emanciparsi da un intollerabile presente”:

Veri e propri “paradisi comunitari” sono per Castell il fondamentalismo islamico e quello cristiano in America. Entrambi prefigurano un mondo patriarcale in cui le donne sono sottomesse agli uomini e la loro realizzazione è tutta interna alla famiglia. Obbedienza e perseguimento della retta via sono gli scopi delle due comunità.

E’ lo spirito di fratellanza delle ummah (comunità di credenti) superiore a qualunque istituzione, il punto centrale del fondamentalismo islamico. Provocato dal fallimento dei movimenti nazionalisti e dal tentativo non sempre riuscito di modernizzare e laicizzare la società. Nato dall’alleanza di intellettuali delusi e masse di contadini costrette all’esodo senza prospettive.

Per il fondamentalismo cristiano è invece la famiglia, “fortezza della vita cristiana” l’elemento fondante dell’identità individuale e collettiva. L’unica che può funzionare da antidoto alla disgregazione crescente dei valori della società americana. Comunità chiuse da contrapporre all’apertura del mondo e delle frontiere.

Ma la modernizzazione dell’Occidente si è realizzata anche grazie ai movimenti femministi, con la fine del patriarcato e della famiglia chiusa. Le donne hanno chiesto ruoli e li hanno ottenuti: decidono, governano, divorziano, restano single. Sono una “differenza” riconosciuta ed apprezzata. Le donne hanno contribuito a liberare pacificamente l’Occidente, hanno posto il problema dei diritti, delle pari opportunità, delle libere scelte. La rivoluzione femminista è l’unica, nella storia dell’umanità, che non abbia provocato morte o sangue.

E’ stata una lotta lunga, fatta di umiliazioni e di vittorie, di consapevolezze e sconfitte. Le donne hanno cambiato linguaggi e costumi della società occidentale, hanno protestato e protestano contro ogni forma di violenza e di ingiustizia. Non è un caso che i fondamentalismi religiosi vogliano relegarle nel silenzio. Sono la vera minaccia all’ordine pre-costituito. Basta pensare al burqa imposto dai talebani, alle continue lapidazioni per motivi d’onore in Giordania ed in Pakistan o all’infibulazione diffusa in tutto il mondo, anche nelle comunità straniere presenti in Europa. Annullare le donne è dunque il primo e fondamentale passo per combattere e distruggere le differenze.

A queste identità resistenziali va contrapposta, nell’era della globalizzazione, un’identità delle persone, dei diritti umani, delle libertà, delle pari opportunità, delle differenze culturali e della democrazia, prima ancora che dei popoli, della religioni, degli stati-nazione e delle superpotenze.

                                                            elena varriale

 

 
 
 
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