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Il Trecentonovelle 59-65

Post n°1325 pubblicato il 07 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LIX (frammento)

... e presso a quel luogo era fatta una fossa per sotterrare un pellegrino. Il signore, veggendo questo, dice:
- Che questione è questa?
Dicono i contadini:
- Signor nostro, egli è morto qui un pellegrino, il quale alcuna cosa non troviamo ch'egli abbia di che si possa sotterrare. Noi, per meritare a Dio, abbiamo fatta la fossa; preghiamo il prete rechi la croce e' doppieri, acciò che lo sotterriamo; e' dice che vuol denari, e mai non lo farà altramente; e 'l cherico dice peggio di lui, e hacci voluto quasi dare.
Disse il signore:
- Venite cià, o messer lo prete, e voi messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?
Dice il prete e 'l cherico a un tratto:
- Signore, noi dobbiamo avere el debito nostro.
Disse il signore:
- E chi vel de' dare? il morto che non ha di che?
Ed e' risposono:
- Noi dobbiamo pur avere il debito nostro, chi che ce lo dia.
Disse il signore:
- E io vel darò io: debito vostro è la morte; dov'è il morto? adugélo qua; mettetel nella fossa: pigliate 'l prete; cacciatel giú: dov'è il cherico? mettetel su; mo tira giú la terra.
E cosí fece sotterrare il prete e 'l cherico sul morto pellegrino, e andò a suo viaggio.
E stato alcun dí a questo suo luogo, ritornò a Melano; e tornando per una via, dov'era un'altra delle sue prigioni ed era su l'ora di terza, gli prigioni, che aveano sentito il beneficio ch'egli avea dato agli altri, sentendo il signore passare, cominciorono a gridare:
- Misericordia, misericordia.
Quelli ristette, dicendo:
- Che è quello?
Il guardiano si fece innanzi.
- Signore, sono li prigionieri, che vi domandono misericordia.
Disse il signore:
- Sí, hanno apparato dagli altri.
Chiamò uno de' suoi famigli da cavallo, e disse:
- Va', metti in prigione questo guardiano cogli altri, e guarda la prigione tu, e fa' che tu non déi né mangiare né bere ad alcuno di loro, se io non torno da Chiaravalle, là dove io andrò com'io avrò desinato; e guarda che tu faccia ciò che io dico, ch'altrimenti io t'impiccherò per la gola.
Come detto, cosí fatto. Il signore andò a desinare, e come ebbe desinato, montò a cavallo e andò a Chiaravalle, dove è una gran badía, e uno bellissimo abituro per lo signore: e stato là tutto quel dí e l'altro, alla reina venne grandissimo male; di che subito gli fu mandato a dire. Come lo sentí, che cosí avea d'usanza, benché fosse di notte, subito fu mosso per vicitar la reina; e questo credo fosse fattura di Dio, perché quelli prigioni non morissono, ch'erano già stati quarantadue ore sanza mangiare e sanza bere, avendovi di quelli già che cominciavono a balenare. Tornato che fu, ebbono tutti mangiare e bere, come poteano, ringraziando tutti il loro Creatore.
Or queste tre cose avvennono, si può dire, in un piccol viaggio: la prima fu di gran carità, e volle che fosse sí valida ch'ella valesse eziandio a chi v'era per debito: la seconda fu mossa da justizia, e fu seguita con gran crudeltà: la terza fu sdegno, e tòr materia che ogni dí non avessi avvenire.
Non notando quelli comuni queste cose che sempre stanno in cacciare l'uno l'altro, e non vogliono vicino, non conoscendo il bene che Dio ha dato loro.


NOVELLA LX

Frate Taddeo Dini, predicando a Bologna il dí di Santa Caterina, mostra un braccio contro a sua volontà, gittando un piacevol motto a tutta la predica.

Molte volte interviene che delle reliquie si truovano assai inganni, come poco tempo intervenne a' Fiorentini. Avendo aúto di Puglia un braccio, il quale fu dato loro per lo braccio di santa Reparata, e facendolo venire con gran cerimonia, e mostrandolo parecchi anni per la sua festa con gran solennità, nella fine trovorono il detto braccio esser di legno.
Era adunque frate Taddeo Dini dell'ordine de' Predicatori, valentissimo uomo, il dí di Santa Caterina a Bologna; e al monistero di Santa Caterina per la festa la mattina predicando, avvenne che, compiuta la predicazione, anzi che scendesse del pergamo e pervenisse alla confessione, con molti torchi gli fu recato un forzieretto di cristallo, coperto con drappi, dicendo:
- Mostrate questo braccio di santa Caterina.
Frate Taddeo, che non era smemorato, dice:
- Come il braccio di santa Caterina! Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il suo corpo glorioso, intero con le due braccia e con tutte l'altre membra.
Dissono quei pretoni:
- Bene sta; noi tegnamo che questo sia veramente il suo braccio.
Frate Taddeo con chiare ragioni diceva non esser da mostrarlo. La Badessa, sentendo questo, lo mandò pregando il dovesse mostrare; però che, se non si mostrasse, la devozione del monastero si perderebbe. Veggendo frate Taddeo che pur mostrare gli lo convenía, aprí il forzierino, e recatosi in mano il detto braccio, disse:
- Signori e donne, questo braccio che voi vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa Caterina. Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il corpo di santa Caterina tutto intero, e massimamente con due braccia; s'ella ne ebbe tre, quest'è il terzo -; cominciando con esso a segnare in croce, come si fa, tutta la predica.
Gl'intendenti di questo risono, parlando tra loro; molti uomini e feminelle semplici si segnarono devotamente, come quelli che non intesono frate Taddeo, né avvidonsi mai di quello che avea detto.
La fede è buona e salva ciascuno che l'ha; ma veramente solo il vizio dell'avarizia fa di molti inganni nelle reliquie; che è a dire che non è cappella che non mostri aver del latte della Vergine Maria! ché se fusse come dicono, nessuna sarebbe piú preziosa reliquia, pensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa non rimase in terra; ed e' si mostra tanto latte per lo mondo, dicendo esser del suo, che se fosse stata una fonte ch'avesse piú dí rampollato, quello si basterebbe. Se se ne potesse far prova, come frate Taddeo fece del detto braccio, ciò non avverrebbe. Ora la fede nostra ci fa salvi; e chi archimia sí fatte cose, ne porta pena in questo o nell'altro mondo.


NOVELLA LXI

Messer Guglielmo da Castelbarco, perché un suo provvisionato mangia maccheroni col pane, gli toglie ciò che con lui molti anni ha guadagnato.

Nelle contrade di Trento fu già un signore, chiamato messer Guglielmo da Castelbarco, il quale, avendo seco uno (secondo ch'io già udi') a provvisione, ch'avea nome Bonifazio da Pontriemoli, e volendoli sommo bene, però che lo meritava, come valente uomo ch'avea guidato suo' dazi e gabelle; e per questa sua provvisione, e per l'utile delli officii, facendo pur lealmente, era divenuto ricco di forse sei mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signore, e con altra sua brigata, essendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri innanzi a ciascheduno, essendo venuto il cosso al signore, e veggendo il detto Bonifazio mangiare li maccheroni col pane, ed era carestia ne' detti paesi, subito comandò a' suoi sergenti che 'l detto Bonifazio fusse preso; li quali mossi, subito il presono. Costui, maravigliandosi, dice:
- Signor mio, che cagione vi muove a farmi pigliare cosí furiosamente?
Dice il signore:
- Tu 'l saprai bene: dunque mangi tu il pane col pane? e guardi d'affamare il mondo, che vedi il caro esser sí grande? e credi che io sia un matto, e non me ne avveggia?
Bonifazio, udendo la cagione, credette il signore facesse per aver diletto, e quasi cominciò a sorridere.
Disse il signore:
- Tu ridi, ah? io ti farò ben rider d'altro verso. Menatelo là alla prigione, e guardate non fuggisse.
Fu menato costui e messo nella prigione; e ivi a pochi dí fu condennato in lire sei mila di bolognini, per aver voluto turbare lo stato, non che di lui, ma di tutta la sua provincia, e spezialmente per fame. Convenne che costui rimettesse ciò che mai avea acquistato con lui, e quello che egli avea a casa sua, e pagò i detti danari, gittandogli il signore parole, come grandissima grazia gli aveva fatta di non averli tolta la vita.
Stia dunque co' signori a bastalena chi vuole; che per certo, chi non si sa partir da loro, e sta con essi a bastalena, rade volte ne capita bene, come a molti è intervenuto, come contar si potrebbe. Questo messer Guglielmo ancora tolse ciò avea un suo famiglio o sottoposto perché avea fatto metter l'arme sua in una pietra da camino, opponendo che l'aveano messa al fumo, perché l'affogasse. Poi ebbe quello che e' meritava... il feciono morire in prigione.


NOVELLA LXII

Messer Mastino, avendo tenuto uno provisionato a far sua fatti, e parendogli che fusse arricchito, domanda veder ragione da lui, il quale con nuova malizia fa ch'egli è contento non rivederla.

Ne' tempi che messer Mastino signoreggiava Verona, gli capitò alle mani uno ch'era come uno per fante a piede, a fare suoi servigi; il quale come pratico ed esperto stato ben venti anni, facendo ancora molto bene i fatti del signore, diventò ricco. A messer Mastino venne l'appetito che venne a messer Guglielmo nella precedente novella; e pensossi di domandare di veder ragione da costui, e cosí fece; ché lo chiamò una mattina e disse:
- Vien cià, va', apparecchia tutte tue scritture de' fatti miei che ti sono pervenuti per le mani, poi che tu fusti nella corte mia.
Al buon uomo parve essere impacciato, pensando non poter mai mostrare al signore quello che dimandava; ma pure rispose:
- Datemi respitto, e io penserò di soddisfare al vostro comandamento.
Ed egli disse:
- Va', e quando hai le cose preste, vieni; e io darò ordine chi debba per me esser con teco a vedere le dette ragioni.
 Rispose costui:
- E' sarà fatto, signor mio.
Tornasi a casa e partesi dal signore, e pensando e ripensando, quanto piú pensava piú gli pareva essere impacciato; e guardando per casa, ebbe veduta la rotella, la cervelliera, uno lanciotto, uno farsettaccio con un coltello, con le quali cose era venuto di prima, quando s'era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo ch'era venuto, e prese quelle medesime arme appunto, in quella forma l'altra mattina senza piú aspettare s'appresentò innanzi a messer Mastino.
Il quale veggendolo, si maravigliò, dicendo:
- Che vuol dir questo, che tu se' cosí armato?
- Signor mio, - disse quello, - voi m'avete comandato che io vi mostri ragione di ciò c'ho aúto a far de' vostri fatti, poi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico cosí, signor mio, che io non veggio modo nessuno ch'io ve la potessi mai mostrare, se non questo che voi vedete. Voi sapete, signor mio, che quando io venni al vostro servigio, io era povero mascalzone, con quello in dosso, e con quelle povere armicelle, con le quali mi vedete al presente. E per tanto la ragione è fatta; nessuna altra cosa, che quello che io ci recai, me ne porterò; e cosí me n'andrò povero, com'io ci venni: tutto l'altro mio rimanente, e la casa, con ciò che v'è dentro, lascio alla vostra signoria.
Messer Mastino, come savio signore, considerando l'avvedimento e modo di costui, disse:
- Non voglia Dio, che io ti tolga quello che hai con me guadagnato; va', e fa' lealmente e' fatti miei, e da mo innanzi non aver pensiero che io ti vegna mai meno.
Costui ringraziò el signore; e parvegli aver avuto buon modo a mostrar la detta ragione; e stette nella corte di messer Mastino tutto il tempo della vita sua, e fugli piú caro che altro uomo ch'egli avesse.
Or considera, lettore, quant'è ignorante chi fa lunga dimora nella corte d'uno signore, e come in uno punto e' si volgono e disfanno altrui.
E guarda s'egli è pericoloso, ché, sognando che un servo l'uccida, sel reca a vero e disfallo. E però chi si può levar dal giuoco, quando ha piena la tasca, non vi stia a guerra finita; però che la maggior parte ne rimangon disfatti, come apertamente per molti si poría vedere.


NOVELLA LXIII

A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo dipinge per forma che colui rimane confuso.

Ciascuno può aver già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un grossolano artefice, e avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere uno suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il palvese drieto, e giunto dove trovò Giotto, disse:
- Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese.
Giotto, considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro, se non:
- Quando il vuo' tu? - e quel glielo disse.
Disse Giotto:
- Lascia far me.
E partissi. E Giotto, essendo rimaso, pensa fra sé medesimo: "Che vuol dir questo? serebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che 'l reca è uno omicciatto semplice, e dice che io gli facci l'arme sua, come se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme". E cosí pensando fra sé medesimo, si recò innanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e cosí fece. La qual dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, e una lancia.
Giunto il valente uomo che non sapea chi si fosse, fassi innanzi e dice:
- Maestro, è dipinto quel palvese?
Disse Giotto:
- Sí bene; va', recalo giú.
Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto:
- O che imbratto è questo, che tu m'hai dipinto?
Disse Giotto:
- E' ti parrà ben imbratto al pagare.
Disse quelli:
- Io non ne pagherei quattro danari.
Disse Giotto:
- E che mi dicestú che io dipignessi?
E quel rispose:
- L'arme mia.
Disse Giotto:
- Non è ella qui? mancacene niuna?
Disse costui:
- Ben istà.
Disse Giotto:
- Anzi sta mal, che Dio ti dia, e déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse: "chi se' tu?" appena lo sapresti dire; e giungi qui, e di': "Dipignimi l'arme mia". Se tu fussi stato de' Bardi, serebbe bastato. Che arma porti tu? di qua' se' tu? chi furono gli antichi tuoi? deh, che non ti vergogni! comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n'è piú alcuna, dillo, e io la farò dipignere.
Disse quello:
- Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese.
E partesi, e vassene alla grascia e fa richieder Giotto.
Giotto comparí, e fa richieder lui, addomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni gli officiali, che molto meglio le diceva Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo cosí dipinto e desse lire sei a Giotto, però ch'egli avea ragione: onde convenne togliesse il palvese, e pagasse, e fu prosciolto.
Cosí costui, non misurandosi, fu misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi tali, che li loro padri seranno stati trovati agli ospedali.


NOVELLA LXIV

Agnolo di ser Gherardo va a giostrare a Peretola, avendo settanta anni, e al cavallo è messo un cardo sotto la coda; di che movendosi con l'elmo in testa, il cavallo non resta, che corre insino a Firenze.

Non è gran tempo che in Firenze fu un nuovo pesce, il quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardo, uomo quasi giullare, che ogni cosa contraffacea: e usando con assai cittadini, che di lui pigliavono diletto, ed essendo andazzo di giostrare, andando con certi a Peretola che andavano per ciò fare, giostrò anco elli, e avea accattato un cavallaccio di quelli della Tinta di Borg'Ognissanti, che era una buscalfana, alto e magro, che parea la fame. Giunto a Peretola, el brigante si fece armare, ed era dalla parte di là dalla piazza sí che veniva a correre verso Firenze. E messogli l'elmo in testa, e data l'asta, e appiccatogli un cardo sotto la coda, fu tutt'uno. Era la sella altissima: altro non era a vederlo, se non un elmo nella sella, che parea colui, cui elli piú volte in brigata raccontava.
Mosso la scuccumedra con Agnolo suvvi, e sentendo il cardo, si comincia a lanciare e a percuotere Agnolo or qua or là negli arcioni, sí che l'asta si rassegnò in terra, e 'l cavallo, scagliandosi e traendo, comincia a correre verso Firenze. Tutti quelli dattorno scoppiavono delle risa. Agnolo non tenea ridere, però che si sentía dare i maggior colpi del mondo negli arcioni, e cosí essendo lacerato ad ogni passo e percosso, giunse alla Porta del Prato, ed entrò dentro, correndo e nabissando che fece smemorare e' gabellieri; e giú per lo Prato, che ogni uomo e femina per maraviglia diceano: "Che vuol dir questo?", entrò nel Borgo Ognissanti.
Or quivi era la fuggita e da' lanci e da' calci del cavallo! ognun fuggendo e gridando:
- Chi è questi? che fatto è questo?
E cosí non restette mai il cavallo che giunse alla Tinta, dov'era il suo albergo, là dove il cavallo fu preso per le redine e menato dentro.
Essendo domandato: "Chi se' tu?", colui soffiava e doleasi: dilacciarongli l'elmo, e quel grida e duolsi:
- Oh me, fate piano.
E cosí trattogli l'elmo, il capo di Agnolo parea uno teschio, o uno uomo morto di piú dí.
Fu tratto della sella con fatica d'altrui, e con dolor di lui; ed egli, pur dolendosi, per nessun modo si potea sostenere in piede; onde fu condotto su uno letto; e giunto di fuori colui di cui era e la casa e 'l cavallo, quando tutto seppe, scoppiava di risa. E giugnendo dove Agnolo era, dice:
- Oh, io non credea, Agnolo, che tu fussi Gian di Grana, e che tu giostrassi, almeno me l'avestú detto quando tu accattasti el mio cavallo, che mel déi aver guasto, però che non era da giostra.
Disse Agnolo:
- Guasto ha egli me, che mi par restío: s'io avessi aúto un buon cavallo, io avrei dato a colui una grande scigrignata, e avrei aúto onore, dove io sono vituperato. Io ti prego per Dio che tu mandi per li panni mia a Peretola, e fa' dire a que' giovani che io non m'ho fatto mal niuno, però che la buon'arme m'ha campato.
E cosí fu mandato per li suoi panni, che vennono con essi tutti quelli che di lui avevono aúto in ciò diletto. E giunti ad Agnolo dicono:
- Oimè, ser Benghi (ché cosí era chiamato) se' tu vivo?
- O fratelli miei, - dicea quelli, - io non vi credetti mai rivedere: io sono tutto lacero; quel maladetto cavallo m'ha morto; io non provai mai peggior bestia; quando io v'era su, mi parea esser la secchia de' vasgellai; io debbo aver rotta tutta la sella e le corazze; dell'elmo non ti dico, che talora si percotea su la sella per forma che de' esser tutto rotto.
Se la brigata rideva, non è da domandare. Alla perfine il vestirono la sera al tardi, e a braccia il condussono a casa sua; là dove correndo la donna all'uscio, cominciò il pianto, come se fusse morto, dicendo:
- Oimè, marito mio, chi t'ha fedito?
Agnolo non dicea alcuna cosa; la moglie pur domandava:
- Che è questo?
Dicevano i compagni:
- Non è cosa che vi bisogni piagnere.
- E lasciatolo, s'andarono con Dio; e la donna abbracciando Agnolo, comincia a dire:
- Marito mio, dimmi quel che tu hai.
E Agnolo chiese d'entrar nel letto; il quale la donna spogliandolo e veggendolo tutto livido, disse:
- Chi t'ha cosí bastonato?
E' parea il corpo suo o di profferito o di marmorito, tanto era percosso.
Alla fine ritornato l'alito ad Agnolo, disse:
- Donna mia, io andai con una brigata a Peretola, e convenne che ciascuno giostrasse; io, per non esser piú tristo che li altri, e pensando a' miei passati da Cerretomaggio, volli giostrare anch'io; e se 'l cavallo ch'era restío, e hammi concio come tu vedi, fusse stato buono, io avea oggi maggior onore che uomo che portassi mai lancia già fa parecchi anni.
La donna, ch'era savia, e conoscea le frasche d'Agnolo, comincia a dire:
- Sí, che tu se' uscito della memoria affatto, o vecchio mal vissuto; che maladetto sia il dí ch'io ti fu' data per moglie, che mi consumo le braccia per nutricar li tuo' figliuoli, e tu, tristanzuolo, di settanta anni vai giostrando: o che potrestú fare, che a ragione di mondo non pesi dieci once? Va' va', che ora serai tu messo nel sacco de' priori, che n'ha' pisciato cotanti maceroni. Ed è peggio, che, perché tu se' chiamato ser Benghi, di' che tu vi se' per notaio. Doh tristo, non ti conosci tu? e se questo pur fosse, quanti notai ha' tu veduto giostrare? Se' tu fuori della memoria? Non consideri tu, che tu se' lavorante di lana, e altro non hai, se non quello che tu guadagni? Se' tu impazzito? Deh, va', ricollicati, sventurato; ch'e' fanciulli ti verranno oggimai drieto co' sassi.
Agnolo con voce lena dice:
- Donna mia, tu di' che io mi ricolichi; dolente sono, che m'è convenuto collicare; io ti prego che tu stia cheta, se tu non vuoi ch'io muoia affatto.
E quella dice:
- Or fustú morto, innanzi che vivere con tanto vituperio.
Dice Agnolo:
- O son io il primo, a cui venga sciagura ne' fatti d'arme?
- Deh, va' col malanno, - disse la moglie - va', scamata la lana, come tu se' uso, e lascia l'arte a quelli che la sanno fare.
E non restette insino a notte la contesa; e la notte pure si rabbonacciorono come poterono. Agnolo mai non giostrò piú.
Molto fu piú savia questa donna che il marito; però che ella conoscea lo stato suo, e quello del marito; ed elli non conoscea solo sé: se non che la moglie gli disse tanto che giovò.


NOVELLA LXV

Messer Lodovico da Mantova per una piccola parola, che per sollazzo dice un suo provisionato, gli toglie ciò ch'egli ha.

Ancora mi viene innanzi come piccola cagione muove un signore a dar la mala ventura altrui. Essendo messer Lodovico di Gonzaga signore di Mantova, uno suo provisionato avea detto con certi altri, piú per diletto che per altro "Signore è vino di fiasco, la mattina è buono, e la sera è guasto". La detta parola fu rapportata al signore; sí come spesso interviene, per venire in grazia del signore sempre vi sono li rapportatori. Udendo ciò messer Lodovico, fece chiamare a sé quel provisionato, e disse:
- Mo mi di'; ha' tu detto le ta' parole?
Quel rispose:
- Signor mio, sí; ma le parole mie non furon dette se non per motto, però che altra volta l'udi' dire a un valente uomo.
Disse il signore:
- Sí che tu di' che dicesti per motto, e non ti pare avere detto alcun male; e ha' mi nominato e appareggiato con un fiasco di vino. In fé di Dio, io ho voglia di farti giuoco, che sempre te ne verrebbe puzza; ma acciò che tu lo possa ben dire da dovero, spogliati in farsetto, come quando tu venisti a far con mi: e vatti con Dio.
Costui si dileguò in ora, che mai non apparí a Mantova; e lasciò il valer di due mila lire di bolognini, il quale avere tutto si tolse el signore. Cosí intervenne che signore e vin di fiasco, l'uno era vino e l'altro l'ha disfatto.

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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