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Messaggi del 07/12/2014

Rime di Cino Rinuccini (5)

Post n°751 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

12

Oimè, lasso, ov’è fuggito il viso
Che solea quietar ogni mia guerra?
Oimè, lasso, chi fuor mi disserra
Del mio dolce ineffabil paradiso?

Oimè, lasso, perchè son diviso
Da questa vaga Dea ch’è sola in terra?
Oimè, lasso, che già mi si serra
L’ultimo respirar nel petto anciso.

Oimè, lasso, quanto aspettar deggio?
Ch’un momento mi par più di mill’anni
S’io non riveggio il mio tranquillo porto.

Oimè, lasso, Amor, che negli affanni
Assai m’hai tormentato, io ti richieggio
Di riveder quel sol, ch’è mio conforto.



13

Nè per colpi sentir di ria fortuna
E in mezzo i boschi solitario stare,
Nè per ozio fuggire ed occupare
L’alma ferita sotto sì ria luna;

Nè per allontanarmi da ciascuna
Passïon ch’abbi Amore a suscitare,
Nè d’altre vaghe donne il rimirare
Mitiga il foco, ove m’arde quest’una.

Però che quando le sant’opre agguaglio
D’esta lucida stella alle mortali,
Tanto più incendo, disfavillo ed ardo;

Quanto è quel divin sole ov’io abbaglio
Più perfetto e più chiaro: e anche in tali
Stelle prendesti, Amor, l’aurato dardo.



14

Io sento sì mancare omai la vita
Per la gran crudeltà, ch’io non so, Amore,
S’io potrò prolungar tanto la vita,
Che me sfoghi parlando in cotal vita,
Qualor mi fa provar chi ha ’l cor di marmo.
Nè fe ch’a lei portassi in la mia vita
Niente valmi, ond’io ho in odio la vita;
Poich’è venuta sì selvaggia e fera
Che già mai in selva tal fu vista fera
Quale è costei, per cui non posso in vita;
Onde umil priego te, o dolce morte,
Che tu mi facci far solo una morte.
Che molto è me’ finire in una morte,
Che morir mille volte alla sua vita.
Adunque, fin de’ mali ottima morte,
Finisci queste membra, che ho già morte,
Chè ferir non le possa più Amore,
Che mi fa peggio che non fai tu, morte.
E però ’ miei sospiri e pianti, o morte,
Annulla tutti, e sotto un picciol marmo
Chiudi le stanche membra, ed in tal marmo
Teco sempre le posa, o fida morte,
Sì ch’io non veggia questa bella fera,
Che per mia pena nacque tanto fera.
O paese d’Ircania, cotal fera
Già non vedesti mai che porta morte
Come costei; benchè tigre sia fera
Crudele assai più che null’altra fera,
Chè almen nel dolce tempo della vita
Ei dipon giù la crudeltà di fera,
Accompagnando se con simil fera;
E va gioiendo in naturale Amore,
Rendendo le sue forze tutte a Amore.
Ma questa sta crudel più ch’altra fera,
Ed in cambio di cor sì veste un marmo,
Che fa venire altrui tutto di marmo.
Or bench’i’ abbia il cor già duro marmo,
Pur v’è rimaso un spirto, ch’esta fera
Per mia più pena non ha fatto marmo,
Che sente i colpi di lei, freddo marmo,
Che mi vanno sfidando sempre a morte.
Or pur foss’ei ch’io divenissi marmo,
E non sentissi se non come un marmo
Il travagliar di questa acerba vita,
Dove morte sarebbe me’ che vita.
Tanta è la gran durezza d’esto marmo
Che mai mio pianto l’addolcisce, Amore,
E tuoi dorati strali spunta, Amore.
Di te trionfa questa cruda, Amore,
Che suogli umilïar ciascuna fera,
Perchè in niun tempo la riscaldi, Amore.
Dov’è dunque la tua possanza, Amore,
Con che mi fa questa Medusa marmo?
Perduta l’hai, poichè al tuo servo, Amore,
Non val la fe ch’a lui imponesti, Amore,
Che osservassi a chi di morte in morte
Lo va lungando nell’ultima morte.
Ma subito la chieggio a te, Amore,
Per non morir mille volte in la vita,
Dove stendando, e me odio, e la vita.
Canzon, e’ non fu mai sì aspra vita,
Quanto è la mia, onde umil priega morte
Che mi tragga di branche a questa fera,
Ch’è più dura e più fredda che marmo,
Ed àssi sotto i piè sommesso Amore.

 
 
 

Il Dittamondo (1-21)

Post n°750 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXI

Apresso queste cose, ch’io t’ho detto, 
li miei figliuol due consoli ordinaro 
e fra tutti fu Bruto il primo eletto; 
poi, l’altro, Collatino, a cui amaro 
lo soprannome suo li costò tanto, 
che lasciò me e fece altro riparo. 
A questo Bruto mio dar posso vanto 
che mi guidò sí bene in pace e ’n guerra, 
che degno fu d’avere il primo manto. 
E se l’opinione mia non erra, 
di me prese speranza in fin d’allora 
che innanzi a Apollo giú basciò la terra. 
Del suo valore è da parlare ancora, 
pensando a la giustizia de’ suoi figli 
e come, al fine, sé e me onora. 
E se di lui mai con altri pispigli, 
dir puoi ch’un anno il piansi a gran dolore, 
vestita a brun con tutti i miei famigli. 
Un poco apresso ordinai dittatore: 
Largio fu il primo e sí fatta bailia 
a chi l’avea si potea dir signore. 
Similemente a Spurio diedi in pria, 
perché era franco e giusto e con misura, 
ch’ammaestrasse la milizia mia. 
Non c’è chi ponga a Publicola cura, 
ch’avendo speso il mio per lungo spazio, 
non si trovò da far la sepultura. 
Per quel che fece sopra il ponte Orazio, 
onorai la sua imagine da poi 
e donai terra, onde assai ne fu sazio. 
Il magnanimo Muzio saper puoi 
ch’al fuoco fe’ de la man sacrifizio, 
onde ’l suo campo il testimonia ancoi. 
E per l’onor che rendeo al mio ospizio 
la vergine Cloelia, in via sacra 
merito n’ebbe d’alcun benefizio. 
Per Coriolan venia dolente e macra, 
quando Vetura li rivolse il tergo, 
con preghi raffrenando la voglia acra. 
Piú difesono allora il mio albergo 
le femine vestite dentro a’ panni, 
che gli uomini armati ne lo usbergo. 
O cari Fabii miei, con quanti affanni 
sofferiste il martir, ch’io piango spesso 
pensando al valor vostro e a’ miei danni! 
Quasi nel tempo ch’io ti conto adesso, 
ai miei bisogni apparve Cincinnato, 
dal qual mi vidi amar quanto se stesso. 
Qui passo a dirti come fu trovato 
al campo suo e come si divise 50 
da’ buoi, dal pungiglione e da l’arato. 
Tal fu Virginio, che la figlia uccise, 
per che l’onor de’ Diece venne meno 
e Appio scelerato non ne rise. 
Ma perché piú e piú discordie feno 55 
i grandi con la plebe, nel mio dire 
intendo a ciò tenere stretto il freno. 
Con grande onore a me vidi reddire 
Aulo Cornelio, da poi ch’egli ebbe 
morto Tolonio e i suoi fatti fuggire. 60 
E tanto senza pioggia allora crebbe 
il lago d’Alba sopra ogni cammino, 
ch’a vederlo ora un miracol parrebbe. 
Per questo mandai io ad Apollino, 
dubitando che annunzio non fosse 65 
pericoloso ad alcun mio destino. 
Un poco apresso, Brenno mi percosse 
lá sopra d’Allia e tal fu la vittoria, 
che mi spolpò la carne in fino a l’osse. 
Camillo è degno qui d’alta memoria, 70 
perch’allor mi soccorse e saper dèi 
che fu il secondo Romul che mi storia. 
Ahi quanto, lassa!, pianser gli occhi miei 
per la pietá dei buon, che sui gran seggi 
fun morti, quasi in abito di dei! 75 
E perché chiaro di Camillo veggi 
il magnanimo core e i grandi acquisti, 
voglio che in Livio e in Valerio leggi. 
Or se per Bruto gli occhi miei fun visti 
pianger quando morio, pensar ben puoi 80 
che non men per costui lagrimâr tristi. 
La terra aperse non molto da poi, 
ne la qual Marco Curzio entrò armato 
per suo valor, per campar me e i suoi. 
Per quel che con la lancia fe’ Torquato, 85 
Valerio con la spada e col suo corbo, 
fu a ciascuno il soprannome dato. 
O Melio ardito e pro, come fosti orbo 
nel gran volere, allor che dittatore 
Tito fu fatto per tuo tristo morbo! 90 
E Manlio fu sí forte e d’alto core, 
che comandò che il figliuol fosse morto, 
perché ’l disubbidio con farsi onore. 
E Decio, in arme e in consiglio accorto, 
del bue dorato e de le due corone 95 
trionfai giá con allegro conforto. 
Costui fu tal, ch’avendo in visione 
veduto la sua morte, per mio scampo 
s’offerse a lei come fedel campione. 
Cosí ’l figliuol tra’ nemici in sul campo 100 
chiamò li dii d’inferno e morir volse, 
sí come il padre. Or pensa s’io avampo 
e se, quando morîr, di lor mi dolse.

 
 
 

Tarquina Molza (2)

Post n°749 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[8 Di Tarquinia Molza]

S'eguali havessi le forze al desìo,
Tarquinia, ch'a lodarvi ognor m'invita
Voi dopo morte rimarreste in vita
E me insieme trarrei dal cieco oblio.

Ma tanta è la bellezza rara, ch'io
Contemplo in voi, con la virtù infinita
E l'onestà da voi tanto gradita
Ch'ogni pensier trapassa non che 'l mio.

Pur vo' talora, ricercando in parte
Di farvi nota la mia intensa voglia,
Non già ch'io speri di ritrarvi in carte;

Né cagion ha Camillo, onde si doglia
Di me, che spesso per difetto d'arte
Non mostro quant'in voi valor s'accoglia.

[9 Di Tarquinia Molza]

Ov'è l'arco e lo strale,
U' son le face, Amore?
Grida Ciprigna, e pur con gran furore
A le tenere sue carni fa male.
Lì con timor la bella
Tarquinia, i' dico quella
Che fa vergogna al sole,
Con sue dolci parole,
Mel chiede; io gliele do, credendo ch'ella
Tu fossi; ma se pur trovar gli vuoi
Va tosto, e guarda ne begli occhi suoi.

[10 Di Tarquinia Molza]

In risposta al sonetto del Falloppia

Sdegno non fu ch'a pungervi mi spinse,
Ma poi che de le rime ond'io ne porto
Fama mi parve voi pentirvi a torto
Invidia allor il cor m'assalse e vinse.

Hor, se la scusa da voi non si finse,
Dentro in me stessa godo e mi conforto
Che per me, il laccio ancor qual bene attorto
Fune vi stringe con che Amor vi avvinse.

Onde l'errore a voi facil perdono,
S'error fu in non prezzar me bassa e vile
Presso all'altezza ch'a le stelle arriva.

A lei ceder gli onor' contenta sono,
Non già com'a mortal donna; ma diva
Solo a sé stessa, a null'altra simile.

[11 Di Tarquinia Molza]

Nella morte di m. Molza.

Non da più rio dolor trafitto geme
Povero agricoltor cui nuova pianta
Che bei frutti mostrava, irato schianta
Borea dal piede e seco ogni sua speme

Di quel ch'ora per te, gentil suo seme,
Modona sente, cui porgevi tanta
Speranza di valore e bontà quanta
Gloria le dier' già l'avo e 'l padre insieme,

E quel che dar può a caro figlio e saggio
Tenera madre di feral cipresso
Orna il mesto sepolcro, e di tai note

Degli anni suoi nel più fiorito Maggio
Da fiera morte et importuna appresso
Qui giace Molza al gran Molza nipote.

[12 Di Tarquinia Molza]

Morte, è pur ver che tu di vita privi
I miglior' sempre, acciò che maggior doglia
Chi a dietro resta in quest'inferno accoglia
Ove siam morti e parci d'esser vivi.

Tu m'hai purtroppo innanzi tempo privi
Con la tua man che tutto il mondo addoglia
Del giovinetto Molza, e ben s'invoglia
A trar dagli occhi lagrimosi rivi.

Spento è il buon Molza nel fiorir degli anni,
Anzi in ciel vive presso a l'avo e al padre
E 'l sommo ben ch'amava in terra gode.

Alma felice, ch'a beati scanni
Salita sei fra le celesti squadre
Deh non sprezzar la mia terrena lode.

[13 Di Tarquinia Molza]

Né mai da campi l'aspettate spiche
Innanzi tempo il mietitor recide,
Né da fecondi rami unqua divide
Acerbi frutti delle sue fatiche.

Ma voi del nostro ben Parche nemiche
Sul fior degli anni (ohimè!) con mani infide
Sete pur di colui state omicide
Che più ch'altrui fer' le virtuti amiche.

Tu, patria mia, di sì nobil sostegno
Priva meco membrando il nostro stato
Così ti duole ove piangendo scrivi.

Molza, sei morto? O inexorabil fato,
Non di te il mondo, sol n'era il ciel degno,
Tu or col padre e l'avo eterno vivi.

[14 Di Tarquinia Molza]

Molza, che i piedi ancor teneri e brevi
Per l'avite mettendo e patern' orme
D'ir a gran passi lor pari e conforme
Anzi il dovuto di speme accendevi.

Beato se' che le muse onde ardevi
Vere là su tra le celesti torme
Miri e 'l suon odi che ciascuna forme
Di nove giri in gravi accenti e lievi.

E che l'acque superne ed il cristallo
Ammiri invece del qui amato fonte
Che cavò l'unghia del cavallo alato.

Ma noi senza te mesti in questo stallo
Dei pie' di Dio dagli occhi nostri fonte
Versiam ch'il terren bagna ove sei nato.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

I peccati mortali

Post n°748 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sopra li sette peccati mortali
di Fazio degli Uberti

IX

Superbia

Io so’ la mala pianta di Superba,
Che generò di ciascun vizio il seme;
E quel cotal non ama Dio nè teme
Che si nutrica di questa mia erba.

Io son mal grata arrogante ed acerba,
Per cui il mondo tutto piange e geme;
Io so’ nelle gran cose e nell’estreme
Colei che compagnìa rompe e disnerba.

Io so’ un monte tra ’l cielo e la terra,
Che chiudo gli occhi vostri a quella luce
Che sol della giustizia in voi conduce.

Col sommo bene sempre vivo in guerra:
Ver è che, quando regno in maggior pompe,
Giù mi trabocca e tutta mi dirompe.

Note mie:I versi 7-8, nella versione Allacci, recitano:
Io nelle gran cose so ell’extreme
Colei che rompe compagnìa e disnerba.

X

Avarizia

Io so’ la magra lupa d’Avarizia;
Di cui mai l’appetito non è sazio,
Ma quanto più di vita ho lungo spazio
Più moltiplica in me questa tristizia.

Io vivo con sospetto e con malizia,
Nè lemosina fo, nè Dio ringrazio.
Deh odi s’io mi vendo e s’io mi strazio,
Che moro di fame e dell’oro ho dovizia.

Non ho parenti, nè cerco memoria,
Nè credo sia diletto nè più vivere
Che l’imborsar fare ragione o scrivere.

L’inferno è monumento di mia storia;
E questo è quello bene in cui m’annidolo:
Il fiorin pregio, e Dio tengo per idolo.

XI

Invidia

Ed io Invidia, quando alcuno guardo
Che si rallegri, vengo umbrosa e trista;
Nei membri nel parlare e nella vista
Discuopro il fuoco d’entro ove io ardo.

Da fratello a fratel non ho riguardo:
Ognun sa ben quel che per me s’acquista;
Morir fe Cristo e cercare il salmista
Dinanzi da Saùl co’ lo mio dardo.

Io consumo lo core dov’io albergo:
Io posso dir dh’io sia discordia e morte
Di città di reami e d’ogni corte.

Ai colpi miei ,non può durare sbergo,
Per ciò ch’a tradimento gli disserro:
lo dico colla lingua e non col ferro.

XII

Lussuria

Io so’ la scelerata di Lussuria
Che legge nè ragion mai non considero,
Ma tutto quel ch’io voglio e ch’io desidero
Giusto mi pare, e qui non guardo ingiuria.

Io sono un fuoco acceso pien di furia,
Che i Greci e gli Troian già mai me videro.
L’anima perdo, ed corpo m’assidero;
E vivo con malizia e con ingiuria.

E come ch’io dimostre nel principio
Un dolce ed un contento desiderio,
Pur la mia fine è danno e vituperio.

Del porco nel costume participio;
E quanto è da lodar l’uomo e la femina,
Che fugge l’esca che per me si semina!

XIII

Gola

Io so’ la Gola che consumo tutto
Quanto per me e per altrui guadagno,
E in ogni altro bisogno mi sparagno
Per satisfare a questo vizio brutta.

Lassa mi trovo e col palato asciutto,
Con tutto che lo dì e la notte ’l bagna;
Del corpo sono ’l vecchio e nuovo lagno,
E del ciel perdo l’angelico frutto.

Trova chi colga ’ben di ramo in ramo,
Ch’al mondo fui principio d’ogni male
Nel pomo che gustò Eva ed Adamo.

La fine mia ’pei mio soverchio è tale,
Che guasto gli occhi e partitica vegno
E casco in povertà senza ritegno.

XIV

Ira

Ira son io sana ragiona e regola,
Subita, furibonda, con discordia;
Pace nè amore con misericordia
Trovar non può chi con meco s’impegola.

Tutta mi struggo e rodo come pegola;
Minaccie e grida sempre con discordia
Dov’io albergo; non trova concordia
Figliol con padre quando sono in fregola.

Tosto com’ foco ogn’or più sento accendere
Entro all’animo mïo, ciò lo torbida,
Dove non pote mai il ver comprendere.

Paura nè lusinghe me rimorbida;
Dispregio Dio, fè, battesmo e cresima;
Uccido altrui e quando me medesima.

XV

Accidia

Ed io Accidia so’, tanto da nulla
Che gramo fo di chïunque m’adocchia;
E per tristezza abbascio le ginocchia,
E ’l mento su per esse si trastulla.

Io so’ cotal qual m’era nella culla;
Non ho più piedi nè mani nè occhia;
Gracido e muso come la ranocchia,
Discinta e scalza, ed ho la carne brulla.

A me non vale esempio di formica;
Deh odi s’io son pigra, che gustando
E il mover della bocca m’è fatica!

In somma, quando vengo ben pensando,
Dico fra’ miei pensier tristi ed infermi:
- Io venni al mondo sol per darme a’ vermi. -

Tratti da: "Poeti antichi: raccolti da codici mss. della Biblioteca Vaticana, e Barberini",
Leone Allacci, Per Sebastiano d'Alecci, 1661 - 527 pagine.
Il testo riveduto è anche in Biblioteca Italiana di Giuseppe Bonghi

 
 
 

L'ingresi

Post n°747 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

L'ingresi

Pe' Roma le rovine so' un ristoro, 
Pe' l'ingresi che viengheno a guardalle: 
Noi nun ce famo caso, invece loro 
Cianno puro un libbretto pe' studialle. 

Pe' lloro 'ste rovine so' tant'oro! 
Se farebbeno turchi pe' pijalle! 
Li vòi fa' gode'? Faje vede' er Foro 
E er Culiseo co' llurae de bengalle, 

Intratanto nojantri guadambiamo; 
Da le prime locanne sopraffine 
A l'urtime ciociare, ciabbuscamo. 

Dunque 'sto gran guadambio t'addimostra 
Ch'a riggiralie bene le rovine 
So state sempre la fortuna nostra.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Tasso madrigali 06-10

Post n°746 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. 
I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana

6

Al mio Signor gentile 
Di che trecciar potrò ghirlanda degna? 
Chi degni fiori, eterni fior m'insegna? 
Flora dicea mirando in atto humile. 
Ahi! che tutt'altro a vile 
Havrà chi di se stesso ornar si suole: 
Quando ecco alla real sua fronte impose 
L'Alba le rose e raggi eterni il Sole.

7

Rosata Alba novella, 
Del Sol messaggia e duce, 
Per te si veste il Ciel d'eterna luce, 
La terra il suo splendor si rinnovella; 
Per te serena e bella 
Adria si fa, che in te mirando, dice 
Me tre volte felice. 
Che se quest'ALBA in grembo mi s'asconde 
Faransi argento l'acque, oro le sponde!

8

Non sul verde terreno 
Sedersi neghittosa in treccia e 'n gonna 
Veggio un'altera Donna, 
Ma sovra l'onde alzar la fronte e 'l seno 
Per tener l'onde a freno 
Di senno tutta e di valor armata: 
Questa su l'onde sola, al mondo nata, 
Ben mostra in mezzo l'acque 
Che per frenar del mar l'orgoglio nacque.

9

Non come Flora e la sua antica Alfea 
In mezzo a' fiori e l' berba, 
Ma tra l'onde superba si sedea 
Adria, non so s'immortal Ninfa o Dea, 
Ben come a sua Regina 
Vedesi il mar cbe intorno a lei s'inchina.

10

Sì bella Ninfa in grembo al Mar non siede, 
Sì bella in piaggia o'n riva 
Ninfa Diva il Sol giammai non vede; 
Adria tutt'altre eccede, 
Adria del gran Nettuno unica figlia 
Sol sé stessa simiglia 
Né giunge human pensiero 
Di sue bellezze immaginando il vero.


VI.

2. Ghirlanda. Ci ricorda quel sonetto del Tasso:

Granduca ben poss'io di vaghi fiori 
Tesser ghirlanda e d'odorate fronde ec.

Corona o ghirlanda fu solito chiamare le sue raccolte di componimenti il Tasso allorché le indirizzava in dono, come se n*ha riscontro nelle sue lettere. Qui la corona è soggetto epitalamico, vale a dire è il donativo che la Toscana fa al granduca Francesco impalmandolo con Bianca.
VII.

1. Rosata Alba; la Bianca e vermiglia aurora nel primo Madrigale per allusione alla granduchessa. Rammenteremo che alla medesima scrisse il Tasso,
Voi rosati e bei labri 
E rosate le guancie avete ancora, ec.

8. Che se quest'Alba in grembo mi s'asconde, ec. La repubblica Veneziana insignì del titolo di regina di Cipro la granduchessa Bianca nell'atto delle sue nozze reali e ne sperò da quest^allettatìva un qualche interesse nel rapporto con altri sovrani.

VIII.

2. In treccia e 'n gonna. Nel sonetto dell'autore: felice eloquenza, avvinta in carmi ec. E cosi nell'altro: Io mi credea sotto un leggiadro velo, ec. Nella St. 27. 
Canto IV della Gerusalemme, ec. 
Questo ed i tre consecutivi Madrigali con lo stesso titolo e ordine andarono attorno manoscritti sicché ne restano ancora delle copie sincrone comprese ne'Miscellanei Poetici in alcuni de'quali o si tace o si sbaglia l'autore. 
7. Questa su l'onde, ec. Il Ms. porta il titolo : In lode di Venezia. E si collegano al Madrigale gli altri tre Madrigali consecutivi.

IX.

1. Atfea. Pisa posta in pianura di mare già disseccato, fertilissima per l'agricoltura e industria. 
4. Ninfa o Dea. Il Tasso nella Gerusalemme, St. 61 Canto, XIV:
Così dal palco di notturna scena 
ninfa o Dea tarda sorgenio appare.
Ninfa Dea, nel sonetto Se mi trasporta a forza ov'io non voglio, ec. Idem nel sonetto Sceglieva il mar perle, rubini ed oro, ec. 
5. Regina. Vedi il sonetto la Regina del Mar che in Adria alberga (pag. 13).
X.

5. Nettuno, alludendo alla potenza della veneta Repubblica d*una volta, ed ha questa comparazione usata il Tasso nel prologo dell' Aminta v. 7, dichiarando Nettuno come lo scuotitor della terra. 
6. Simiglia. Nella Gerusalemme, St. 61, Canto III:
quanto di sembiante a lui simiglia.

Però scrisse quasi sempre il Tasso, almeno in quel poema, somiglia, avendolo per rima nella St. 20 Canto XI, nella St. 4 Canto XV e nella St. 92 Canto XX.
Simigliare, cioè aver somiglianza, è tanto del Boccaccio in prosa che del Petrarca in verso. Il Petrarca nel Sonetto 127:

Che sol se stessa e nuli' altra simiglia.
8. Pensiero rimato con vero è nella Gerusalemme almeno due volte, St. 32, Canto IV e St. 82, Canto XVI. 

 
 
 

La Bella Mano (036-040)

Post n°745 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XXXVI

Se a pietà mai ti volse altrui martire,
O caro mio tesoro, o sol mio bene,
Per Dio, soccorri tosto alle mie pene
Prima che l'alma triste al fin suo spire.

Perduto ho in tanti guai l'usato ardire
Ma sol per te mia vita si mantene,
In te s'affida la tradita spene,
Onde mi nacque al cor l'alto disire.

Guarda s'io son suggetto a grave stratio,
Che a pena tanto spirto omai m'avanza,
Che basta a dir: soccorri, aita, aita.

Ma se mia fede è vana, et mia speranza.
Or duolti che il tuo orgoglio non sia satio,
Et vedi quanto è misera mia vita.

XXXVII

Occhi sereni, donde il cor m'accende
Amor sì novamente, ch'io nol sento;
O singular, ligiadro portamento,
Che adorna le onorate et bianche bende;

O man leggiadra, onde mi lega et prende
Amore in guisa, ch'io ne son contento;
O angeliche accoglienze, o dolce accento
Di quel parlar, che infino al ciel s'intende,

De i miei lamenti, se la voce udita
Fosse tanto alto, infino al cielo omai
Di vostre lodi n'andaria la fama.

Ma pur col buon voler, fra tanti guai,
Per farti onore quanto può s'aita
La lingua che il bel nome sempre chiama.

XXXVIII

O luci belle, che nel mio dolore
Sete contro al dover sempre sì accorte;
O fronte peregrin, dove ha mia morte
Colla sua man dipinta il mio Signore,

Se l'affannata mente, e il debil core
Non m'ingombrasse altra beltà più forte,
A voi consacraria, mie fide scorte,
Lo ingegno e i miei pensier per farvi onore,

E a voi, labre di rose, onde parole
Sì care sì leggiadre et sì soave
Forma tanto altamente Amor senza arte.

La man, che del mio petto tien la chiave,
Né per suo servo mi ritien, né vuole
Che d'altri io parle et scriva in tante carte.

XXXIX

Un parlar più che umano, un falso riso,
Un peregrin pensero, un dolce sdegno,
Un nuovo portamento onesto et degno,
Mille vaghi fioretti in un bel viso,

Un volger lieto, un mirar crudo et fiso,
Un chiaro impallidir di beltà pregno,
Un singular costume, un sacro ingegno,
Che rimembrar ne fan del paradiso,

Un casto orgoglio, una spietata mente,
Un disiar troppo altamente onore,
Et dispregiar quel ben dove altrui spera,

Son le catene, che per man d'amore
Già m'han sì stretto intorno al cor dolente,
Che a forza converrà che amando pera.

XL

Quanto può il ciel, natura, ingegno, et arte,
Le stelle, gli elementi, uomini et Dei,
Raccolto ha interamente in sé costei;
Per che convien che pianga in mille carte.

Beato chi la vede, et ogni parte
Che tocca i suoi bei piedi, e i pensier miei,
Che d'ogni tempo sol parlan di lei,
Et parleranno in mille rime sparte.

Human pensiero a pien non può ritrarla,
Et meno il parlar nostro ha le parole,
E il basso imaginar non va tanto alto.

Dentro da gli occhi suoi si vede un Sole,
Che fa sparir quest'altro, et quando parla
Poria col dolce suon spezare un smalto.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (4)

Post n°744 pubblicato il 07 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.


Amore, spira i tuoi possenti rai
In questa vaga e semplice angiolella,
Che non s’accorge ancor quant’ell’è bella,
E come piace più ch’ogn’altra assai.

Chè forse porrei fine a tanti guai,
Se questa ch’arde me con sua facella,
E ch’ha negli occhi bei mille quadrella,
8Sentisse come il cor non posa mai.

Ed ella è adorna, vezzosa e gentile,
Nè già mai scese dall’empireo cielo
Cosa sì bella che passa ogni stile.

Sua semplice durezza fammi un gielo,
Che ancide dentro il core e fammi vile,
Se non soccorri col dorato telo.



Io veggio ben là dove Amor mi scorge
Lusingando mia sensi a poco a poco,
E come la ragione è morta, il foco
Va sormontando: s’altri non mi porge

Miglior medela, li fero mal risorge
Moltiplicando nell’usato loco:
Il perchè chiamo morte e son già fioco,
Nè questa mia nemica se n’accorge.

Che del mio lamentar venuta è sorda,
E ’l sensibile cor fatto ha di smalto
Ond’altro mai che pianti o sospir merco.

Nè val che la ragion par mi rimorda
Tanto fu ’l colpo suo profondo ed alto,
14Che cieco il danno mio centra me cerco.



Amor, tu m’hai condotto sì allo estremo
Ch’io non posso durar più nel tuo foco,
Ma sento mancar l’alma a poco a poco,
E ’l debil corpo al tutto venir meno.

Ed ogni spirto ho sì munto e leno,
Ch’io abbandono già lo tristo loco,
Dove per lamentar son fatto roco
Nè più di te, o crudel morte, temo.

Ma ben ti prego, signor mio, ch’allora
Che uscirò fuor di questa mortal vita,
Ch’esta Fenice e delle donne donna

Non senta come Amor per lei m’accora;
Perchè pietà sua bellezza infinita
Turberebbe, e di lacrime la gonna.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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