Mondo Jazz
Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.
IL JAZZ SU RADIOTRE
martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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JAZZ & WINE OF PEACE
Pipe Dream
violoncello, voce, Hank Roberts
pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig
trombone, Filippo Vignato
vibrafono, Pasquale Mirra
batteria, Zeno De Rossi
Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Robert Wyatt - cornet "La gran parte dei musicisti pop si rovina a forza di ripetere i propri cavalli di battaglia per tutta la vita; rifanno sempre sempre sempre la stessa cosa. Nei concerti ci sono tantissime pressioni in tal senso. E' molto difficile non cedere e lo capisco. Alla fine però se ne esce distrutti. Invece Robert Wyatt è un esempio per tutti i musicisti di quello che dovrebbero fare ma non ha mai rinunciato alla parte creativa della produzione di nuova musica; non ha mai smesso di essere inventivo. Robert occupa una posizione molto particolare. Tra i musicisti della sua generazione lo colloco nella stessa categoria dei Nick Drake, Syd Barrett e Peter Green, con la differenza che lui è vivo." Jerry Dammers Volendo trasferire il concetto base enunciato da Dammers al campo jazzistico i nomi da ricordare fortunatamente non sono pochi, parlo naturalmente dei viventi e sopra i settant'anni: Henry Threadgill, Herbie Hancock, Wayne Shorter, William Parker, Roscoe Mitchell, Wadada Leo Smith, Jack De Johnette, Dave Holland, Randy Weston, Ahmad Jamal, Kenny Barron, Anthony Braxton, Sonny Rollins, Keith Jarrett, Charles Lloyd, Chick Corea, John Surman, Carla Bley, Ron Carter, Henry Grimes, Eddie Gomez, Steve Swallow, Gary Peacock. Più quelli che al momento non mi vengono in mente.... |
Post n°4056 pubblicato il 14 Agosto 2018 da pierrde
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Post n°4055 pubblicato il 13 Agosto 2018 da pierrde
Pianist Aruán Ortiz, flutist Nicole Mitchell, cellist Tomeka Reid, vocalist Fay Victor JOYCE JONES photo Mentre dagli States rimbalza la brutta notizia delle precarie condizioni di salute di Aretha Franklin, il clima vacanziero invita ad ascolti di novità, magari di un certo spessore, cosa non sempre facile da realizzare. Ho "rubato" e liberamente tradotto dal sito WBGO per proporvi questi quattro brani tratti da album di recente o recentissima pubblicazione. Nicole Mitchell, "No One Can Stop Us"
La scorsa primavera Mitchell ha presentato un'altra suite, Maroon Cloud , come parte della Stone Commissioning Series di John Zorn alla National Sawdust. Il titolo si riferisce ai maroons, schiavi ribelli che si emanciparono e fondarono le proprie enclave nel 16 ° secolo. Ma l'attenzione di Nicole Mitchell non è concentrata solo sulla vicenda storica quanto sul potere dell'immaginazione radicale della musica. I suoi partner sono la violoncellista Tomeka Reid, il pianista Aruán Ortiz e il cantante Fay Victor. Lavorano in una situazione cameristica ma pressante, spingendo la musica verso un piano più alto. Su "No One Can Stop Us", che potete ascoltare nel link sottostante, la frase del titolo assume proprietà gioiose: è una sfida, un proclama, ma anche una celebrazione. https://fperecs.bandcamp.com/album/maroon-cloud
Se questa descrizione vi suona di routine, non lasciatevi ingannare: non è una passeggiata rilassante per Coleman e il suo gruppo , i Five Elements, che viceversa si sono fatti carico di una notevole quantità di nuovi brani nel concerto. La sezione ritmica è composta dal batterista Sean Rickman e dal bassista Anthony Tidd; la prima linea include il trombettista Jonathan Finlayson. E nel bel mezzo di tutto (in quello che pare essere il suo ultimo concerto come membro della band) c'è il chitarrista Miles Okazaki. Ascoltate la scintilla creativa nel motivo chiamato "Nfr" ( sul sito WBGO), che incorpora un groove funk di impostazione M-Base e una linea di matrice boppish, con assoli fulminanti di Coleman, Finlayson e Okazaki. Pregevole anche l'elaborazione del senso del limite che porta la melodia ad una brusca, decisiva fermata. Io invece propongo il brano Horda che da inizio al doppio album: https://stevecoleman.bandcamp.com/album/live-at-the-village-vanguard-vol-1-the-embedded-sets
Five Elements: Miles Okazaki, Jonathan Finlayson, Steve Coleman, Anthony Tidd, Sean Rickman Houston Person e Ron Carter, "Remember Love"
"Blues for DP" di Carter è una anomalia in un certo senso; non è una canzone d'amore quanto una canzone di tributo. Le iniziali del titolo sono per il pianista e compositore-arrangiatore Duke Pearson, e la melodia è apparsa per la prima volta su un album di Grover Washington, Jr. In questa versione, Person corteggia e gioca sottilmente con la melodia, oltre la linea di basso di Carter. Il loro interplay ingannevolmente casuale è soffuso di sentimento blues, in una modalità che suona originale e inattesa.
Una marcata linea della tromba sopra un beat martellante è una risposta a una domanda che pochi hanno formulato: come sarebbe se Dave Douglas decidesse di creare una melodia di surf-punk? Lage e Halvorson lavorano in un tandem intricato e nodoso, e Laswell infarcisce il suono di una profonda gravità . Strada facendo, Lovano imbastisce un assolo elegante e coinciso, e Douglas alimenta il fuoco da par suo. Il titolo del brano richiama l'attenzione sulla conservazione delle nostre risorse naturali, e non c'è dubbio che la sua urgenza sia un riflesso dell'attività degli attivisti di Peace Corps. Sul suo sito web, Douglas nota che questo mese lui e Greenleaf sosterranno la causa di Peace Corps. "Abbiamo bisogno di educare noi stessi in modo che possiamo convivere su questo pianeta", scrive. "Nessuna nazione può 'fare da sola.'" https://davedouglas.bandcamp.com/album/uplift-twelve-pieces-for-positive-action-in-2018-preview |
Post n°4054 pubblicato il 11 Agosto 2018 da pierrde
Cosa c'è di più bello che salutare le prime luci del sole che sorge con le belle note di Giovanni Allevi? Probabilmente nulla. Riporto, come commento, quello che scrive Alberto Arienti Orsenigo su Facebook a proposito del mio post Dieci (e più) protagonisti del futuro: Gli italiani hanno scelto un governo indegno, ascoltano musica pop brutta, vedono film mediocri e non leggono. Perchè dovrebbero amare il buon jazz ? Da parte mia, complimenti agli organizzatori di Luce d'oriente in jazz. Dei veri esperti... |
Post n°4053 pubblicato il 11 Agosto 2018 da pierrde
La piccola PI Recordings, etichetta tra le più coerenti e caratterizzate dell'attuale scena discografica (e pensare che sono solo in due...) annunzia con giustificato orgoglio l'uscita del primo volume di un 'live' dei Steve Coleman's Five Elements al Village Vanguard di New York. Coleman aveva calcato il palco della mitica cantina newyorkese agli esordi della sua carriera a cavallo degli anni '70/'80, prima con la Thad Jones/Mel Lewis Orchestra, e poi con la grande Abbey Lincoln (il buon giorno si vede sin dal mattino...). Nonostante la luminosa carriera seguita poi, e dipanatasi in luoghi ben lontani dal Vanguard, Coleman si è sempre fatto un punto d'onore di ritornarvi da leader, cosa che gli è riuscita nel 2015, rinnovando poi l'appuntamento negli anni successivi: forse sente ancora risuonare nel locale l'eco delle registrazioni di Coltrane e Rollins che costituiscono caposaldi della sua formazione, sentimento dichiaratamente condiviso anche dai suoi compagni Jonathan Finlayson alla tromba, Miles Oyazaki alla chitarra, Anthony Tidd al basso e Sean Rickman alla batteria. "Spontaneo" ed "estemporaneo" non sono esattamente i primi aggettivi che vengono in mente pensando al coerente e caratterizzato corpus della musica di Coleman e dei suoi Elements, soprattutto quando si pensa agli album degli ultimi anni. Invece PI Recording spergiura che sono proprio le due chiavi migliori per descrivere le registrazioni dei due sets raccolte nel doppio album ora in uscita (è chiaro che si attende anche il Volume 2...). Messe da parte le sofisticate e complesse orchestrazioni degli ultimi lavori, i Five Elements nella formazione attuale hanno preso una lunghissima rincorsa di quasi quattro anni, dipanatasi in numerose 'residencies' in grandi città come Chicago, Detroit, Los Angeles e New York, in cui la coesione telepatica del gruppo è stata portata sino all'estremo in innumerevoli sessioni: di giorno concerti in scuole urbane ed strutture comunitarie per pubblici tendenzialmente svantaggiati (chapeau, Mr. Coleman...) e la sera in concerti nel circuito tradizionale. "Coleman believes strongly that only constant and consistent performance as a unit will enable the music to fully blossom" : una lezioncina da meditare a tutti i livelli alle nostre latitudini.... e non parlo solo e soprattutto dei musicisti. Questo serrato tour de force preparatorio da parte di un leader e di una formazione di indiscussa reputazione è stato possibile essenzialmente grazie al fatto che Coleman l'ha largamente finanziato in proprio grazie alla sua organizzazione no-profit (chapeau due volte!!) Nonostante questo serrato rodaggio, il leader è riuscito a sorprendere i suoi compagni portando nuovo materiale durante la stessa settimana delle registrazioni, ed improvvisando sul palco la melodia di alcune nuove composizioni (come la "Embedded#1"). Qualche brivido anche per la band di scena su un palco così prestigioso, dunque, ma il chitarrista Oyazaki osserva che il risultato è stato "un suono che va al cuore dell'improvvisazione, non compiacente, non sedimentato in uno schema, un suono in lotta, di ricerca". Naturalmente non si può chiedere a Coleman di non esser l'alchimista che è, quindi vedremo tentativi di trasporre la logica della scrittura geroglifica egizia nella notazione dei suoi brani, catene melodiche fondate su anelli di due note 'incistate' nei temi ed altre invenzioni: per chi ammira lo Steve fine strumentista non mancheranno comunque ghiotte occasioni (in passato abbastanza rare ed in certa misura limitate). Attendiamo con impazienza il disco, rammentiamo invece ai tecnofili che per deliberata (e coraggiosa) scelta PI Recordings si affida solo a Bandcamp per il download digitale.
Franco Riccardi
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Post n°4052 pubblicato il 10 Agosto 2018 da pierrde
Nella foto uno degli "esclusi" dall'elenco Sempre più spesso è possibile leggere, sia sul web che sulla stampa generalista, articoli che hanno a che fare con la nostra musica e con i nostri musicisti. Questa volta è il caso della testata GQ Italia, che, per la penna di Maurizio Di Fazio, presenta "Dieci protagonisti del jazz italiano del futuro", e cosi' introduce il pezzo: Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Franco D'Andrea, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Stefano Di Battista, Danilo Rea, e gli altri. Sono ancora loro gli esponenti di punta del jazz italiano. I festival estivi, italiani e non, se li contendono.Ma chi ne raccoglierà il testimone artistico? Parte da qui una disamina di dieci nomi compresi in una fascia d'età che comunque rimane sotto i quarant'anni, con una esclusione eccellente, quella di Francesco Cafiso, perchè ormai universalmente conosciuto.Che pensare di articoli cosi' costruiti ? Spesso sono raffazzonati ed evidenziano la poca confidenza dell'autore con la materia. Altre volte invece, più o meno volontariamente, possono offrire spunti per qualche riflessione. E' questo il caso, grazie alle parole di Piero Delle Monache, uno dei dieci new talent che il giornalista nomina: «Lo stato di salute del jazz italiano è molto buono! Sia per la qualità, altissima, raggiunta, sia per il suo sguardo internazionale, sia per la sua presenza, ormai consolidata, nei conservatori e finalmente anche per l'organizzazione istituzionale dei musicisti. Penso al Midj, al dialogo con la Siae, al più recente protocollo d'intesa firmato da Paolo Fresu e dall'ex ministro Franceschini e alla nascita della Federazione nazionale del jazz. Nello stesso tempo però, purtroppo, i festival storici soffrono del mancato rinnovamento del pubblico (sempre più anziano) e gli spazi per gli artisti più giovani e ancora poco noti non sono molti. Morale della favola: cosa ce ne facciamo di accordi siglati e centinaia di nuovi diplomati in Jazz, se poi le opportunità di lavoro sono poche e difficili da cogliere? Dobbiamo ripensare al sistema musica nella sua interezza, la strada è ancora lunga». Delle Monache centra il problema: se i direttori artistici dei festival italiani sono obsoleti e vetusti nelle loro scelte, ben difficilmente richiameranno un pubblico più giovane, tantomeno daranno spazio ai nomi emergenti (a proposito, tra i dieci nominati ne mancano molti che sono a pieno titolo molto più interessanti di alcuni di quelli proposti, ma tant'è, un elenco minimo è sempre poco rappresentativo di una realtà). Rimane poi da chiedersi come mai, se la salute è molto buona, un numero considerevole di musicisti italiani cerca sempre più frequentemente fortuna all'estero. Forse perchè nei festival vengono chiamati sempre gli stessi nomi ? Pigrizia unita a esigenze di botteghino, un binomio micidiale che poi inevitabilmente ricade sul pubblico, sempre più abituato ad "andare sul sicuro" e poco propenso a scoprire quanto di buono e di diverso c'è tra le nuove leve. E mentre la nascita della Federazione nazionale del jazz è sicuramente fatto positivo, c'è ancora da chiedersi (come fa lo stesso Delle Monache) che valore può avere (e quanta enfasi venne data alla notizia!) quel protocollo di intesa Franceschini/Fresu ora che il governo pentafelpato ha come massimo ideale musicale il festival della musica celtica ed il PD sembra avere le stesse probabilità di estinzione della foca monaca. Non rimane che condividere e sottolineare l'ultima frase del sassofonista pescarese. Link: https://www.gqitalia.it/show/musica/2018/08/08/top-10-del-jazz-italiano-del-futuro/?refresh_ce= |
Post n°4051 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
La serata finale del decimo Ambria Jazz ha visto all'opera un trio speciale in una location notevole, lo scalo ferroviario di Tirano con le motrici d'epoca, ed è stato salutato da un largo successo di pubblico. La musica dal canto suo ha mantenuto tutte le promesse legate ai nomi del trio Dream Weavers, composto dal chitarrista franco vietnamita Nguyen Le, dal percussionista francese di origini martinicane Mino Cinelu e dal soprano di Gavino Murgia, artista in residence e vero mattatore del festival. Tre provenienze estremamente diverse, con radici quanto mai lontane tra di loro, potevano dar vita ad una esibizione di talento un pò arida e fine a se stessa, oppure, come avvenuto domenica sera, integrarsi e sollecitarsi reciprocamente in una continua alchimia di suoni, compreso il canto creolo ed il tenores sardo, il tutto innervato da un corposo linguaggio jazzistico. L'inizio è folgorante: un cielo stellato creato dalle elettroniche sul quale Le dispensa poche note sgocciolanti e Murgia fa volare il soprano su paesaggi che non possono non richiamare le migliori pagine di John Surman. Una sonorità controllata, potente evocatrice di emozioni, un linguaggio estremamente comunicativo e contemporaneo pur attingendo a sonorità ancestrali. Tutte le composizioni, scritte dai tre musicisti, rimangono su un piano squisitamente jazzistico, dalla forte componente ritmica sollecitata a turno dalla chitarra elettrica di Le, esuberante ma controllata, e dalle percussioni minimaliste di Cinelu: un piatto, il cajon, uno strumento di origine peruviana divenuto protagonista indiscusso nella musica flamenca contemporanea grazie a Paco De Lucia, ed un pad elettronico, oltre naturalmente a campanellini e sonagli di varia foggia e dimensione. Un set potente e controllato, un pugno di composizioni ispirate dall'impronta personale, assoli coinvolgenti e un utilizzo delle elettroniche misurato e comunicativo. Un bel gruppo, la cui evidente gioia di suonare insieme ha fatto non solo da collante ma si è propagata al pubblico, rendendo la serata indimenticabile. Non rimane che attendere con ansia l'uscita dell'album annunciato per l'etichetta S'Ard Music. Mentre me ne sto andando il trio, richiamato a gran voce sul palco, inizia a suonare Confians, il meraviglioso brano in lingua creola dal testo bellissimo ( http://www.marok.org/Elio/Discog/confians.htm ) che Cinelu registrò con i Weather Report sull'album Sportin Life. Una magnifica chiusura del concerto e del festival. |
Post n°4050 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
Very excited that this comprehensive & authoritative new volume is in the final stage of production & will be set up at the printer very shortly. It will publish next month - pre-order here: https://bit.ly/2H440ug @isdistribution @europejazznet @europe_creative @AlynShipton
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Post n°4049 pubblicato il 07 Agosto 2018 da pierrde
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Post n°4048 pubblicato il 06 Agosto 2018 da pierrde
Brad Meldhau, piano; Larry Grenadier, basso; Jeff Ballard, batteria. Rocca Malatestiana di Fano, 21 luglio 2018, Fano Jazz by the Sea Sono sempre stato convinto che Meldhau sia in qualche modo sottorappresentato discograficamente e tutte le precedenti ripetute occasioni di ascolto live mi hanno confermato in questa opinione. In passato mi aveva colpito soprattutto la maggiore scioltezza e lo slancio del leader, ma questa volta la sorpresa è stata ben maggiore. Sin dai primi momenti del concerto è stata evidente una marcata e profonda connotazione blues del pianismo di Meldhau: un blues raffinato, ma comunque di radici profondissime e sentite. In tutto il ricchissimo set hanno continuato a balenare evocazioni sottili ma inconfondibili: hanno risuonato echi stride, Bud Powell e Parker hanno fatto baluginanti, istantanee apparizioni. Meldhau ha nella testa e nelle mani tutta l'anima più vitale ed inquieta della musica afroamericana. Altra novità spiazzante è stata costituita dal marcato carattere percussivo del pianismo di Meldhau, che fatalmente portava con sé un fraseggio molto più nervoso e quasi puntillistico, e comunque del tutto alieno da una certa maniera elegiaca e crepuscolare che molti gli imputano come un cliché ormai risaputo. Un vago termine di paragone per l'exploit offerto a Fano dal pianista americano può esser costituito dall' "Airegin" incluso nel suo "Where do you start" (2012). Solo la collaudatissima intesa con Larry Grenadier al basso e Jeff Ballard alla batteria ha consentito di canalizzare con risultato d'insieme strutturalmente solido ed ineccepibile l'inarrestabile, adrenalinico flusso di energia che scaturiva dal leader: ma sia il batterista con sequenze melodiche piene di colori, che il bassista con interventi di autorevole eloquenza si sono conquistati spazi personali di rilievo. Una menzione particolare è però dovuta a Grenadier, che ha aperto con prestazione superlativa un festival che ha visto poi sfilare un'intera serie di bassisti di gran classe ed impegnati in ruoli di grande impegno (con una sola eccezione...) L'emozionante, adrenalinico set del trio, oltre a donare a Fano Jazz una ouverture difficilmente dimenticabile anche per chi come me aveva ampia confidenza con la sua musica (dono più che meritato, come emergerà dalle cronache successive), avrebbe potuto costituire istruttiva esperienza per due particolari categorie di ascoltatori. Una è quella dei direttori artistici di festival, che avrebbero potuto ritrarre opportune lezioni circa la capacità di attrazione e coinvolgimento di una musica pur raffinata e complessa su di un pubblico in larga parte non specialistico, ma da tempo abituato dal Festival ad un ascolto 'a mente aperta' (nell'occasione, gli appassionati di vecchia data si riconoscevano a prima vista, a momenti 'ballavano' sulle sedie....). Il fatto è che Brad è forse l'ultima incarnazione del jazzman purosangue, totalmente identificato e risolto nella sua musica, e l'intensità e la sommessa passionalità della sua scommessa vengono percepite senza difficoltà ed esitazioni anche da un pubblico semplicemente colto e curioso. E qui veniamo alla seconda categoria di ascoltatori, i molti che di fronte alla musica di Meldhau e del suo trio arricciano il naso da tempo, lievemente, per carità, ma sempre visibilmente. Un ascolto spassionato ed obiettivo del trio nella sua dimensione 'live' rivelerebbe con chiarezza che la sua musica ed il suo approccio lo fanno rientrare limpidamente e senza sforzo del nucleo irriducibile di un canone jazzistico contemporaneo, un nucleo forse recondito e sepolto, ma che continua ancora a pulsare.
Franco Riccardi |
Post n°4047 pubblicato il 05 Agosto 2018 da pierrde
Da "The meaning of Jazz" di Boob McNut - anni '20 ...e a proposito di vecchi babbioni (vedi post precedente e, ad ogni buon conto, "vecchio babbione" lo intendo nella declinazione più benevola e comprensiva), non è male nemmeno questa: Il jazz infatti ebbe, come tutti i fenomeni culturali, un influsso sul costume e quindi anche sulla morale dell'epoca. Dal 1910, quando nacque la fase denominata "New Orleans" allo swing e poi il "cool jazz" (né ballabile né cantabile) fu accompagnato e stimolato il libero amore, la libertà dei costumi, il gusto dell'improvvisazione, l'emancipazione femminile, la dominanza dell'amore sessuale su quello romantico. Non l'ha scritto Mario Adinolfi come sarebbe lecito supporre bensi' .... |
Post n°4046 pubblicato il 05 Agosto 2018 da pierrde
"Il mio spirito non è mai cambiato, amo il jazz che è la cosa più importante per me. Lo amo ora come sessanta anni fa quando iniziai. Purtroppo è il jazz a essere cambiato. Quello di oggi è terribile, non si può sentirlo. Io amo quello degli anni Venti. Non l'ho mai tradito e neanche lui me. Quello di oggi non mi piace. Un discorso che non vale solo per il jazz. È così per tutte le arti: cinema, teatro, musica leggera. Non vado più in giro. Me ne sto a casa a vedere i film del passato remoto e ad ascoltare i miei dischi. Altrimenti se uscissi mi verrebbe l'esaurimento nervoso». Lino Patruno, intervista al Corriere di Novara
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Oggi torniamo indietro al 1981, quando venne pubblicato "Amarcord Nino Rota" dal produttore Hal Willner. Un album che conservo ancora in formato vinile e che ascolto spesso, fonte inesauribile di suggestioni. Trentasette anni dopo rimane un disco di riferimento e uno dei più grandi album tributo mai prodotti e meglio riusciti. Diamo uno sguardo alla realizzazione di questo disco, che è stato appena ripubblicato da Corbett vs Dempsey, con un'intervista a Hal Willner, e ascoltiamo brani da alcuni dei suoi altri progetti tributo (a Monk, Mingus, Ginsberg e ai film di Walt Disney ). Due ore di fantasia e godimento auditivo. La playlist include musiche di Nino Rota, Thelonious Monk, Charles Mingus, Kurt Weill, interpretati da Jacki Byard, George Adams, Wynton & Branford Marsalis, Kenny Barron, Ron Carter, Dave Samuels, Carla Bley, Bill Frisell, Steve Lacy, Allen Ginsberg, Was (Not Was), Sun Ra, Greg Cohen, Vernon Reid, Geri Allen, Don Byron, Art Baron, Chuck D, Henry Rollins, Charlie Watts, The Uptown Horns. Curiosamente la Radio di Brooklin che propone queste delizie si chiama....Mondo Jazz ! La playlist dettagliata è disponibile su https://spinitron.com/radio/playlist.php?station=rfb&month=Jul&year=2018&playlist=7311#here L'ascolto è invece sul sito di Mixcloud, qui: https://www.mixcloud.com/RadioFreeBrooklyn/mondo-jazz-ep-35-hal-willners-nino-rota/
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Post n°4044 pubblicato il 31 Luglio 2018 da pierrde
Nel corso degli ultimi anni, l'arte al pianoforte di Franco D'Andrea Nella difficoltà,o impossibilità, di raccogliere tutti i richiami, gli accenni tematici
Occasione propizia anche per l'annuncio del vincitore Prima del concerto di D'Andrea c'è stato spazio per una breve vetrina del vincitore 2017 del Premio, il trombonista vicentino Filippo Vignato il quale, accompagnato al A Borgotaro, oltre alla musica, molta commozione nel ricordo di Gaslini,e la conferma di un'iniziativa che di anno in anno sta affermandosi come realtà prolifica e propagatrice Andrea Baroni |
Post n°4043 pubblicato il 30 Luglio 2018 da pierrde
Di tutt'altra pasta il cartellone del sabato sera. Si inizia con un trio inconsueto e, fin dalla strumentazione, di stampo decisamente più etnico. Elias Nardi all'oud, Daniele Di Bonaventura al bandoneon e Ares Tavolazzi, glorioso bassista degli Area, al basso elettrico. Una musica che investe molto sulla forma, sulla bellezza del suono e sull'estetica complessiva del progetto, ma, almeno alle mie orecchie, priva di beat, di poca presa emozionale, suggestiva quanto epidermica. Ma non prendetemi sul serio, in maniera evidente i miei gusti sono del tutto fuori moda perchè il pubblico ha tributato in maniera compatta un caloroso successo al trio.
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Andrea Baroni
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