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Funambola

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Mi mancano le mie amiche.

Post n°149 pubblicato il 08 Febbraio 2009 da Gioiasole


Siamo cresciute insieme fin da piccole; quando ci siamo conosciute avevamo più o meno sei-sette anni, magre come chiodi e i capelli cortissimi e lisci; solo T. aveva ricci ribelli e scuri e F. un biondo caschetto ondulato che la faceva più simile a una bambola. Ho una foto estiva che ritrae M.P. e me: in pantaloncini corti blu e maglietta bianca, alte uguali (quante discussioni su chi diventava più alta!) abbracciate e timidamente sorridenti all’obiettivo. M.P. è stato il mio primo amore di amica, l’unica che io abbia sentito profondamente parte di me e con cui ancora oggi condivido una rara empatia, quel sentimento strano fatto di sensazioni che viaggiano senza bisogno di parole, di contatto fisico o visivo alcuno.


Eravamo le Giovani Aquile: un club di sole ragazzine al di sotto dei dieci anni, con tanto di distintivo e tessera d’iscrizione; ogni giorno inventavamo giochi pericolosi che nulla avevano di femminile. E se per un niente osavamo lamentarci della pericolosità o difficoltà di un gioco qualsiasi, la probabile esclusione era per tutte una cosa tremenda. Le bambole non erano sicuramente il nostro svago preferito: d’estate preferivamo arrampicarci sugli alberi e sulle pareti scoscese del bosco del castello, riportando graffi e sbucciature peggio dei maschietti, provavamo ad accendere fuochi con i rametti senza però riuscirci e correvamo in bilico sul bordo di una fontana circolare della villa comunale, sfidando la forza di gravità e ogni buon senso; d’inverno rubavamo di nascosto le bustone nere che le nostre madri usavano per raccogliere l’immondizia, per creare artificiosi bob con cui scivolare sulle pareti scoscese dello stesso bosco, coperte di neve.


La nostra è stata un’infanzia movimentata, ma divertentissima. Crescendo, abbiamo cominciato a divertirci un po’ meno quando ci siamo accorte che attiravamo l’interesse dei maschietti del quartiere: orde di ‘bubboli’ che ci inseguivano fino a farci morire di paura fin sotto al portone di casa. Meno scalmanate che da piccole, non riuscivamo però a fare un gioco tranquillo come la ‘campana’ senza doverci guardare le spalle, pronte a fuggire al minimo accenno di attacco. A ripensarci, era meno pericoloso giocare alle Giovani Aquile.


Alle medie ci sparpagliammo nelle varie scuole della città (ma io e M.P. sempre insieme, guai a separarci), per poi riunirci alle superiori: le nuove amiche e i primi amori, la ‘comitiva’, le prime uscite di sera per andare al pub, le cenette a casa degli amici. E poi la patente, i primi giri in macchina e l’addio al ‘Ciao’ con cui abbiamo più volte rischiato multe e beccato ammonizioni, i fidanzamenti. E qui avvenne l’irreparabile: a un certo punto, senza alcun preavviso, ‘lui’ era diventato più importante di ‘noi’. Addio per sempre alle Giovani aquile.


Poi partimmo tutte per l’Università: ci laureammo, trovammo lavoro altrove o in città. Molte si sposarono presto, arrivarono i figli uno dopo l’altro; le amiche di sempre si erano trasformate in amiche occasionali: non c’era mai tempo per un caffé o una pizza tutte insieme, il marito e i figli assorbivano tutte le energie. E poi la stanchezza, le delusioni premature, i dolori delle perdite che sempre accompagnano il diventare ‘grandi’. Ma sempre lì, in prima linea, le amiche: quelle che restano quando tutto sembra scomparire. E quando tutto sembra diventare niente o troppo, avere voglia di tornare a casa: di averle lì, intorno a te.



 

 
 
 
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