Marvelius
Elrond lands :dove il mito e la fiaba, la realtà e la fantasia si incontrano al crocicchio del vento
"Hic lapis est subtuste, supra te,
erga te et circa te"
L'ETERNITA' E' UN FUOCO CHE CONSUMA E CONSUMANDO VIVE
TASFORMANDO IL SOFFIO IN UN ALITO IMMORTALE...
MARVELIUS...
LE PAROLE SONO NOTE SULLE ALI DEL VENTO
SONO TRATTI DI LACRIME E APOSTROFI D'AMORE
STILLE DI MELOGRANO COME LUCE DI LUNA
IN UN POZZO D'EMOZIONE...
M.LIUS
Leggere uno scritto è un esercizio di fede,
il difficile tentativo di sfiorare l'animo dell'autore,
e il senso nascosto delle sue parole
Solo attraverso la musica trovo la chiave
per penetrare in esse
filtrando dalle dita su un foglio bianco
o dalle nere consistenze
di questo spazio virtuale...
buona lettura e buon ascolto
M.lius
La sapienza è il giaco che respinge
vili metalli
è lo splendore che rende giustizia
al saggio e all'umile pastore
che dellapropria ignoranza fa tesoro
indagando prima se stesso...
M.LIUS
Sono qui come un randagio
tra la radura del bosco,
come falco sul cipiglio di una sporgenza
ad ammirare ciò che lo circonda.
Annuso l'odore della sera
e le parole della gente,
come il profumo dei fiori
nell'afrore del mattino
Scrivo d' emozioni che si svestono
nell'ora tarda della sera.
Sogni rapiti tra tenebre nascoste
e ombre vacillanti di demoni rapaci
agli occhi del cuore.
Oscure pergamene
stillate da gocce a gocce
nell' inchiostro della carne.
Non cerco altro in queste terre,
ne asilo in altre lande,
sarò lieto del vostro passo,
delle orme che qui deciderete se lasciare,
dei rumori e dell'eco di vostri cenni,
delle parole che qui pianterete
come virgulti e teneri germogli ...
Al Cuore prestai sempre Fede
come alla Ragione il Lume
e al Corpo ignudo lo Scudo
che tenne fiero e indomito
il Sigillo della mia
Anima...
MARVELIUS
Marvelius
è il mio nome
scritto nelle rughe
di una roccia
Marvelius
è il segno di un
libero pensare
la mano che vi
invita a entrare
la voce che vi
sussurra i lemmi
di un dolce sentire...
Marvelius
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sparsi qua e la ciuffi di nembi bianchi con pennellate rosa e lame di sangue che pugnalavano il cielo. Le rondini volteggiavano basse sulle rive limacciose come in una danza estenuante che le riportava indietro nel tempo , su quelle rive dove si erano date commiato. Lei se ne stava irta su un sasso bianco, sul ciglio del fiume nel silenzio rotto solo dal vento che agitava le fronde di betulle ondeggianti, mentre l'erba filuta come onda di mare si fletteva ripetutamente tra riflessi di un verde cangiante. Era vestita con un peplo di canapa color melograno stretto da un laccio d'organza appena sotto i seni che già rigogliosi scolpivano una vertigine tra le loro anse.
I capelli ritorti in piccole trecce sulla testa ingentiliti da sottili nastri di ginestra ... due riccioli ai lati della fronte ricadevano sulle tempie come colonne intarsiate di onice. Il crine nero come la notte e le labbra tumide e rosse su bianche guance rendevano i suoi lineamenti schegge di una bellezza antica, finanche l'acqua del fiume sembrava attardarsi sull'immagine di lei per rapirne la luce e i tratti splendidi e trasportarli via con sé. Quell'immagine di dea, come una statua gloriosa, la consegnava ad un immortalità precoce, così tutta la natura prese a ruotare intorno a lei. Come una lancia infissa nel cuore della terra per segnare lo scorrere del tempo lei era assisa su quel cippo di pietra, ossa di terra e sangue pulsante in mezzo al respiro dell'aria e al suono del vento. Era stata felice un tempo su quelle candide rive, era stata fiore e farfalla, aveva assaporato l'inebriante polline dei rossi papaveri s'era librata nello zefiro caldo del tramonto fino a mutare in lucciola e vagare nel tepore di notti insonni.
Era stata colibrì e falco, ape e muschio grigio abbarbicato ai greppi lungo le anse di quel fiume gorgogliante. Ricordava ancora quando vestita di rugiada scivolava sulle lucide e tumide foglie, quando si scioglieva come neve sui prati puntellati di bucaneve.Era stata vento tra i rami nodosi degli ulivi, e coccinella sui bianchi petali di achillee impettite. Quando il sole d'agosto riposava sulle rosse spighe di grano ella si incuneava tra di loro simile al soffio vespertino, poi come pesci agili d'argento guizzava tra le anse del fiume e si inabissava fino al greto per mormorare tenere parole alle pietre del fondo. Saliva fino a vertiginose altezze con le sue ali cangianti, disegnava colonne di ametista nel cielo radioso e con le nubi dal bianco manto tesseva zucchero filato. Ora era li, ferma sul suo cippo a guardare il mondo mutare ancora una volta.
Una lacrima le scorreva sul viso e subito un'altra era pronta a seguirne il flusso. Gocce di rugiada sui greppi delle ciglia illuminavano gli occhi di un azzurro cinereo. Quando cadevano a terra,sposando il suolo scuro, foglie di acanto germogliavano d'incanto. Da lontano si udiva l'eco di tuoni giungere di la dai monti, su antiche vette innevate il vento si inerpicava e ne scendeva gelido come il fiato di un fantasma. I suoi piedi presero a mutare forma e sostanza, prima tralci di siepe come radici multiformi abbracciarono la pietra dove era assisa da tempo, poi i virgulti nati dalla sua carne divennero legno . Ampie striature verdastre si colorarono di linfa e sangue , poi la corteccia dura inaridì e alla fine pietrificò nel lucido scintillare del quarzo . Le sue lacrime ora erano perle d'elettro, le sue labbra un tempo come un fico spezzato scurirono come morse dal gelo e finanche la sua pelle sbiadì come se alla neve dell'incarnato fosse sottratta l'intima cella della sua vita.
(clicca sul video e continua ) Le braccia lungo i fianchi sembrarono flettersi come giunchi per arrivare alla terra, per sentire ancora il calore che ad essa la legava, per ascoltare il cuore della foresta parlargli teneramente, carezzarle i capelli accompagnandola nelle triste stanze del suo eremo. Nelle orecchie il suono di mille violini, negli occhi miriadi di farfalle azzurre come le stelle del firmamento la traghettarono alla fine del suo tempo. Un brezza secca si levò da tergo e un mulinello di foglie gialle e rosse le danzò intorno poi lentamente anche il vento cessò e le foglie caddero a terra rinsecchite. Un leggero drappo di neve iniziò a cadere come coriandoli nel silenzio di una natura che le diceva addio.
La luce del giorno fu solo un ricordo e la notte scese ad ammantare ogni cosa. Gli alberi smisero di ondeggiare, gli animali si rinserrarono spaventati nelle loro tane, le acque fermarono il loro corso, tutto cessò di vivere per un istante mentre la statua di lei imbiancava sotto un mantello di neve, rilucendo sotto la bianca folgore di luna . Quando tutto si arrestò un tuono si fece strada tra le colonne del tempo e un fulmine squarciò le tenebre rischiarando il bosco di una luce vermiglia. Le acque del fiume che erano rimaste ferme come uno stagno d'argento si incendiò di riflessi turchesi e presero a scorrere come se solo adesso sorgesse dal loro fondo la sorgente e la fonte svanita , poi l'abbrivio divenne corsa e infine rullìo di cascata.
Turbini fragorosi tra le linfe e i sassi smorti e un biancheggiare gorgogliante che tutto trascinò via. Gli animali uscirono dalle loro tane, i lupi si radunarono sulle alture e le rocce affioranti i pendii per ululare alla luna il loro ritrovato coraggio. Anche il vento rinacque da ostro fino a garbino per cantare lode alla Signora delle acque, alla ninfa del bosco, alla dea candida delle rocce . Sui rami delle querce si ritrovarono stormi di capinere e fringuelli dal becco rosa, tra gli ilici ombrosi il canto degli usignoli resero più gentile il fischio del vento che come uno sciacallo urlava tra i buchi e i nodi delle ceratonie con i frutti che scampanellavano ad ogni sussulto. Quando tutto sembrò prendere vita, la coltre di ghiaccio che ricopriva la statua scricchiolò, il bianco ghiaccio prese vita colorandosi di un oltremare che sfumava in mille riflessi luminosi. Poi accadde ... un fulmine balenò nel cielo come una sottile arteria pulsante e dopo aver attraversato tutta la volta celeste si infisse ai piedi della statua avvolgendola di un rosso fulgore di fiamme. Ancora una volta tutto si arrestò, finanche le biglie della memoria congelarono l'attimo e le sabbie del tempo sfumarono le gialle terre di un ricordo andato. L'alba giunse su un carro trainato da bianchi leoni dalle nere criniere, fosche pennellate pervinca striarono il cielo agonizzante, le cime degli alberi furono irradiate dalla sua luce e presero a vibrare come scosse da un fremito d'ansia.
La stessa terra si ritrasse percorsa da un energia invisibile e le acque del fiume si condensarono in miliardi di gocce che come pioggia si librò nell'aria risalendo al cielo. Quando tutto passò il giorno era rinato e il sole si affacciò timido sulle cime dei monti carezzando i verdi prati e le grandi distese di mangrovie, i canneti tornarono ad ondeggiare dolcemente tra le acque placide e i pesci a guizzare tra i corsi del fiume, timidi pettirossi zampettavano curiosi tra il fogliame e gli stecchi dei peschi in fiore e i tordi picchiettavano sulle pietre come a romperne il guscio . Il ronzio delle api si fece rombo di tuono e le cascate tintinnarono nello spumeggiare delle acque , gli gnomi si destarono dai loro giacigli e tornarono ai campi mentre folletti dispettosi presero a rincorrersi e giocare tra le fronde di alberi millenari. Nel cuore della foresta restava un grande masso di pietra bianca, lì sul ciglio del fiume come un altare nel cuore di un tempio, un piedistallo orfano della sua colonna infisso nella terra a ricordare che la Fata del Bosco era rinata, che l'alito della sua anima era ancora sopra le creature della foresta, che lo spirito delle sue grazie avrebbe ancora infuso gioia e speranza in tutti i loro cuori fino a quando l'ultimo di loro l'avrebbe tenuta viva nel ricordo.
Marvelius
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Perché l'Amore non ha età, non ha tempo ... ci attraversa tutti nelle forme diverse che toccano l'anima. Una carezza sfiorata, una mano cercata, un bacio sussurato o anche solo un sorriso accennato sono il piu grande miracolo che possiamo donare, per le persone che hanno bisogno di poter credere che l'Amore non li ha dimenticati ... Buon San Valentino Marvelius |
Sull'orlo di una rupe un urlo ...
sul ciglio di un fiume uno sguardo fisso nel profondo,
nel sonno vecchie parole biascicate tra i denti.
La lingua si insinua nei recessi della mente e scava
simile a un segugio che sterra nel midollo d'una falena.
Un veltro rifugge comodi serragli
e tra antiche olle nasconde i resti del suo peregrinare.
Ancora un urlo sugli sbecchi del dongione ...
si affettano fili dei pensieri e con essi si impastano
le emozioni di cuori ancora palpitanti.
In fornaci guizzanti d'aliti di fuoco
si immergono i ricordi di eroi infanti,
poi cessa il vento,
si placano le acque dei laghi e smuta l'onda del mare,
così tornano a dormire le ombre nel silenzio delle fronde.
E sopra il torrione la luce della luna imbianca,
pietre e anime inquiete,
cessa il tremore e i ghiacci della carne,
quiete ovatta ora il castello,
e dalle froge di un cavallo imberbe spuma bruma
simile ai vapori della terra.
Dal cielo scende neve come coriandoli incolori
a mutare il verde dei prati,
ha il colore della cenere e un tepore l'ammanta.
Ne raccolgo un poco
immergendo le dita nel solco che va ricoprendo
e serro gli occhi,
vestigia di popoli appaiono nelle loro vesti bianche,
bambini scalzi e sorrisi persi raccolti in mani piene di calore.
Occhi su cui scorrono i lieti passi di ore senza inganno,
giochi tra orizzonti sterminati
e sogni chiusi tra palloncini d'ogni colore.
Poi una bimba si avvicina e mi sfiora la guancia,
ha il viso dolce di chi nutre sempre una speranza,
ed io sorrido chinando il capo
mentre il suo volto sfuma oltre le lacrime della notte.
Simile è questa oscurità a un urlo che riempie il vuoto
e la svuota di ogni umanità
poi...
dopo tanto sanguinare
tutto tace ... nel buio che inghiotte. MARVELIUS
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Post n°106 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Marvelius
Tenera è la mano che disegna tratti d'orizzonte lieve come vento tra i capelli nei meandri della sua memoria Nulla distoglie il pensiero che penetra la coltre dei suoi lamenti Come un fiume che sgorga e scorre lento si inoltra sulla strada polverosa un filo di uomini dagli sguardi senza pieghe dove nascondere un cenno di speranza Donne dai cuori senza più sangue si inondano di un ultimo sforzo tra vestiti di strisce incolori Così nel dolce abbandono della resa stringono esili mani di bambino nel futuro che va sparendo Passi si confondono con polvere e sudore verso un destino che rimorde se stesso Lacrime senza più sale si impastano all'aria sterile che brucia come le fiamme di un averno Carnefice è il tempo e chi lo misura avido nella brama del possesso Tiranno è il silenzio che non scuote col suo urlo che fa tremare il tempio Ma chiusi restano i varchi e serra le oscure porte finanche l'amico che piega il capo nel pianto del cuore che non trova pace. Morta è l'alba nella notte eterna Così giace la vita che non'è vita fino al canto che annuncia un altro algore che miete le messi su quei rossi campi ... Schiere di elmi si mostrano a parata tra opposte legioni vestite di paure Spogliata è la dimensione di un intimità violata deriso è il corpo ... dilaniata l'anima innocente nella feroce ansia della distruzione che sfila l'umanità dal suo alburno ceppo Così nel ciclo eterno della sua infermità ogni uomo ha perduto quel briciolo di luce e va errando senza meta nel buio incerto della sua oscurità ... MARVELIUS
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Post n°105 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da Marvelius
(Ascolta il brevissimo dialogo di Thorin e Balin come antefatto del racconto nel video ...poi continua a leggere sotto il mio racconto) ... gli occhi Thorin scintillarono come spilli
arroventati mentre il ricordo si fece
vivido e una fitta gli lacerò
il petto.
Le grandi vette innevate gli apparvero
maestose scaldandogli il cuore e togliendogli
il respiro.
Gettò sulle braci un altro ceppo di quercia e le
scintille mulinarono nel camino rischiarandolo.
Gli altri nani si unirono idealmente nel silenzio
che li teneva avvinti come fasce di una corda
indistruttibile.
Lo sguardo del loro capo era una maschera di
ferro nel balenare delle ombre ... fu allora che
la voce di Thorin Scudodiquercia si spandette nel chiuso della casa.
Un profondo lamento plasmò la stanza
condensando di nostalgia e fitte di un dolore
mai dimenticato ogni asse, ogni legno
penetrando nei cuori di ogni cosa .
Le voci degli altri nani , uno dopo l'altra si
unirono alla sua ricordando la loro dimora,
il popolo distrutto, smarrito, disperso nei
rivoli di un mondo a cui non appartenevano
più.
Lo scorrere dell'acqua gelida dei fiumi negli
antri oscuri gli martellava nelle tempie, il rumore
degli uccelli che cantavano invisibili nel folto dei
boschi resinosi li irretiva, le albe nebbiose e i
tramonti che bruciavano il cielo erano ancora
chiusi nelle loro menti, la neve che ghiacciava
le ossa e ricopriva il mantello delle montagne
con una coltre di meraviglia potevano ancora
toccarla se solo chiudevano gli occhi ..
Il pianto del vento che gemeva nella notte gli
ricordava il loro triste lamento e in esso ancora
si rifugiarono come faville e torce di luce
disperse nel buio della notte.
E il canto si fece dolce come sidro e scivolò
dentro i loro cuori riempiendoli di melanconia
ma una forza nuovo iniziava a sorgere dentro
di loro, la voglia di ritornare tra le grandi
arcate del loro regno, tra le rocce affioranti
delle loro stanze e il canto si fece pietra e
sangue , lacrime e rabbia per ritrovare il
sentiero che conduceva alla porta della loro
patria perduta per stringere ancora il loro
mondo ... tra gli ori incantati.
MARVELIUS
|
Danzava come un soffio su spilli d'erba
rotolando tra gli aghi d'alberi informi
Tra le fronde del bosco spiegava il sorriso
mulinando per i prati in fiore.
Finanche la neve si sciolse al suo passaggio
come rugiada di lacrime bianche.
Poi vide sua madre come un sasso inerme
rotolato dal fianco della montagna.
Le si accostò smarrita con lacrime d'ambra
e ne sfiorò il corpo punto da un dardo.
Dal cuore sbrecciato gocce di sidro giallo
sgorgavano suggendone il sangue.
Di lei nulla batteva come filute d'erba
la dove regna la calma e il muto silenzio.
Nulla palpitava nel mantice del petto
neanche un sibilo tra le rosse labbra,
solo il bianco rilucire della pelle
nel corpo infisso come un chiodo
sull'alburno ramo dell'inverno.
Madre ... esclamò la fata guardandola negli
occhi e i suoi erano l'alba che scuce i drappi
della notte, erano le fiamme che scacciano le
tenebre, che sciolgono in rosse cadenze l'alba
e il freddo suo pungente.
Madre ... ripeté con voce calda piena d'una
commozione ardente, quasi adagiasse quel lemmo
sul morbido mantello della terra, come se l'acqua
d'una cascata ingente ne rallentasse il crollo
e al tocco sulle rocce ricordasse d'esser snella,
lieve come l'aria immota che al molesto incedere
del vento spiega le anse e i gli smossi argini
silenti, così soffia e soffia senza rumore tra le
forme delle cose stanche, come tra gli spigoli
d'angolo e le dure pietre divelte.
Madre ... fu l'ultima parola che spiccò tra labbra
tremolanti, tenendo il capo suo nel molle grembo.
Così il filo delle emozioni si piegò su quelle corde,
il suono della voce si ruppe precipitando in fondo
e fu raccolto dal pianto e dal rimorso .
Giunse il vento correndo amaro fino al mare
e il bosco serrò il cuor suo infranto
in dure lamine d'argento.
Rimase un sordo singulto in mezzo alla foresta
a rischiarare l'ombre e il cupo riposo delle fronde.
MARVELIUS
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Vago in questa notte che odora di muffa e di pioggia come in una spelonca grondante stille di montagna, non un alito di vento a scuotere le fronde di alberi che sembrano carcasse spolpate da denti affilati come lame e appesi nell’aria ferma e stantia di questa landa tetra e silenziosa. Le stelle le ha rubate il carro di uno zingaro, un uomo avvezzo all’arte oscura di maghi venuti da oriente coi loro loschi armeggi. Ho brividi in ogni angolo del corpo, fremiti che sembrano piccoli terremoti, finanche le gambe tremano e mi è difficile camminare, un ubriaco si abbandonerebbe sulla corda di un abisso con più equilibrio di quanto non abbia io e dire che non tocco una bottiglia da anni. Mi aiuto con una torcia per farmi strada e maledico la luna per la sua assenza e le nubi per la loro presenza come in un simposio di raminghi rabdomanti, ma cammino seguendo la fetta di luce gialla di una pila che mi illumina la strada . Polvere e un po’ di fango e maledizione nessuno che mi dia un indicazione, sono sperduto in questo bosco che sembra non finire mai come il buio che mi inghiotte. Impreco contro un miliardo di cose, se avessi una bottiglia la svuoterei in un respiro ma mi restano solo i pensieri e questi non dissetano ma creanono solo altre domande … ho sete, ho freddo e ho voglia di tornare a casa, stendermi sul letto con i vestiti addosso e ubriacarmi di pensieri. E’ notte fonda, l’ora delle streghe ma non conosco streghe e credo che neanche loro vorrebbero un lupo come compagno … un licantropo che ha dismesso i panni di un gentile e raffinato gentiluomo per indossare una maschera trovata nel fondo della sua anima corrotta … l’unica maliarda che ci assomiglia mi abita accanto, porta rossa di acero canadese, numero 69 e che strega Occhi verdi e taglio all’orientale, capelli di un morbido setoso e neri come l’ala di un corvo, un culo da far resuscitare i morti , che vista l’ora sarebbero pesti e neri furibondi, due seni da riempire mani e bocche di lussuriosi quanto inconsci ricordi di fanciullo. Eh sì, ricordo bene quand’ero appena un ragazzo, sono passati begli anni … mi siedo su uno sperone di roccia mentre la torcia inizia a dare i primi segni di cedimento . Passa in fretta il tempo, ieri ero un cazzutello con una faccia d’angelo, ora sono un uomo un po’ bastardo, un po’ maledetto e perché no uno che se la vive e che ogni tanto si perde nei ricordi come un ubriaco nei fumi della sua bottiglia. Sono cresciuto in mezzo al profumo di donna, femmine e compagne sempre molto più grandi di un ragazzino curioso e mordace . Eh si … tanta bella gioventù stesa al sole di un epoca irripetibile, tra cambi di vestiti, di reggiseni e mutandine , pizzi neri svolazzanti , trini e merletti e chi notava quel ragazzino di 8 anni con la bocca aperta su quei mondi di una rotondità imperfetta vagare con lo sguardo su colline, montagne e valli lussureggianti. Smalti per unghie oggi signore, massaggi snellenti, ciglia e creme sui seni … fianchi e docce da cui uscire seminude, tanto quel bimbo non si emoziona certo, ha solo 8 anni, e poi c’era sempre qualche ragazza più maliziosa in vena di esperimenti per provare a stimolare l’ignaro e inebetito fanciullo, farsi aiutare a stringere una pinzetta, un laccio o l’elastico del reggiseno. Uhm … ricordi la Stefania ? Eh già … ora mi metto a parlare anche da solo,lo sto facendo da un po’ in effetti e ciò mi preoccupa non poco. Vent’anni un viso candido con degli occhi grandi come due grosse mandorle “ Vieni qui” mi disse quel giorno con un tono marziale che non ammetteva rifiuti e io tra una timidezza ben celata e un presentimento inconscio mi avvicinai, avvertivo in quel tono un senso di sospesa malizia e nell’inquietudine dei miei anni provai un piacere interiore simile a una profferta di delizie proibite ma non ancora conosciute e così obbedii con piacere misto a un timore allucinato. Avevo dei bianchi calzoni corti e una camicia a quadri di un azzurro intenso, sandali e calzettoni bianchi … uno schifo insomma … o forse solo l’immagine di un tempo lontano che oggi sembra non appartenermi. Ero un piccolo boy scout che correva ancora dietro a lucertole da accalappiare con lunghe caule d’erba filuta. “Sai spalmare un po’ di crema?” chiese piegando la testa e i suoi capelli arruffati mi sembrarono la criniera di un leone, la guardai come se il mondo dovesse finire lì , in quel preciso momento, lei sorrise disegnando con la bocca un mare di promesse che ancora non conoscevo ma che intuivo essere l’antro di un giardino segreto, così percepivo sprazzi di un futuro acerbo e dolce come si intuisce il sapore dai profumi di un frutto ignoto. Mi prese per un braccio e un po’ infastidita borbottò scuotendomi “ Dico a te… se metto della crema la sai passare sul corpo?”Risposi di si, ma le parole mi uscirono di bocca come il sibilo di un serpente, più per comando e un sottile desiderio non ancora declinato ma forte e potente come un richiamo ancestrale di sensi misto a l’impulso suadente di voglie che si condensavano informi in quel preciso momento. “Uhm” mormorò accigliando lo sguardo mica tanto convinta “Vabbè dai …prova” disse sbuffando come se non gli importasse più di tanto e io annuii assecondandola nuovamente. Si tolse l’asciugamano che le serrava il seno e cadeva in tubino di cotone fino a metà delle cosce e rimase nuda nello splendore del corpo. Due gambe tornite e ben fatte che a me sembrarono colonne svettanti, l’incarnato bianco e liscio mi mozzò il fiato in gola e gli occhi mi si riempirono di lei mentre tutta la stanza diveniva evanescente. Si sdraiò sul petto appena accennato e feci in tempo a fissare nella mia mente i suoi capezzoli di un rosa acceso, deglutii accorgendomi di quanta saliva mi affollasse la bocca mentre lei metteva le braccia sotto il mento “Vai bello” mi esortò con una voce che mi martellò le tempie “Riempiti le dita di crema e mettila sulla schiena, poi ti dico io cosa fare... e attento al vasetto di ceramica è piccolo ma costa un mucchio di soldi, mia madre mi uccide se glielo rompo ” e chiuse gli occhi ad aspettare col sorriso appena accennato sulle labbra tornite ma già in viaggio sui mondi di un piacere che l’avrebbe trasportata sulle nuvole . Rimasi fermo ad osservare quel corpo che a me pareva di una statua, qualche giornale di nudi lo avevo visto e mi ero divertito a menarmi insieme ad altri compagni più grandi fino a provare un impeto di leggiadra sofferente estasi , ma quel corpo davanti a me, immobile e ieratico era tutta un'altra cosa, mi morsi le labbra prima che lei potesse protestare e feci come mi aveva detto, mi impiastricciai le dita di crema bianca come latte e lentamente la spalmai sulla sua schiena posando con cura il barattolino sul mobiletto a fianco. Al contatto con la crema lei sobbalzò lievemente e la pelle le si accapponò come scossa dai fremiti di un attesa scabrosa, era fresca e profumata al cedro, ma io riuscivo a sentire altri odori, più pungenti che si staccavano dagli effluvi della crema , odori di fluidi e umori nascosti nei labirinti del suo essere, aromi di pelle giovane e setata, fragranze di capelli lavati e di una patina di un sudore non ancora versato. Mano a mano che la toccavo la sentivo crogiolarsi in un piacere genuino e piccoli rumori provenienti dalla sua bocca mi intorbidivano i sensi, non erano continui né forti sospiri ma leggeri ansiti ritmati coi movimenti appena percettibili delle gambe, gemiti appena sussurrati tra i formicolii dei fianchi, mentre le mie mani andavano da sole sui glutei, le anche e le cosce, disegnando arabeschi tra le pieghe della pelle e circoli irregolari con i polpastrelli accaldati come fusi immersi nelle fiamme. Trattenevo il respiro come a contenere un ossigeno consumato ma impregnato di sensazioni vissute mentre il cuore mi batteva così forte che avevo paura che lei sentisse, avrei voluto fermarlo, toglierlo dal petto e chiuderlo in una cassa perché non battesse in quel modo, ma lei sembrava non sentire, non avvertire l’emozione che mi attanagliava la gola e il petto. La pelle bianca si stendeva come marmo sotto la luce del sole che filtrava dalla finestra tra tende agitate dal vento caldo proveniente dal mare. Serrai le tende come a voler celare il sole e i rumori d voci lontane. Accostai la finestra per isolare tutto quel mondo oltre noi due e annegare nell’intimità di sguardi che volevo solo per me , con delicatezza quasi per non interrompere quell’atmosfera magica aprii un lume nella penombra della stanza e lei rimase in silenzio … mi lasciò fare ... lasciò che timidamente osassi. Azzurre creste d’onda si infrangevano sugli scogli del litorale di Amantea e nella mia testa le onde imbiancavano di spuma, mentre lei , ancora riversa davanti ai miei occhi era come creta informe nelle mani di uno scultore, un levigato biancore che si rifletteva alla luce di una lampada dal colore caldo che dava alla camera riflessi ambrati e un alone che rapiva i miei sensi confinandoli nella regione dei pensieri che si confondono in torbidi rimestii scandagliati da un asticella che punge e lenisce un bollore che non da pace. Scivolavo tra le pieghe della pelle lucida e oleosa, con gli occhi serrati di chi non vuol vedere solo con lo sguardo ma con tutti i sensi, così mi immaginai immerso nell’acqua , rotolare nell’erba e respirare nei fumi di voglie che traevano origine in una parte nascosta di me che non riuscivo a localizzare con certezza ma che sentivo esplodere in mille rivoli offuscandomi la mente. Mi piaceva procurare piacere e cosi studiavo con certosina pazienza, tra ogni centimetro di pelle, quello che più dava appagamento, quello che più contorceva i muscoli e accapponava la pelle, aiutato anche dal ritmo e dall’intensità di gemiti donati alle ombre e rauchi respiri che sembravano uscire direttamente dalla carne di quella ragazza. Fu un esperienza che ripetemmo più volte e non fu l’unica così intensa e misteriosa, così magica e esoterica da intorpidire i sensi nell'estasi della scoperta. Il corpo nella moltelicità delle forme divenne il mio banco di prova, corpi su cui far scivolare mani, umori e sguardi intensi, inseguendo una lussuria ancora tutta da conoscere, comprendere e dominare. Nei miei occhi si alternarono le visioni di universi dissimili eppure uguali nella loro grazia multiforme. Così impressi nei miei occhi le delizie di un mondo cangiante, sul palcoscenico di una vita delicata e turbinosa, seni debordanti ai lati del petto ergersi contro ogni legge di gravità turgidi e pingui come mammelle gonfie di latte e altri piccoli come noci guardarmi impettiti come due occhi di nera femmina che ti bucano l’anima. Accarezzai fianchi con i palmi fino a farmi dolere i polsi, fui delicato come seta nel modellare olle e vasi di morbida creta e giunti intorno all’abisso del mondo, quell’ombelicus vicino al quale tutto sembra confluire come un immenso gorgo, sfiorare con le labbra le sue rotondità, le pieghe e i bordi, sussurrargli una lingua ormai perduta nei rimandi del tempo e giu giu con le dita sfiorare le cosce, i loro angoli più nascosti, un ticchettio di polpastrelli come il seguitare di una musica tra le corde di un arpa avvinta all’arco della schiena. Quella casa, come altre dimore, era divenuta un luogo ospitale dove inscenare rappresentazioni viventi di voglie assuefatte al genio della natura ma mai dome alla frusta della noia. Maschere si alternavano tra i sipari di un vissuto che riprendeva a scorrere come i cicli delle stagioni, sbranavo i giorni come il tempo spolpa i secondi ma con un avidità da locusta, un avido susseguirsi di appetiti … e ancora corpi, creme e oli profumati, capelli da sciogliere e annusare come fili di un intreccio di fiori, corone di acanto da sistemare con la cura di un giardiniere e mani da carezzare, sguardi da comprendere, respiri corti tra gli affanni del mattino come rorida rugiada e lacrime di luna sui campi incolti di giardini segreti. E le mie mani divennero me stesso e altro da me, arti di un prestigiatore dotati di un anima silente, conobbero il linguaggio dei corpi, i profumi della pelle farsi musica e incanto, la luce degli occhi imparai a discernere nel lento mormorare delle ciglia, al battito di palpebre anelanti, una lingua nuova e sconosciuta si alternava a idiomi gia masticati e il suo frugare divenne quello di uno scaltro ladro, il suo cercare quello di uno scopritore di tesori e le sue carezze simili al refolo che giunge dal mare tra le ciocche spoglie dei capelli e la voce bassa che viene dal ventre. La pelle dei palmi divenne un morbido panno capace di scivolare sul corpo come un raggio di sole di cui si avverte il calore del tocco e ti penetra dentro facendoti sussultare, ebbi una buona educazione tra le stanze di quel mare, tra le viuzze di quei porti e ciò mi fu utile per quella vera, tra i banchi delle medie, o quelli più maturi del liceo. E il mutamento ci fu, si perse quel capriccio, quel mutevole sbandamento, l’incredibile palpitazione di un immagine mai definitivamente impressa nella mente, tutto divenne più stabile, continuo, si stemperò la meraviglia per i corpi, per le scoperte più incredibili dell’anatomia umana e incominciai a scrutare le reazioni e i fremiti della carne, le torsioni dei muscoli, il muoversi di un corpo tra le variabili incognite del suo sentire, l’impulso interno nella sua manifestazione fisica così perennemente dissimile e non catalogabile, e accanto a esso ebbi certezza del pulsare del cuore, del moto universale di ogni cellula di quel mondo fatto di spirito e materia. E giunsero gli anni dell’università, intensi come i fumi di torba e le nebbie tra i laghi di montagna, quel flusso interminabile di cicli e stagioni del vivere quotidiano, immerso nello studio del corpo e della mente più incredibile di questo mondo. Ciò che imparai è che l’amore muta il modo di amare e tra due amanti se muta l’amore muta il modo di intrecciare i loro corpi, di abbandonarsi all’amplesso. Quasi come se dovessi donare un lascito scientifico all’umanità mi sorpresi ad indagare la natura umana nell’esplicarsi dei suoi intrecci amorosi, delle sue conquiste nelle alte vette di un coagulo di umori, tra corpi caldi e arsi dalla sete di una voluttà primigenia, ma lo feci con la volontà di capire cosa ancora stava mutando col crescere e il perfezionarsi di una curiosità invadente e priva di un limite e cercando di comprendere la mente semplice di un uomo e quella più complessa di una donna passata l’età dell’innocenza, del dubbio e giunti a quella della consapevolezza, quel limbo oltraggioso che piega l’inconsistenza di un oggettiva voglia di possesso, di dominio. Scoprii che i dubbi e l’innocenza sono solo dei veli che come un mantello lascia scrutare tra le maglie dei suoi lacci e ci protegge da una realtà insapore che dona tutto al peccato e priva l’essenza della polpa, oltre il quale, svelato l’arcano, spesso rimangono solo corpi in fugace compendio che sfiora l’estasi solo per un soffio di tempo e lascia svuotati dal mistero della compenetrazione e dalla gioia della scoperta , dal gusto di tenersi tra scarni lembi di felicità. Ventre che spinge su ventre e nella fusione della pelle umida e pungente immaginarsi nell’altro, nei suoi pensieri, nel suo corpo, nel disegno divino di una sola carne, sentirsi natura ribelle e selvaggia, chicchi di grano nell’impasto di un pane fragrante , lievito che genera lievito nella calma di un ritmo che non conosce fretta. Ricordi … si solo ricordi di un tempo che sembra ieri, come quelli di un ramingo tra morsi di carne intinta negli oli fumigati di un bordello, tra stanze rosse adombrate di damaschi e arabeschi, luci soffuse e specchi utili a perpetuare l’immagine di corpi sempre uguali a se stessi nella monotonia di rimandi licenziosi. Mani che frugano lembi di pelle nascosta dalle ombre e mai sguardi che si incontrano, lingue addomesticate ai piaceri di una voluttà canonizzata e mai sguardi che parlano fino in fondo di se stessi. Amori vissuti come orpelli fugaci e stracci bisunti ... ma amori ... sprazzi di un intimità rubata tra lenzuola ingiallite e i fumi che annebbiano stanze decadenti di periferia .
MARVELIUS
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Giro tra le mani un libro di Terzani , dentro di me ho una gran nausea per come va il mondo, così lo poso su un tavolo come un sasso che non rotola ed esco all’aria aperta tra i profumi della notte.
Mi aggiro come un ladro tra le viuzze di pensieri molesti, ascolto i venti e i gelidi bisbigli di parole dimenticate dal tempo, ed’ è come un refrain tra le nebbie di uno spazio sempre uguale a se stesso . Mi siedo afflosciandomi sull’erba come un sacco vuoto, i latrati dei cani infestano la notte squarciandone il silenzio mentre una luna assisa in un cielo nero come una lastra di carbone ne ruba la scena come una gran dama sicura del suo splendore. Tra pietre spigolose e bianche mi rintano come un animale smarrito e mi scopro granulo di sabbia che ha perso il suo mantello d’oro.
Tredici son gli ospiti, porterà mica iattura? E tredici su una bimba che non sa cosa sia la sventura ma solo un dolore che lacera e muta il suo vivere per sempre, un vuoto abisso che mai riempirà svuotando amari ricordi, mentre il sudore si mischia a un sordo piacere di sodali bestie i cui alibi restano appesi alle loro cintole come stracci putrescenti.
Una voce echeggia tra i tartari e le gole dei monti come una reclame pubblicitaria che ha perso i suoi clienti, “è sempre lo stesso mondo” dice e cambia canale, “è un mondo putrido e violento” ripete e torna indietro invitando a guardare quel lago tra verdi foreste e fiori pastello immersi tra caule d’erba ondeggianti nel vento.
… È sempre lo stesso mondo… gli rispondo sussurrando tra i denti con lo sguardo emaciato di chi ha visto l’orrore attraversare i secoli e rimpinguarsi d’odio e ferocia, tra l’indifferenza dei grandi e l’incapacità dei piccoli , ma sono solo un grano di sabbia e mi affido al vento, così lo prego di portarmi lontano, tra macchine infernali e i tavoli lucidi di raffinati maggiorenti .
I miei anni sono un vecchio cumulo di battaglie e il mio braccio tornito da vene grosse come giunchi sa ancora afferrare, stringere in una morsa che piegherebbe il ferro, tu invece un giovane virgulto, invecchiato osservando nuvole alte nel cielo limpido dell’estate, sordo ai richiami dei papaveri che rossano i campi dell’Ovestfalda e cieco alle spighe che non ancora mature sono recise dalle falci messorie di chierici dimoranti sul monte Fato …e intanto un sidro vermiglio scorre in lindi calici di cristallo.
Svuoto olle fumigati d’unguenti nauseanti e guardo a ostro sui bianchi simulacri del tempo l'immagine di noi sfolgorare tra spire del vento.
Scheletri rilucono al sole che ne ha spolpato i tendini e la sanguigna carne, finanche la loro storia ora è bruma che si alza muta nel buio di una notte orfana di stelle.
Cosa rimane del nostro stupore, dov’è finito lo sdegno di un tempo, i busti impettiti di rabbia, i pugni stretti nell’attesa di un impeto d’ira furibonda, solo rimandi a un passato gravido di conquiste e laidi oltraggi, eppure un uomo sa scrutare nell’animo dei suoi simili e una donna riconoscere ciò che alberga nel cuore di un figlio , il marcio che rode e consuma gli usberghi della specie.
Un ofide striscia tra volute di torba e spire vellutate si attorcigliano ai nostri virgulti, splendide gemme che non fioriranno, occhi diafani e voci stridule strappate anzitempo dal furore del giorno e dal ghiaccio biancore di una notte d’ argento e … ancora sversa un sidro cinabro in unti calici d’elettro.
Ho visto sventolare bandiere rigate di bianco e rossi drappi sulle vie dei martiri, scuri sudari mondati dalla pioggia, e al mattino sotto le sferzate del vento i chiari vessilli del potere ghermire il vento come fauci di leoni.
Ho visto tra la sabbia che fa sanguinare gli occhi, schiere di forzati trascinare i corpi donandosi alla morte sui carri di un sole nascente e popoli dal basso sguardo chinare il capo e con gli occhi in un pelago di rugiada volgere a mancino per non morir vivendo.
Diruti villaggi e pance gonfie di bambini dagli sguardi sparuti, tristi dolenze nella cieca rettitudine di un falcidiante destino e poi … tavoli d’avorio e bianchi incarti su cui tagliuzzare neri confini e pingui bottini di malasorte, cupi forzieri di tenebra e specchi di alabastro senza più un riflesso, tra spenti fari di un cupo lascito.
E ora cosa resta di quel vino in coppe ageminate ... cosa resta nelle mie mani e nel vuoto calco dei miei occhi se non l'inutile fiamma di un commento o l’arsa sete del tetro Campo di Etrom?
MARVELIUS
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Entro in un bar di terz’ordine, un sudicio locale dove ogni avventore sembra un otre pieno di pensieri malconci, finanche il cameriere al di la del bancone ha un viso lungo che invita a bere per non guardare. Poche sedie rattoppate e tavolini di formica rossa, un bancone di legno marcio laccato d’un verde spento su cui si è depositata la polvere di vent’anni e un lercio pavimento oleoso, scuro come il bitume. Il fumo sale in volute e spirali annebbiando ogni cosa e nell’angolo dove mi sono nascosto anche la luce fatica ad arrivare, un cono d’ombra che rinserra sotto la sua coperta la mia intimità bisognosa di quiete. Seguo con lo sguardo l’uomo che serve dietro al banco dei liquori, una maschera di un cupo marcio e un corpo smilzo avvolto nell’ampio grembiule in cui sembra navigare, cercando un appiglio per non lasciarlo andare dietro alla corrente degli spifferi che sibilano tra le commensura del tavolato.Capelli unti e corti striati di bianco . Avrà quarant’anni ma ne dimostra più di cinquanta con quelle sue occhiaie cadenti, le guance smunte e la pelle emaciata di chi non vede il sole da una vita.
E il fumo sale come i miei pensieri, si perdono sul soffitto annerito e ridiscendono pesanti come gocce d’ afa che ti si appiccicano alla pelle. La mano ruota un bicchiere troppo vuoto per alzarlo ancora e la bottiglia riflette uno spicchio del mio viso e lo deforma come uno specchio bislungo, lo penetra coi suoi riflessi tra la luce smorta del locale. Sulla mia destra due uomini rubizzi parlano sottovoce e mi guardano in cagnesco in fondo al locale una giovane donna nei suoi vestiti discinti danza su un cubo che sembra un sasso giunto alla fine della sua esistenza, si agita senza passione tra movenze lascive e sguardi non troppo convinti di altri uomini sprofondati su sedie bislenghe. Sorrido di tutto questo, della donna che muovendosi sembra pensare alle sue cambiali, degli spettatori immersi nei fumi dell’alcool e dei due uomini che mi stanno a fianco facendo calcoli su quanto possa avere nel mio portafogli. Potrei sbatterli al muro senza difficoltà e riempirli di bastonate senza sporcarmi di una goccia di sangue e senza smettere di bere, se fosse ancora pieno il mio bicchiere, e continuare a osservare la decadenza che mi circonda e di cui io stesso sono parte. Ma non ho voglia di alzarmi e godo nel lasciarli ai loro conti, così piego il capo e i capelli lunghi mi ricadono sul collo, mentre sfioro il viso con le dita e l'ispido graffiare della barba incolta da qualche giorno mi ricorda il tempo passato a pensare alla banalità dell'esistenza e alla sua meravigliosa inconsistenza.
L’unico di cui mi interessa è l’uomo col grembiule, il suo sguardo fisso come una maschera di argilla, le sue spalle raccolte sotto il peso di chissà quali ricordi e la sua capacità di lasciarsi attraversare da tutta questa rovina. Mi chiedo come ci sia arrivato qui dentro, cosa ci sia venuto a fare in questa morte che si trascina tra parvenze di vita, lasciti di speranze infrante sugli scogli delle esperienze, scommesse perse ai dadi col destino beffardo. Così, tra questi stolti pensieri di un uomo percorso dai dubbi nella certezza del mio essere pensante lascio cadere due monete accanto al mio bicchiere vuoto, raccolgo il mio bastone d’avorio e mi alzo come un angelo stanco chiuso nel suo abito elegante. Prima ancora che i due al mio fianco possano fare lo stesso pianto i miei occhi nei loro come pugnali roventi, li fisso immobile come a scrutarne ogni abisso, ogni più nascosto sentore, e vedo abominio e tristezze turpi rozzezze da disperati senz’anima, ma i miei occhi sanno ammansire perche in essi ho trasferito ogni mia ferocia, la rabbia di un vissuto che spaventa e che attraversa i secoli di una vita che ha bandito la morte. Vedo le loro mani abbandonare una decisione che si spegne tra i fumi di un arrendevolezza troppo presto giunta nei conati della disperazione e i loro sguardi pian piano piegarsi e acquattarsi negli angoli della sala come docili creature dimenticate da Dio . Riprendono a sussurrare dei loro affari ma ogni calcolo su di me è svanito dalle loro intenzioni e tornano ad affogare le loro inutilità nel rancido lezzo di un liquore che ucciderebbe un elefante. Giro tra i tavoli come un fantasma tra le cripte di un cimitero e mi fermo dinnanzi alla donna, la guardo come se la vedessi solo ora veramente, all’inizio sembra non accorgersi di me, poi pian piano alza lo sguardo e i nostri occhi iniziano a dialogare. Mi fa un sorriso come tanti, ma non ho voglia di carezze ne spiccioli in un cappello, la musica è un massacrante ritornello che strazia le orecchie e lei un odalisca che ha imparato poche movenze come una straniera la lingua in un corso serale . Mi avvicino a lei fin quasi a sfiorarla, è bella e ha un corpo prorompente, diamine non starebbe li a ballare se così non fosse. Usa un trucco dozzinale e un profumo di rose che stordisce i sensi, odio entrambe le cose, quel suo rossetto rosso e l’ombretto azzurro lucido e pesante, avrei voglia di toglierglielo col polsino della mia camicia, ma continuo a osservarla e lei a muoversi tra la musica che mi ricorda Samarcanda.
È eccitata dalla mia presenza e finalmente si muove come sa fare una donna e non come un automa che ha reso l’anima per un tozzo di pane, sa ondeggiare i fianchi accovacciarsi come se sentisse il bisogno di urinare e nel farlo mi guarda con occhi pieni di voglie, apre leggermente la bocca e la sua lingua si affaccia per brevissimi attimi sull’uscio delle sue labbra che i denti mordono con lussuria misurata. Le sue mani accarezzano il suo corpo con eleganza, i suoi fianchi con ondulato piacere seguono il bacino smanioso e il suo seno si espone alla vista come una profferta di delizie in un mercato orientale. Mi accorgo che anche gli altri uomini sembrano aver dimenticato l’ebbrezza che spezza le gambe, l’alcool che li ha resi ciechi e recuperano ciò che la natura gli ha impresso nella notte dei tempi. Alzo il mio cilindro sulla fronte e asciugo i miei sudori col polsino della giaccia, l’aria è rovente , un afoso vaporio che leva il respiro inebriando i sensi . Quando la voglia ha raggiunto l’apice del mio desiderio le giro dietro e la stringo tra le braccia,la musica si ferma e tutto sembra sospendersi nel tempo scandito dai battiti del nostro petto. Tra respiri affannosi giunge l’ attimo che tutti aspettano , anche l’uomo del bar smette per un attimo di roteare bicchieri intorno a un panno liso e consunto … la bacio e lei sembra perdersi dentro di me … ogni cancello si apre, ogni steccato si infrange sotto l’onda dei nostri odori e tra gli sguardi morbosi degli avventori la porto via, nel silenzio di chi vorrebbe protestare e nella voce mozzata di chi sa che è meglio non fiatare .
MARVELIUS
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Eppure… qualcosa indugia sul confine dell'attimo
nel batter d’una ciglia quando tutto si ferma
e li … v’è quella timida dimensione
che pochi sanno riconoscere
Così chi immagina L'Orff
non può che vederlo così
con questa tinta cangiante
che nel suo maestoso divenire
profuma di vita e si colora di morte …
Tra sterpi di sarmenti ho abitato
e nei canneti ondeggianti ho eretto la mia dimora
Nel deserto ho bivaccato tra strappi di carne
e una sete implacabile
Con umiltà ho indossato l'aria del mattino
sulla pelle d'ambra
e nei fili recisi della memoria
ho tessuto le ragnatele del tempo.
Ora ... giunto sulla vertigine di un attimo
mi scopro stanco ...
così mi piego dinnanzi al mare
come scheggia di cuoio intinto nel fango
Osservo gli aghi dei ricordi torcersi come spilli di carta
e di essi ne faccio una corona di spine
per trarne la rossa linfa sulle mie rive bianche...
MARVELIUS
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REGOLE DI CIVILE CONVIVENZA
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R.B alias Marvelius