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Messaggi del 30/12/2014

Rime inedite del 500 (XL)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XL

[1 Di Nino Nini]

Sonetti di Monsignor di Potentia Nino Nini viterbese.

Se 'l buon celeste seme ch'ora spargo

Con quest'impura mia non degna mano,
Piace al signor che non sia sparso invano,
Con dargli poi quel su' incremento largo,

Quasi da grave, eterno, alto letargo
Destar vedrassi oltra poter umano
L'eletto di Dio stuol, di cieco insano
Fatto sagace e socchiuso più d'Argo.

Vedransi ancor per questa fredda falda
Dell'appennin le voci il ciel ferire
Di gente al sant'oprar disiosa e calda.

Egli che può la speme col desire
Adempia e fondi in la gran pietra salda
Che non curin del ciel l'impeto e l'ire.

[2 Di Nino Nini]

Se d'una pianta esce l'agresto e l'uva,
Il primo acerbo e l'altro poi maturo,
D'una radice escon' ambi e d'un seme,
E, se creder si de' quel che i moderni
Scrivon(o), Pepi, son piante diverse
Del nero, e bianco, come ancor dell'uve
E tanto e l'un, come l'altro, maturo;
Né del lungo la pianta ha simiglianza
Con gli altri duoi, sì come ancor del frutto,
Onde bisogna con miglior ragione
Trovar risposta a quei che del soero
E del Pepone in una medicina
Medesma usano il seme e la radice;
Sì che d'altro che burle fa mestiero
Al nostro amico per scior' questo nodo
Senza mandar' in Grecia ambasciadori.

[3 Di Nino Nini]

Pascete, o pecorelle, i dolci campi
Pria che sugga la rugiada il giorno,
Acque pure e correnti avete attorno,
Perché la dura sete non v'avampi.

Né temete di lupo, che vi accampi,
Se il pastor vostro fa con voi soggiorno,
Ché ben vi guarda e teme danno e scorno;
Che s'egli no, chi fia che più vi scampi?

Dormite pur senza sospetto, o pena,
O ritornate al buon pasto di pria
Che franga il dente un'altra fiata e prema.

Così dicea il pastor, e già s'aprìa
L'ora del giorno e fuggìa l'altra estrema
Et attenta la greggia sua l'udìa.

[4 Di Nino Nini]

Canzone dello stesso.

Sì dilettosa valle, o colle ameno
Non vide forse mai Cipro, né Cinto
Quanto quel ch'io mirai mentre al ciel piacque.
Quivi era più che altrove il ciel sereno,
Quivi il terren più verde e più dipinto;
L'aura più grata e più salubri l'acque,
Onde nel cuor mi nacque
Alto desìo di farvi albergo eterno,
E 'l pie' fermai; ma fu pensier mal saggio,
Ché quel fiorito Maggio
Tosto cangiossi in bisso, orrido verno,
Dove continua pioggia ancor discerno.
Felice pianta in quel medesmo colle
Fu trasportata, e col favor del loco
Di picciol tronco al ciel s'andava alzando
Quando il sole ha più forza e 'l terren bolle.
Chi s'appressava a la dolc'ombra un poco
Ponea la noia e la stanchezza in bando;
Ivi s'udìa cantando
Febo scordato del suo lauro verde
Tesser' d'olmo ghirlande a le sue chiome,
Ed ecco, non so come,
Riman negletta e la vaghezza perde,
E serba appena del suo ceppo il verde.
Fior d'un bosco sacrato e verde sempre
Lasciando il nido ove pur nacque dianzi
Parvoletto leone uscia veloce.
Quell'età par ch'ogni fierezza tempre,
E con questo pensier gli corsi innanzi
Et umano il trovai, più che feroce;
Ma il troppo ardir poi noce,
Perché seco scherzando in un momento
D'ira s'accese, e con turbato aspetto
Squarciommi i panni e 'l petto;
E partissi da me con passo lento
Tal che solo a pensarvi ancor pavento.
D'oro sparso e di gemme alfine scorsi
Purpureo letto, ove dormìa soave
Giovane illustre di ferir già stanco,
Nel cui bel corpo, ove le luci io porsi
Grazia vidi e beltà quant'amor hàve;
Dove ogni stile, ogni pensier vien manco,
Ma sovra l'omer bianco
Volar faville dal mio petto acceso
Nel mirar lui, che 'l mondo accende e sforza
Così, desto per forza,
Via sen' volò quasi d'ingiuria offeso,
Io restar cieco e ne' suoi lacci preso,
Canzon mia, se di questo
Al triste avviso fui mesto a dolente,
Che fia poi che 'l mio danno è già presente?

[5 Di Nino Nini]

Standomi sol co' miei pensieri un giorno
Cose vedea di maraviglia piene,
Che presagio fur' poi d'angoscia e pianto.
Caro armellin di sua bianchezza adorno,
Che pur col pie' facea le piaggie amene,
Vago m'apparve e mi passò d'accanto.
Era leggiadro tanto
Che ciascun' alma nobile e cortese
Bramò d'aver sì bella fiera in mano;
Ma perfido villano
Col fango intorno la rinchiuse e prese
Onde pietate e sdegno il cuor m'accese.
Quasi in quel punto agli occhi miei s'offerse
Dolce, amoroso, candido colombo,
Né tale il carro a la sua dea sostenne
Dal cielo, ove le nubi eran disperse.
Quasi un augel calar vedeasi a piombo
E fender l'aria senza mover penne
Da traverso poi venne
Griffagno augello e di rapina ingordo,
E seco trasse l'innocente e puro
Col fiero artiglio e duro,
Ch'era di furti e d'altre macchie lordo
E sospiro qualor me ne ricordo.

[6 Di Nino Nini]

Sonetti di monsignor Potentia

Ch'aspro dolor vi prema è ben ragione,
Se il vostro danno e il pubblico stimate,
E se quanto vi spinge la pietate,
Di pianto eterno siete alta cagione.

Ma riguardando in chi tutto dispone,
Che ritoglie et in questa e 'n quell'etate
Chiunque egli vuol, ond'è che vi turbate
E divien l'alma qual'è la stagione.

Ché non correte a quel dolce liquore
Che pronto agli altri sovente porgete
Onde salve ne son mille ferute.

Vostra non si può dir quella virtute,
Ch'aita altrui, e 'l vostro gran dolore,
Non lieva, né sanarvi ivi potete.

[7 Di Geremia Guglielmi]

Canzone del Guglielmi.

Benigno amor, che col tuo lume santo
Il tutto allumi e dolcemente reggi,
Priegioti che propizio a me ti mostri,
E dai superni chiostri
Mentre le lodi tue rinnovo e canto
Fa che l'impresa il mio poter pareggi.
Tu che le prime leggi
Di poesia dettasti, oggi a me chiare
Le mostra, e 'l don rivolgi in tuo favore
Acciò che 'l mondo impare
Quanto sei grande e sei divin, o Amore!

[8 Di Cesare Malvicini]

Di Cesare Malvicini.

Per mostrar quanto possa un cuor mortale
Quando per camin dritto al cielo è volto
Colui che a morte con sua morte ha tolto
L'umane gente sì smarrita e frale

Mosse di Catarina esempio tale
Ch'è il mondo tutto in gran stupore involto:
Ne gode il ciel di lei mirando il volto,
Non men qui che lassù fatto immortale.

Di Cristo ella si attese all'aspra vita
Che quant'anni ei portò terrestre soma
Tant'il seguìo pur coi sensi afflitti.

Ei l'alme al cielo, ella i suoi scettri a Roma
Rivolse, e se ei ferito, ella ferita
Si vidde il cor, le mani e i pie' trafitti.

[9 Di Annibale Di Osma]

Di m. Annibal d'Osma.

Il bel raggio, signor, lucente e chiaro
Che il sol delle virtù vostre diffonde,
Cotanto all'alma mia splendore infonde
Che d'ir volando al ciel la strada imparo.

Ecco già già comincia essermi caro,
Assiso all'ombra della sacre fronde
Fra fior diversi e 'l mormorio dell'onde
Far' ingiuria cantando al tempo avaro.

Oh chi fia che mi dette le parole
Pari al pensier, onde la mente è piena,
Mentre al vostro cantar tutta s'accende.

Venga d'Apollo il coro, o, s'egli attende
Per coronarvi il crin, pur, come suole,
Prestatemi il dir voi, l'arte, e la vena.

[10 Di Scipion Da Castro]

Versi sciolti di Scipion da Castro.

Alta cagion, che in un momento desti
Alle cose create ordine e stato,
Stabil motor, fonte dell'esser vero,
Che ti pasci di fuoco e in fuoco alberghi,
Porgi l'orecchio e gira gli occhi insieme
Alle dolenti mie parole estreme.
Voce e lingua son' io degli elementi,
E di quanto è quaggiù sotto la luna,
Io sono, o re del ciel, quella stupenda
Opra della tua man, la qual pur dianzi
Traesti fuor de la confusa massa
Quando in sul carro del tuo amor portato
Era lo spirto tuo sopra gli abbissi
Dell'indigesta mole, or vaga e bella.
Fur' le bellezze mie di così estrema,
Di sì profonda meraviglia all'occhio
Dell'angelica mente, che io talora
Le piacqui al par de' suoi stellanti chiostri,
Perché imagine son di quell'eterne
Idee, che impresse dal tuo raggio han vita
Nel sen dell'increata e prima mente
Per l'altissimo parto a te sol noto.
Ma tra quanto crear giamai ti piacque
Dall'antartico all'Orse nel mio grembo,
Tu sai, padre del ciel, che l'uomo solo
Fo dell'opere tue l'ultimo colmo;
Perché cinto di gloria e d'onor pieno,
Alla sembianza tua lungi da morte
Poco minor degli angeli il formasti
Quasi un signor dell'universo in terra.
Questo fu sol partecipe e consorte
Dell'immortalità fra gli elementi;
A questo sol fu destinato il cielo
(Come spron che sovente il purga e mova)
Il desìo del saper l'eterne cause
Delle cose create, e l'intelletto
Potente a penetrarla, atto ad unirsi
Col su' fattor; e alfin volesti ch'egli
Solo fra quanto scalda e gira il sole
Fusse arbitro dell'opra eccelsa e magna,
Tutto creando a lui, cui per te solo
Il mondo un tempio, egli era un sacerdote
Che delle glorie tue la notte, il giorno
Offrirti il sacrificio sol potea,
Perché sol ti conosce, e sol ti adora.
Oggi è caduto, oggi è caduto, o padre,
Questo gran sacerdote, e fatto servo
Del cieco senso, e del serpente antico;
Oggi nel trasgredir l'alto precetto
Al giusto sdegno, all'ira tua destina
Tutta la massa ne' suoi lombi ascosa
Del seme uman della futura gente.
Questa è la porta, ond'oggi entra nel mondo
Superbamente trionfando morte;
Oggi il peccato al re dell'ombre dona
L'imperio della vita, e nell'inferno
Registra di sua man l'obligo eterno
Dell'immortal morir, che l'uomo ha seco.
Veramente infinita è la sua colpa,
Veramente condegne son le pene,
E giusta veramente è la sentenza.
O autore della vita, mai potrai
Consentir ch'altri ad altro fin rivolga
Questo miracol tuo, quest'opra altera,
Questa sembianza tua, che tanto amasti?
De le tue lodi risonar l'inferno
Non potrà mai; né cosa nel mio seno
Creasti che lodar sappia il tuo nome;
Chi solo il potea far, morte ci ha tolto.
Però sovienmi, alto monarca, come
Tutto quel ch'egli in Dio, è Dio anch'esso,
Né mancar gli si può, né si conviene.
Son dell'essenza tua parti supreme
(Se pur nell'unità si trovan parti).
Con la giustizia, la clemenza insieme,
Queste leggiadre due vaghe sorelle
Fur' sempre teco pria che 'l moto al tempo
Desse principio, e nel formar del mondo
Furno dell'opre tue fide ministre.
Alla giustizia ha sodisfatto a pieno
Oggi conforme al temerario fallo
E 'n giusta parte la sentenzia cadde.
L'altra dormir non può perpetuamente,
O fonte di pietà, nel vostro petto;
Ma sarà forza alfin ch'ella si desti,
Non perché io sappia dir come, né quando
Ch'io non entro per me senz'altra scorta;
Né quegli alati tuoi corrieri ardenti
Né l'infinito mar, ne gli alti abissi
Del tuo profondo incognito consiglio;
Ma sol ti prego, mio signore e padre,
Ch'affretti il tempo, e dal tuo grembo tosto
Si vegga uscir quel desïato giorno
Che la clemenza abbia l'impero in mano.
Si vedran poi delle divine grazie
Tutti i fonti versar, tutte le vene,
Tutti i tesori tuoi partir coll'uomo,
Perché siccome nel formarlo hai vinto
Tutte l'altre stupende meraviglie
Nel riformarlo vincerai te stesso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXIX-3)

Post n°936 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[27 Di Latino Latini]

Alla signora Marchesa di Mortara quando la rividdi perche' già quindici anni non l'avevo veduta.

La suprema beltà che in voi fioriva
Nella più fresca e più tenera etade,
Congiunta con mirabile onestade
Veggio ora in voi più che mai verde e viva.
 
Mercè del gran splendor che dentro arriva
Grazia, onestà, bellezza e majestade
E alluma l'alma, onde per ampie strade
Nell'amata sua spoglia esce e deriva.
 
Ben si può dir che a sì gradita e bella
Virtù che a pochi il ciel largo destina
Non si dovea men onorato albergo.
 
Ond'io per voi, come mia fida stella,
Mirando la sembianza alta e divina
Ogni mia speme a fin più felice ergo.

[28 Di Latino Latini]

Né fra' Greci Platon seppe mai tanto,
Né di Roma l'oracol Cicerone,
Né fra gl'Ebrei quel saggio Salomone
Che lodò più che 'l riso, il mesto pianto,
 
Quanto sapete voi, prudente e santo
Riformatore della religione,
Che d'esser tale con giusta ragione
Potete sovra ognun sol darvi il vanto.
 
Poscia che contro il precetto divino
Che n'astringe ad amar come fratelli
L'un l'altro, e figli dell'eterno padre
 
Ardite d'insegnarci che 'l Latino
Cosa commune aver non de' con quelli
A cui la Duera, o la Garonna è madre.

[29 Di Latino Latini]

Chi sarà mai, signor, che ponga mano
All'osservanza di tua santa legge,
Che per salute dell'amata gregge
Desti, e per fren dell'appetito umano,
 
Se 'l Tosco, Umbro e Latino, e se 'l Romano,
Che 'l vero successor di Pietro regge,
E con pietosa verga ognor corregge
Per barbaro terrà 'l Gallo e l'Ispano?
 
Scancellasti col sangue tuo, signore,
L'orrendo scritto, ch'all'empio tiranno
Ne fe' soggetti dal peccar d'Adamo.
 
A fin che l'un con l'altro, per amore
Così stessem' uniti col dolce amo
Come in un corpo molte membra stanno.

[30 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, scendesti in terra
Per farne tutti eredi del tuo regno,
Vincendo col morir su l'aspro legno
L'empio tiranno nostro in giusta guerra,
 
E col dare a san Pietro, ond'apre e serra
Del ciel la porta non per vano segno;
Ma per sicuro indubitato pegno
Le sante chiavi con che mai non erra.
 
Se sarà mai vero che al Latino
Lecito sia per barbaro e nemico
Tener Gallo, Tedesco, Inglese, o Ispano,
 
E che contro il precetto tuo divino
Non faccia chi non abbia per amico
Come sé stesso ciaschedun cristiano.

[31 Di Latino Latini]

Indarno, signor mio, squarciasti il velo
Del già famoso tempio con tua morte,
E indarno dissipasti l'alta e forte
Maceria per aprirne il passo al cielo.
 
E 'ndarno acceso d'amoroso zelo
Patisti in questa vita ogn'altra sorte,
Seminando per vie lunghe e distorte
La nuova legge del santo evangelo;
 
Poiché nato è Dottor, che con altiero
Ciglio c'insegni esser vano il seguire
L'esempio scritto del Sammaritano.
 
Anzi di proibirci ha preso ardire
L'amico conversar con uomo 'Spano,
Ch'ei per barbaro tiene e per straniero.

[32 Di Latino Latini]

Da che 'l grande Appennin le genti strane
Scurò da questa chiara e bella parte,
Quelle doti ch'agli altri il ciel comparte
Tutte in lei giunse, compite e sovrane.
 
Vinser il mondo già l'armi Romane
Ond'illustri lasciar' mille e più carte;
Successe poi alla città di Marte
Quella, che fa stupir le menti umane.
 
Chiudesi il mare, ove 'l pie' pone e spande
Che la riga, circonda e la difende,
E reverente a lei senz'onda giace.
 
Quivi è quel secol sempre, che le ghiande
Vider già prima, et hor Venezia rende,
Cui senza fin die' Giove imperio e pace.

[33 Di Latino Latini]

La più salda colonna, e la maggiore,
Che sostenesse l'edificio intero,
Che fondò Cristo e consegnollo a Piero,
È rotta, e seco è spento il bel valore.
 
Piangene Roma, e mostrarà dolore
Fin ch'in mar corra il Tebro, e che l'altèro
Tarpèo si nomi, o mentre il santo impero
Conservarà da Cristo il preso onore.
 
Mille e mille anni volgeransi pieni
Pria che di morte si ristauri tanto
Danno, che col crudel colpo n'ha fatto.
 
Degno fu delle chiavi e del gran manto,
Già il ciel non volle, invido ai nostri beni,
Hor le nemiche parche se l'han ratto.

[34 Di Latino Latini]

Quando mi volto tutto in quella parte
Dove l'immensa tua bontà riluce
Mercè del raggio dell'eterna luce
Ch'agli occhi ciechi tua bontà comparte,
 
S'infiamma sì di lei la fragil parte
Ch'al lungo errar mi fu ministra e duce,
Che d'ardenti sospir, ch'ognor produce,
E di lagrime al duol faccio ampia parte.
 
Poscia mirando indietro il gran periglio,
A cui lontan da te fui sì vicino
Raddoppio il pianto e con temenza grido:
 
Pietoso padre, che all'unico figlio
Per me non perdonasti, e 'n cui mi fido,
Volgi i miei passi al tuo dritto camino.

[35 Di Latino Latini]

Che fai, alma, che pensi? Avrà mai tregua
L'avida sete delle furtive acque,
Che già gran tempo in sul fiorir si nacque,
O fia ch'all'ultim'ora ancor si segua?
 
Non vedi che per essa si dilegua
Ogni onesto pensier, che pria ti piacque,
Quando agli orecchi del tuo cuor non tacque
Quella ch'a cori angelici n'adegua?
 
Che fia d'onde di te gravoso pondo
Poscia che per saziar l'ingorda sete
Assai fiume non t'è stagno, o palude?
 
Porrai forte la bocca al mar profondo,
Ove amo mai non penetrò, né rete,
E che la terra in te raccoglie e chiude?

[36 Di Latino Latini]

Quando ai bei raggi dell'eterno lume
Alzerai gli occhi, alma smarrita, e quando
Del lungo error accorta, lacrimando
Sarai breve ruscel, non ch'ampio fiume?
 
E quando dal tiranno empio costume
Il pie' veloce indietro ritirando
Darai pur finalmente un giorno bando
Al pigro sonno, all'ozïose piume?
 
Destati, neghittosa, anzi che l'ombra
Della perpetua notte agli occhi vete
Il mai più riveder l'amata luce;
 
Ch'aver non può la cieca infelice ombra
Dopo l'eterno oblìo del freddo Lete
Per addietro tornar ministra, o duce.

[37 Di Latino Latini]

L'ardita lupa, che da' crudi artigli
Dell'aquila rapace ha scosso il dorso,
E rotto 'l duro e insopportabil morso
Che la tenea fra tanti perigli.
 
Tutta sanguigna, e lieta ai cari figli
Dicea rivolta: hor'è pur tronco il corso
Delle miserie nostre, or' che soccorso
Ne vien' sì fido dagli aurati gigli.
 
Guardate come dagli acuti et empi
Morsi ne tolgon dell'augel' nemico
Tante ferite nel mio corpo impresse.
 
Ergete dunque a questi altari e tempi,
Ove scritto si legga: al grande Enrico
Liberator delle cittadi oppresse.

[38 Di Latino Latini]

Ne la venuta di Monsignor di Potentia a monsignor Tommaso Sperandio da Fano.

Prendiam dell'odorate e pure fronde
Per far con riverenza al sacro altare
Solenne festa; poiché grazie rare
L'alto signor ai nostri voti infonde.
 
Falde di vaghi fior d'ambe le sponde
Pendano, e sovra prezïose e care
Spoglie, che dotte mani, e non avare,
Abbian tessuto e d'arte, e d'or feconde.
 
Quivi stendendo insieme al ciel le palme
Cantiam lode al fattor, ch'oggi ne renda
In patria salvo il nostro car' signore.
 
E tu dalla cui man benigna pende
Ogni ben, longo tempo in tuo favore
Lo serba a glorïose, eterne palme.

[39 Di Latino Latini]


A monsignor Maffei per monsignor mio. Risposta.

Un Semiviterbese (un) Arcipreta
Nella guardia degli orti molto dotto,
Monsignor mio, ha tutta Roma indotto
A tenerlo per vero e gran profeta. 
Ei scrisse già, che la carota acqueta
Dolor di corpo senza mosto cotto
Prendendone unce sedici, o diciotto
Per dietro pasto, a guisa di cupetta. 
E che da questa gli animi egri e stanchi
Dallo spettar riceve(v)a più sostanza
Che d'infinito numer(o) di baiocchi.
Né fu mai vero che Germania, o Franza
Ne mandasse a Tiberio, anzi balocchi
Son stati questi chiosator sì franchi.
Se non avete granchi
Pigliatene ad ogn'or, ché in questa vita
Fa i sani ella gioir, gl' infermi aìta.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (3-10)

Post n°935 pubblicato il 30 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO X

Cosí passammo in fine a l’altro giorno,
cercando la contrada e dimandando
s’alcuna novitá v’era d’intorno. 

Noi eravamo sotto un poggio, quando 
Solin mi prese e disse: "Qui t’arresta". 
E io fermai i piedi al suo comando. 
Poi sopragiunse: "Leva su la testa 
e nota ciò ch’io ti disegno e dico, 
perché da molti autor si manifesta. 
Tu dèi saper che in fine al tempo antico 
quella cittá, che vedi in su la costa, 
fu fatta un poco poi che fosse Pico. 
Apresso Turno, a cui caro costa 
Lavina e di Pallante la cintura, 
la tenne e governò tutta a sua posta. 
Costui l’accrebbe di cerchio e di mura 
e del suo nome Turnia la chiama, 
che poi il nome piú tempo li dura". 
Cosí parlando, la mia cara brama 
mi disse: "Vienne"; e trassemi in vèr Chiusi, 
come andava la via di lama in lama. 
Quivi son volti pallidi e confusi, 
perché l’aire e le Chiane li nemica, 
sí che li fa idropichi e rinfusi. 
Questa cittade, per quel che si dica, 
fu molto bella e di ricchezza piena; 
in fin che venne Gian si crede antica. 
Qui governava il suo regno Porsena, 
quando cacciato fu Tarquin Superbo, 
che con lui seco a oste a Roma mena. 
Di qui mosse colui, che, col suo verbo 
e poi con l’argomento del buon vino, 
Brenno a Roma guidò fiero e acerbo. 
Molto è ben conosciuto quel cammino,
bontá del vertudioso e santo anello 35 
ch’ a conservar la vista è tanto fino. 
Carcar passammo e Rodo, un fiumicello, 
attraversammo per veder Perugia 
che, com’è in monte, ha il sito buono e bello. 
Persus, che quivi sbandito s’indugia 40 
per li Romani dopo molta guerra, 
la nominò, s’alcun autor non bugia. 
Lo suo contado un ricco lago serra, 
lo quale è sí fornito di buon pesce, 
ch’assai ne manda fuor de la sua terra. 45 
Per fiume alcuno che v’entri non cresce; 
l’acqua v’è chiara come di fontana, 
e non si vede ancora donde ella esce. 
La cittá d’Orbivieto è alta e strana; 
questa da’ Roman vecchi il nome prese, 50 
ch’ andavan lá perché l’aire v’è sana. 
E poi che di lassú per noi si scese, 
vedemmo Toscanella, ch’ è antica 
quanto alcun’altra di questo paese. 
Seguita or che di Viterbo dica, 55 
che nel principio Vegezia fu detta 
e fu in fin ch’ a Roma fu nemica. 
Ma, vinta, poi a li Roman diletta 
tanto per le buone acque e dolce sito, 
che ’n Vita Erbo lo nome tragetta. 60 
Io nol credea, perch’io l’avessi udito, 
senza provar, che ’l Bulicame fosse 
acceso d’un bollor tanto infinito. 
Ma gittato un monton dentro, si cosse 
in men che l’uomo andasse un quarto miglio, 65 
ch’altro non ne vedea che propio l'osse. 
Un bagno v’ha, che passa ogni consiglio, 
contra ’l mal de la pietra, però ch’esso 
la rompe e trita come gran di miglio. 
Dal tus a Tuscia fu il nome messo, 70 
perché con quel gli antichi, al tempo casso, 
sacrificio facean divoto e spesso. 
Qui lascio la Toscana e ’l Tever passo 
per trovare il Ducato di Spoleti 
con la mia guida, che da me non lasso. 
Vidi Todi, Foligno, Ascesi e Rieti, 
Narni e Terni, e il lago cader bello, 
che tien la Leonessa co’ suoi geti. 
E vidi a Norcia ancora un fiumicello: 
questo sette anni sotto terra giace 80 
e sette va di sopra grosso e bello. 
Il ponte di Spoleti ancor mi piace. 
Qui mi disse Solino: "Omai ben puoi 
a le confin d’Italia poner pace". 
E io a lui: "De’ termini suoi 85 
e del giro e del mezzo e la lunghezza 
udir vorrei, com’era ne’ dí tuoi, 
e chi la tenne in prima giovinezza 
e s’altra novitá a dir vi sai, 
ch’io ne tocchi, e di ogni sua bellezza". 90 
Ed ello a me: "Tu m’hai parlato assai; 
ma, perché men ti noi la lunga via,
dirò sí come giá la terminai".
E ’n questo modo incominciò via via.
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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