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Messaggi del 10/01/2015

Rime di Celio Magno (70-75)

Post n°1019 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

70

In morte del clarissimo signor Girolamo Molino

Dunque rea morte ha spente,
Molin, tue luci? E con sì presto volo
dal nobil corpo il chiaro spirto è sciolto?
Qual pianto agguaglia il duolo
ch'in me del tuo partir l'anima sente?
Perché sì tosto, o ciel, per te l'hai tolto?
Ahi, ch'era nulla a te, bench'a noi molto,
donar più spazio a la sua degna vita,
ritardando pietoso i nostri danni.
Al tu' eterno girar che son pochi anni?
E se tant'altri lumi ha il tuo bel chiostro,
a che rapir sì frettoloso il nostro?
Ahi, che sempre ne spogli invido, avaro
di quel che più n'è caro;
né il cor di piaga sì profonda e fera
conforto alcun, non che rimedio, spera.
Fioria l'alma gentile,
del suo fertil terren pianta felice,
sì che null'altra al ciel più degna uscìo.
Fur suo tronco e radice
senno e bontade; ed in su' altezza umìle
frutti di vero onor sempre nodrio.
Ostri, pompe e tesor, ch'uman desio
più ch'altro ammira e d'acquistar procura,
stimò vento fallace e scorta infida
ch'in mar d'affanni a mille rischi guida,
ma sol voglie modeste in mente pura
per girne a porto strada esser sicura.
Ond'ei, di libertà fervido amante
E in ben oprar constante,
contra fortuna di virtute armato,
fra le miserie altrui visse beato.
Né men col dolce canto
che condia di saper fe' manifeste
le cure onde adornò l'alto intelletto:
ch'or del gran re celeste
spiegò la gloria, or de la patria il vanto,
pien verso lor di puro, ardente affetto;
or del vizio scoprendo il sozzo aspetto
lo fe' creder di morte; or di virtute
aprio più che 'l sol chiaro il vago riso;
or d'amante imitando il pianto e 'l riso,
quasi ad infermo ch'altra via rifiute,
sotto quel dolce altrui portò salute:
quinci mostrando a quanto mal s'apprende
chi 'l senso in guida prende,
e che mortal beltà tanto s'apprezza
quanto ella è scala a l'immortal bellezza.
Ditel voi, sacre Muse;
dil Febo e tu, ch'a quel sublime ingegno
ornasti il crin de le tue frondi amate:
che plettro uman più degno
non fur mai vostre orecchie a sentir use.
Ditel già del mar d'Adria onde beate:
che spesso nel maggior fremer placate
l'alta armonia del suo cantar vi rese.
Così 'l divino spirto in mortal velo
visse, del mondo onor, speme del cielo;
e quanto più a celar, modesto, intese
l'alto valor, più 'l feo chiaro e palese;
qual chi nasconder cerchi il suo tesauro
e 'l chiuda in arca d'auro,
o dentro a bel cristallo ardente luce,
ché questa e quel via più s'apre e riluce.
Pianserlo le più belle
alme non sol, ma fur de le più crude
fere per la pietate uditi i pianti.
E di conforto ignude,
via più ch'altri, le nove alme sorelle
per lui vestir lugubri, oscuri manti;
e 'n bel sepolcro, tal non visto avanti,
con larghe essequie di lamenti e doglia,
poser la sua terrena essangue scorza:
dove, mentr'una di scolpir si sforza
nel duro marmo e porvi a l'altrui voglia
breve detto che 'l nome e i merti accoglia,
ecco il ciel risonar di chiara tromba,
ecco sovra la tomba
la Fama in aria, a cui ciascun rivolse
gli occhi; ed ella così la lingua sciolse:
— Non fia mestier, non fia,
belle figlie di Giove; il nome e i pregi
render palesi in questo marmo adorno.
Ché qui di spirti egregi
nobil corona in mesta compagnia
starà mai sempre al caro sasso intorno;
e chiamando il suo nome e notte e giorno,
tra lagrime e sospir farallo aperto,
mentre ardor di virtù vivrà ne l'alme.
E quando altro non fosse, a queste palme,
a questi lauri e mirti ond'è coperto
il loco sovra gli altri esposto ed erto,
a l'aere sparso qui di novi rai,
chi devria creder mai
che fosser dentro a questa nobil fossa
d'altri che del Molin rinchiuse l'ossa? —
Va canzon, mesta, al bel sepolcro, e prega
il ciel ch'a ristorar tua sorte cruda,
là dentro ancor te chiuda:
ch'ivi più viva assai che qui fra noi
presso al cenere suo serbar ti puoi.

71

Dovendo egli fare un lungo viaggio, manda il suo proprio ritratto a la sua donna.

Primo

Poiché da rio destino altrove spinta
mia frale spoglia, o mio bel sol lucente,
lunge se n' va, qui resti almen presente
a voi con l'alma in quest'imagin pinta.

così, mia dura sorte in parte vinta,
avrà più certa speme il cor dolente
che mai non sia nel vostro petto ardente
per rimaner la mia memoria estinta.

E s'allor gli occhi per più crudo fato
chiusi mi fian, così dipinti almeno
terrogli aperti nel bel viso amato;

e per sepolcro avendo il vostro seno,
felici essequie avrò, pianto e bagnato
da la pietà del ciglio almo e sereno.

72

Secondo

O qual grazia mi fia raccolto e stretto
esser talor da quella bianca mano,
e per quel volto simulato e vano
lontan rapirvi nel mio proprio aspetto.

Ma non vedrete in lui per vario affetto
turbar la fronte, e me, per doglia insano
i be' vostr'occhi sospirando invano,
lasso, bagnar d'amaro pianto il petto.

Ben ne lo specchio vostra effigie scorta
vi potrà far con sue bellezze sante,
qual sia 'l mio stato in questo essilio accorta;

a me d'uopo non fa vostro sembiante
meco ritratto aver: ch'Amor mel porta
in viva forma espresso ognor davante.

73

Quanto più dal mio sole or m'allontano,
tanto più chiaro splende agli occhi miei;
né però provo i dì men foschi e rei
o 'l duol men grave, ond'io son fatto insano.

Mentre il godea vicin, per altro vano
pensier del lume suo molto i' perdei;
or lei col curo, e sol m'affiso in lei:
ché più 'l desio rapisce un ben lontano.

Oltra che quante belle errando io miro
sembran tenebre a par del suo splendore;
ond'ella più riluce, io più l'ammiro.

Ma tal, lasso, il mio sol si mostra Amore,
perché co' raggi suoi, ch'invan sospiro,
crescan lagrime agli occhi e pene al core.

74

Chi cresce il duol ch'in questo essilio i' sento,
se d'ogni asprezza al maggior colmo ei giunge?
Chi novo spazio a l'infinito aggiunge,
e dopo morte ancor mi dà tormento?

Misero caddi e fui di vita spento
quando dal mio bel sol n'andai sì lunge;
or fera gelosia m'assale e punge,
tal che senza io potea dirmi contento.

Compagna empia d'Amor, terribil mostro,
di cui sol l'ombra spira empio veleno,
con mill'occhi vegghiando al pianto nostro.

Direi ch'uscita fossi al ciel sereno
dal cieco abisso del tartareo chiostro;
se non ch'aspro di te l'inferno è meno.

75

Che fa? Che pensa? E come il giorno spende
or la mia dea? Forma di seta e d'oro
con la candida man ricco lavoro?
O col canto e col suon l'anime prende?

Move il piè forse, e dove i passi stende
seco Amor guida e de le Grazie il coro?
O pur del suo crin biondo il bel tesoro
al sol dispiega, e lui d'invidia accende?

O sostien con la man del vago volto
le rose, e sta pensosa in bel sembiante,
in me forse tenendo il cor rivolto?

Se a ciò mi degna, o me felice amante,
benché lontano e d'aspre cure involto,
o donna senza par bella e constante!

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 05

Post n°1018 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 5
Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione

Acciocché poi si possa concepire un'idea precisa e originale del modo di pensare in quel tempo, credo opportuno di trascrivere un esame, che sta nel corpo di quest'orribile processo; veramente serve egli di episodio alla tragedia del Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la Superstizione, il delirio, io lo riferirò esattamente, ponendo in margine distintamente le osservazioni che mi si presentano. Ecco l'esame:

Die suprascripto, octavo Julii.
Vocatus ego notarius Gallaratus, dum discedere vellem a loco suprascripto appellato la Cassinazza, juvenis quidam mihi formalia dixit [Il giorno suindicato, 8 luglio: Mentre io, notaio Gallarati, stavo allontanandomi dal luogo soprascritto, chiamato la Cassinazza, un giovane mi rivolse queste testuali parole] «Io voglio che V. S. mi accetti nella sua squadra, ed io dirò quello che so».
Tunc ei delato juramento etc. [Allora, fattogli prestare giuramento].
Interrogatus de ejus nomine, cognomine, patria [Interrogato del suo nome, cognome, luogo di nascita]
Respondit: «lo mi chiamo Giacinto Maganza, e sono figliuolo di un frate, che si chiama frate Rocco, che di presente si trova in S. Giovanni la Conca, e sono Milanese, e molto conosciuto in porta Ticinese».
Int.: «Che cosa è quello che vuol dire di quello che sa».
Resp. titubando: «Io dirò la verità, è un cameriere, che dà quattro dobble al giorno». - Deinde obmutuit stringendo dentes [Indi tacque, stringendo i denti].
Et institus denuo [Sollecitato nuovamente] a dir l'animo suo, e finire quanto ha cominciato a dire.
Resp. «È il Baruello padrone dell'osteria di S. Paolo in compito»., mox dixit [subito rispose], «è anche parente dell'oste del Gambaro».
Int.: «Che dica come si chiama detto Baruello».
Resp.: «Si chiama Gian-Stefano».
Int.: «Che dica cosa ha fatto detto Baruello».
Resp.: «Ha confessato già, che si è trovato delle biscie e de' veleni nella sua canepa».
Int.: «Dica come sa lui esaminato queste cose».
Resp.: «Il suo cognato mi ha cercato a voler andar a cercare delle biscie con lui».
Int.: «Che dica precisamente che cosa gli disse detto cognato, e dove fu».
Resp.: «Me lo ha detto con occasione che in porta Ticinese mi addimandano "il Romano", così per sopra nome, e mi disse andiamo fuori di porta Ticinese, lì dietro alla Rosa d'oro ad un giardino che ha fatto fare lui, a cercare delle biscie, dei zatti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato quella creatura, hanno le olle sotto terra e fanno gli unguenti e li danno poi a quelli che ungono le porte; perché quell'unguento tira più che non fa la calamita».
Int.: «Dica se lui esaminato ha visto tal unto».
Resp.: «Signor sì, che l'ho visto».
Int.: «Dica dove ed a chi ha visto l'unto».
Tunc obmutuit, labia et dentes stringendo [Allora tacque, stringendo le labbra e i denti], et institus [e sollecitato] a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli:
Resp.: «Io l'ho visto nella osteria della Rosa d'oro».
Int.: «Dica chi aveva tal unto, e in che vaso era». Resp.: «L'aveva il Baruello».
Int.: «Dica quando fu che aveva tal unto il Baruello».
Resp.: «Saranno quindici giorni, ed era un mercoledì, se non fallo, e l'aveva il detto Baruello in un'olla grande, e l'aveva sotterrato in mezzo dell'orto nella detta osteria della Rosa d'oro con sopra dell'erba».
Int.: «Dica se lui esaminato ha mai dispensato di quest'unto».
Resp.: «Se io ne ho dispensato due scattolini mi possa essere tagliato il collo».
Int.: «Dica dove ha dispensato tal unto».
Resp.: «lo l'ho dispensato sopra il Monzasco».
Int.: «Dica in che luogo preciso del Monzasco ha dispensato tal unto».
Resp.: «lo l'ho dispensato sopra le sbarre delle chiese, perché questi villani subito che hanno sentito messa si buttano giù e si appoggiano alle sbarre, e per questo le ungeva».
Int.: «Dica precisamente dove sono le sbarre da lui esaminato unte, come ha detto».
Resp.: «lo ho unto in Barlassina, a Meda ed a Birago, né mi ricordo esser stato in altro luogo».
Int.: «Dica chi ha dato a lui esaminato l'unto».
Resp.: «Me l'ha dato il detto Baruello, e Gerolamo Foresaro in un palpero [papiro, cioè carta] sopra la ripa del fosso di porta Ticinese vicino la casa del detto Foresaro, qual sta vicino al ponte de' Fabbri».
Int.: «Dica che cosa detti Foresè e Baruello dissero a lui esaminato quando gli diedero tal unto».
Resp.: «Quando mi diedero tal unto fu quando io fui se non venuto dal Piemonte, e mi trovarono dietro il fosso di porta Ticinese; il Baruello mi disse: o Romano, che fai? Andiamo a bevere il vin bianco, mi rallegro che ti vedo con buona ciera: e così andai all'osteria (mox dixit [subito si corresse]), all'offelleria delle Sei-dita in porta Ticinese, e pagò il vin bianco e un non so che biscottini, e poi mi disse, vien qua Romano, io voglio che facciamo una burla a uno, e perciò piglia quest'unto, quale mi diede in un palpero, e va all'osteria del Gambaro, e va là di sopra dove è una camerata di gentiluomini; e se dicessero cosa tu vuoi, di' niente, ma che sei andato là per servirli, e poi che gli ungessi con quell'unto e cosi io andai, e gli unsi nella detta osteria del Gambaro, qual erano là, io era dissopra della lobbia a mano sinistra; e m'introdussi 1à a dargli da bevere mostrando di frizzare un poco, cioè per mangiare qualche boccone; e così gli unsi le spalle con quell'unguento, e con mettergli il ferrajuolo gli unsi anco il collaro e il collo con le mani mie, dove credo sono poi morti di tal unto».
Int.: «Dica se sa precisamente che alcuno di quelli che furono unti da lui esaminato, come sopra, siano poi morti, o no».
Resp.: «Credo che saranno morti senz'altro, perché morono solamente a toccargli i panni con detto unto: non so poi a toccargli le carni come ho fatto io».
Int.: «Dica come ha fatto lui esaminato a non morire, toccando questo unto tanto potente, come dice».
Resp.: «El sta alle volte alla buona complessione delle persone». Quo facto cum hora esset tarda fuit dimissum examen [Ciò fatto, essendo tardi, fu sospeso l'interrogatorio].

Da questo esame solo ne ricaverà chi legge l'idea precisa della maniera di pensare e procedere in quei disgraziatissirni tempi. Ho creduto bene di riferire fedelmente un esame, acciocché si vedano le cose nella sorgente, e non resti dubbio che mai l'amore del paradosso, il piacere di spargere nuova dottrina, o la vanità di atterrare una opinione comune, mi facciano aggravare le cose oltre l'esatto limite della verità. Il metodo, col quale si procedette allora, fu questo. Si suppose di certo che l'uomo in carcere fosse reo. Si torturò sintanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l'innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell'accusatore, e si persisteva a tormentarli sinché convenissero d'accordo.
Altra prova di pazzia di que' tempi è l'esame lunghissimo fatto il 12 settembre a Gian-Stefano Baruello, il quale ebbe la sentenza di morte dal Senato il giorno 27 agosto (morte, che dopo le tenaglie, il taglio della mano, la rottura delle ossa e l'esposizione vivo sulla ruota per sei ore, terminava coll'essere finalmente scannato), e fu sospesa proponendogli l'impunità se avesse palesato complici e esposto il fatto preciso. Questi dunque tessé una storia lunghissima e sommamente inverosimile, per cui il figlio del castellano di Milano compariva autore di quest'atrocità, affine di vendicarsi di un insulto stato fatto in porta Ticinese, e si voleva che il signor D. Giovanni Padilla figlio del castellano avesse lega col Foresè, Mora, Piazza, Carlo Scrimitore, Michele Tamburino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana ecc. e varj simili uomini della feccia del popolo. Redarguito poi, come avendo egli il mandato per la uccisione di porta Ticinese, ne facesse spargere in altre porte, e convinto d'inverosimiglianza somma nel suo racconto, ecco cosa si vede che rispondesse esso Gian-Stefano Baruello nel suo esame 12 settembre 1630.

Et cum haec dixisset, et ei replicaretur haec non esse verisimilio, et propterea hortaretur ad dicendam veritatem [Avendo ciò detto ed essendogli stato replicato che le cose da lui dette non erano verosimili, fu esortato a dire la verità]
Resp.: «Uh! uh! uh! Se non la posso dire», extendens collum et toto corpore contremiscens, et dicens [tendendo il collo e scuotendo tutto il corpo]: «V. S. m'ajuti, V. S. m'ajuti».
Ei dicto [Essendogli stato detto]: «Che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo, che però accenni, che se s'intenderà in che cosa voglia essere ajutato, si ajuterà potendo».
Tunc denuo incepit se torquere, labia aperire, dentes perstringendo, tandem dixit [Allora nuovamente cominciò a torcersi, ad aprire le labbra, a stringere i denti e finalmente disse]: «V. S. mi ajuti; signore, ah Dio mio! ah Dio mio!».
Tunc ei dicto: «Avete forse qualche patto col Diavolo? Non vi dubitate e rinunziate ai patti, e consegnate l'anima vostra a Dio che vi ajuterà».
Tunc genuflexus dixit [Allora inginocchiatosi disse]: «Dite come devo dire, signore».
Et ei dicto: «Che debba dire: io rinunzio ad ogni patto che io abbia fatto col Diavolo, e consegno l'anima mia nelle mani di Dio e della B. Vergine, col pregarli a volermi liberare dallo stato nel quale mi trovo, ed accettarmi per sua creatura».
Quae cum dixisset, et devote et satis ex corde, ut videri potuit, surrexit, et cum loqui vellet, denuo prorupit in notas confusas porrigendo collum, dentibus stringendo volens loqui, nec valens, et tandem dixit [Dette queste cose, devotamente e abbastanza sinceramente, come si poté vedere, si alzò e, volendo parlare, emise dei suoni confusi, sporgendo il collo, stringendo i denti, volendo parlare e non riuscendovi, tuttavia disse]: «Quel prete Francese».
Et cum haec dixisset statim se projecit in terram, et curavit se abscondere in angulo secus bancum, dicens [E, pronunziate queste parole, si gettò immediatamente a terra, tentando di nascondersi in un angolo sotto il banco, e disse]: «Ah Dio mi! ah Dio mi! ajutatemi, non mi abbandonate».
Et ei dicto: «Di che temeva?».
Resp.: «È 1à, è là quel prete Francese con la spada in mano, che mi minaccia, vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra».
Et ei dicto: «Che facesse buon animo, che non vi era alcuno, e che si segnasse e si raccomandasse a Dio, e che di nuovo rinunziasse ai patti che aveva col Diavolo, e si donasse a Dio ed alla Beata Vergine».
Cum haec verba dixissem, dixit iterum [Avendo io detto queste parole, esclamò nuovamente]: «A signore, ei viene, ei viene colla spada nuda in mano»: quae omnia quinquies replicavit, et actus fecit quos facere solent obsessi a Daemone, et spumam ex ore sanguinemque e naribus emittebat, semper fremendo et clamando [e ripeté queste parole cinque volte, e fece quegli atti che sono soliti fare gli ossessi dal demonio, emettendo bava dalla bocca e sangue dal naso, sempre tremando ed esclamando]: «Non mi abbandonate, ajuto, ajuto, non mi abbandonate».
Tunc jussum fuit afferri aquam benedictam, et vocari aliquem sacerdotem, quae cum allata fuisset, ea fuit aspersus: cum postea supervenisset sacerdos, eique dicta fuissent omnia suprascripta, sacerdos, benedicto loco et in specie dicta fenestra ubi dicebat dictus Baruellus extare illum praesbiterum cum ense nudo prae rnanibus et minantem, variis exorcismis tamen usus fuit, et auctoritate sibi uti sacerdoti a Deo tributa, omnia pacta cum Daemone innita, irrita et nulla declarasset, immo ea irritasseti et annullasset, interim vero dictus Baruellus stridens dixit [Allora venne ordinato di portare dell'acqua benedetta e di chiamare qualche sacerdote; come arrivò l'acqua, ne fu asperso. Sopraggiunse un sacerdote al quale vennero riferite le cose suddette e il sacerdote, dopo aver benedetto il luogo e in special modo la finestra dove il Baruello diceva essere il prete con la spada in mano e minaccioso, fece vari esorcismi e, con l'autorità concessagli da Dio quale sacerdote, dichiarò annullato ogni patto col Diavolo, anzi lo annullò e lo rese vano; frattanto il detto Baruello urlando disse]: «Scongiurate quello Gola Gibla», contorquendo corpus more obsessorum, et tandem finitis exorcismis sacerdos recessit [contorcendo il corpo al modo degli ossessi e infine, terminati gli esorcismi, il sacerdote se ne andò].
Excitatus pluries ad dicendum, tamen in haec verba prorupit [Più volte invitato a parlare, disse infine con foga]: «Signore, quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano, e levando una bacchettina nera, lunga circa un palmo che teneva sotto la veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano a un libro lungo in foglio, come di carta piccola da scrivere, ma era grossa tre dita, e l'aperse, ed io vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno, e mi disse che era la Clavicola di Salomone, e disse che dovessi dire, come disse queste parole: "Gola Gibla"; e poi disse altre parole ebraiche, aggiungendo che non dovessi uscir fuori del cerchio perché mi sarebbe succeduto male, e in quel punto comparve nello stesso circolo uno vestito da Pantalone, allora detto prete, ecc.». Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que' tempi. Il risultato di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la vita e l'impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll'opera di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccarìa, Licchiò, Saracco, Fusaro, un barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello, Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa plebe.

Quanto poi alle vociferazioni pubbliche, alcune attribuivano queste unzioni ai Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di distruggere l'Italia, altre agli Eretici e particolarmente Ginevrini, altre al duca di Savoja, altre, non si sa poi ben come, ad alcuni gentiluomini Milanesi, fatti prigionieri dal papa e rimandati in Milano; altre finalmente al conte Carlo Rasini, a D. Carlo Bossi, più che ad ogni altro si attribuirono al cavaliere di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a spargere l'unzione. Che varj banchieri pagassero largamente questi emissarj, e fra questi Giambattista Sanguinetti, Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e che questi sborsassero qualunque somma, senza ritirarne quitanza, a qualunque uomo si presentasse loro in nome del cavaliere Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de' negozianti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il cavaliere Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva che in Milano avesse formato e diretto questo attentato, egli era a Mortara e altre terre del Piemonte, ove combatteva alla testa della sua compagnia in difesa di questo stato. Merita di essere trascritta la risposta ch'ei fece in processo quando fu costituito reo di queste unzioni. Così egli dice: «Io mi maraviglio molto che il senato sia venuto a risoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non solo a me, ma alla giustizia istessa». Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dalla narrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. «Come», proseguì esso cavaliere, «un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso, avevo io da fare, né pensare cosa che a loro e a me portasse tanta nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta.» Questa risposta, detta nel calore di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l'infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio, e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de' suoi giudici e del suo tempo.
La serie del delitto contestato al cavaliere di Padilla Si ricava dalla narrazione medesima del reato, e vi si scorge il sugo de' romanzi forzatamente creati colla tortura: io ne compilerò l'estratto semplicemente, giacché troppo riuscirebbe di tedio l'intiera narrazione, e porrò in margine le osservazioni opportune. Risultò adunque la diceria seguente:
Circa al principio del mese di maggio il cavaliere di Padilla vicino alla chiesa di S. Lorenzo parlò al barbiere Giacomo Mora, ordinandogli che facesse un unto da applicare ai muri e porte onde risultasse la morte delle persone, assicurandolo che danari non ne sarebbero mancati, e non temesse, perché «avrebbe trovato molti compagni». Indi altra volta, pochi giorni dopo, gli diede delle dobble perché ungesse, e vi era presente un gentiluomo, Crivelli; e il trattato fu fatto da certo D. Pietro di Saragozza; indi il barbiere allora fu avvisato che i banchieri Giulio Sanguinetti e Gerolamo Turcone avevano ordine di somministrare tutto il danaro occorrente a chiunque andava da essi in nome di D. Giovanni di Padilla. Carlo Vedano poi maestro di scherma fu il mezzano per indurre Gian-Stefano Baruello a fare di queste unzioni, e condusse il Baruello sulla piazza del castello, ove ritrovavansi Pietro Francesco Fontana, Michele Tamburino, un prete e due altri vestiti alla francese, ove dal cavaliere furongli dati dei danari, perché il Baruello ungesse e facesse parimenti ungere le forbici delle donne da Gerolamo Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato dicendogli: «Questo è un vaso d'unguento di quello che si fabbrica in Milano, ed ho a centinaia de' gentiluomini che mi fanno questi servizj, e questo vaso non è perfetto»; quindi gli ordinò di prendere de' rospi, delle lucertole ecc., e farle bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi temendo il Baruello di proprio danno col toccarlo, gli fece vedere il cavaliere a toccarlo senza timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il Pantalone, del quale ho già data notizia. Indi si vuole che il cavaliere dicesse al Baruello di non dubitare, che se la cosa andava a dovere, esso cavaliere sarebbe stato «padrone dl Milano, e voi vi voglio fare dei primi»; soggiungendo di nuovo «che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia, non avrebbe in alcun tempo confessato cosa alcuna». Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità, servì di base a un vergognosissimo reato.

 
 
 

Il Dittamondo (4-13)

Post n°1017 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XIII

Con gli occhi de la mente a te convene, 
che leggi, imaginar di punto in punto, 
se vuoi la via ch’io fo comprender bene. 
Sizia ho cercato e sono, alfine, giunto: 
sempre dal destro, l’oceano e i monti 5 
Iperborei e Rifei e qui fo punto; 
dal sinistro, il Danubio e le sue fonti: 
or ciò ch’è in mezzo a queste due confini, 
in fino a qui, Sizia par che si conti; 
poi quanto dal principio pellegrini 
del Danubio, com’io ti scrivo altrove, 
Pannonia è detta in fino a le sue fini. 
Dal monte Apennin lo nome move; 
copiosa è molto di metalli 
e marmi di piú guise ancor vi trove. 15 
Sale ha sí bel, che par che sien cristalli, 
larghe pasture e ubertose molto 
e, per cacciar, dilettevoli stalli. 
Lungo è il paese e in piú parti sciolto 
di gente, ond’elli isvarian di costumi 20 
e cosí fan di linguaggio e di volto. 
Divisi sono i regni da gran fiumi; 
ma sopra tutti l’Ungaria notai, 
la qual Mesia si scrive in piú volumi. 
Degna è d’onor, quanto reina mai, 25 
Isabetta, che fe’ al marito scudo 
del corpo, onde la man ne sentí guai. 
Ma, perché non rimanga passo ignudo 
in queste parti, che sia da notare, 
Burgari, Rossi e Bracchi qui conchiudo. 30 
Vidivi Sevo, che non minor pare 
di Rifeo, sopra questa provincia: 
alto è sí, che par che passi l’a’re. 
Dove ’l Danubio il suo corso comincia, 
e dove il Ren ne l’ocean s’annega, 35 
German son detti in lungo e per ischincia. 
Qui ritornai a quel, che non mi nega 
cosa che possa e dissi: "Li Buemmi 
sono per loro o col German si lega?" 
"Come ’l rubino e ’l zaffir son due gemmi 40 
per sé ciascuna, questi son divisi": 
cotal risposta a la domanda femmi. 
"La lingua il dice e i lor costumi e i visi, 
i monti e i fiumi, apresso mi disse, 
come tu puoi veder se ben t’avisi". 45 
Poi, prima ch’io del paese uscisse, 
volsi sapere chi n’era signore 
per un che meco a ragionar s’affisse. 
"Un nipote d’Arrigo imperadore, 
figliuol del re Giovanni, il regno tene, 50 
poco del corpo e men troppo del core: 
Carlo si scrive e Cesar si contene. 
Ben so che sai chi è, ché per Italia 
quant’è di gran valor si dice bene. 
Menato fu come un fanciul da balia, 55 
patteggiato, a Melano a incoronarsi, 
dove acquistar potea piú lá che Galia. 
Quel che fece in Toscana ancora parsi 
e ’l trionfar di Puglia e di Fiorenza 
fu tôr danari e via pensar d’andarsi". 60 
"Or cosí va che la Somma Potenza, 
rispuosi a lui, consente signoria 
oggi nel mondo a sí fatta semenza!" 
Da lui partito, in vèr la Germania 
mi trassi, avendo l’occhio in vèr ponente, 65 
come Solino mi facea la via. 
German son detti per la molta gente 
che germina il paese e Alemanni 
da Leman, fiume ruvido corrente. 
Robusti, grandi e forti a tutti affanni 70 
gli uomini sono e ne le armi impronti, 
leali altrui e buon, se non l’inganni. 
Io vidi, per que’ boschi e per li monti, 
diverse fiere e con nuovi costumi, 
alce e uri, dico, e gran bisonti. 75 
E vidi gli erquinei che fanno lumi 
la notte, tal che mi fu maraviglia, 
tanto mi risplendean le vive piumi. 
Ne l’isola Gresana ancor si piglia 
d’un arbore il succin, c’ha le sue rama 80 
sí fatte e tal, ch’al pino s’assomiglia. 
Vidi una gemma: gallaico si chiama 
e, secondo ch’udio, la sua bontade 
passa l’arabe per nome e per fama. 
E vidi ancor, tra l’altre novitade, 
lo ceraunio, lo qual candido è quive 
come che ’l truovi in altre contrade. 
Di ciò che ho conto, ch’è per quelle rive, 
indi Solin mi disse la natura 
di punto in punto come la descrive, 90
e la propia forma e la figura.

 
 
 

Colonna Infame 04-3

Post n°1016 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

(seguito) Capitolo 4

Il capitano di giustizia, nella lettera al governatore, più volte citata, rende conto di quel confronto in questi termini: «Il Piazza animosamente gli ha sostenuto in faccia, esser vero ch'egli riceuè da lui tale unguento, con le circostanze del luogo e del tempo.» Lo Spinola dovette credere che il Piazza avesse specificate queste circostanze, contradittoriamente col Mora; e tutto quel sostenere animosamente si riduceva in realtà a un Signor sì, che è vero.

La lettera finisce con queste parole: «Si vanno facendo altre diligenze per scoprire altri complici, o mandanti. Fratanto ho voluto che quello che passa fosse inteso da V.E.,alla quale humilmente bacio le mani, et auguro prospero fine delle sue imprese.» Probabilmente ne furono scritte altre, che sono perdute. In quanto all'imprese, l'augurio andò a vòto. Lo Spinola, non ricevendo rinforzi, e disperando ormai di prender Casale, s'ammalò, anche di passione, verso il principio di settembre, e morì il 25, mancando sull'ultimo all'illustre soprannome di prenditor di città, acquistato nelle Fiandre, e dicendo (in ispagnolo): m'han levato l'onore. Gli avevan fatto peggio, col dargli un posto a cui erano annesse tante obbligazioni, delle quali pare che a lui ne premesse solamente una: e probabilmente non gliel avevan dato che per questa.

Il giorno dopo il confronto, il commissario chiese d'esser sentito; e, introdotto, disse: il Barbiero ha detto ch'io non sono mai stato a casa sua; perciò V.S. esamini Baldassar Litta, che sta nella casa dell'Antiano, nella Contrada di S. Bernardino, et Stefano Buzzio, che fa il tintore, et sta nel portone per contro S. Agostino, presso S. Ambrogio, li quali sono informati ch'io sono stato nella casa et bottega di detto Barbiero.

Era venuto a fare una tal dichiarazione, di suo proprio impulso? O era un suggerimento fattogli dare da' giudici? Il primo sarebbe strano, e l'esito lo farà vedere; del secondo c'era un motivo fortissimo. Volevano un pretesto per mettere il Mora alla tortura; e tra le cose che, secondo l'opinione di molti dottori, potevan dare all'accusa del complice quel valore che non aveva da sé, e renderla indizio sufficiente alla tortura del nominato, una era che tra loro ci fosse amicizia. Non però un'amicizia, una conoscenza qualunque; perché, «a intenderla così,» dice il Farinacci, «ogni accusa d'un complice farebbe indizio, essendo troppo facile che il nominante conosca il nominato in qualche maniera; ma bensì un praticarsi stretto e frequente, e tale da render verisimile che tra loro si sia potuto concertare il delitto». (64) Per questo avevan domandato da principio al commissario, se detto Barbiero è amico di lui Constituto. Ma il lettore si rammenta della risposta che n'ebbero: amico sì, buon dì buon anno. L'intimazione minacciosa fattagli poi, non aveva prodotto niente di più; e quello che avevan cercato come un mezzo, era diventato un ostacolo. È vero che non era, né poteva diventar mai un mezzo legittimo né legale, e che l'amicizia più intima e più provata non avrebbe potuto dar valore a un'accusa resa insanabilmente nulla dalla promessa d'impunità. Ma a questa difficoltà, come a tante altre che non risultavano materialmente dal processo, ci passavan sopra: quella, l'avevan messa in evidenza essi medesimi con le loro domande; e bisognava veder di levarla. Nel processo son riferiti discorsi di carcerieri, di birri e di carcerati per altri delitti, messi in compagnia di quegl'infelici, per cavar loro qualcosa di bocca. È quindi più che probabile che abbiano, con uno di questi mezzi, fatto dire al commissario, che la sua salvezza poteva dipendere dalle prove che desse della sua amicizia col Mora; e che lo sciagurato, per non dir che non n'aveva, sia ricorso a quel partito, al quale non avrebbe mai pensato da sé. Perché, quale assegnamento potesse fare sulla testimonianza de' due che aveva citati, si vede dalle loro deposizioni. Baldassare Litta, interrogato se ha mai visto il Piazza in casa o in bottega del Mora, risponde: signor, no. Stefano Buzzi, interrogato se sa che tra il detto Piazza et Barbiero vi passi alcuna amicitia, risponde: può essere che siano amici, et che si salutassero; ma questo non lo saprei mai dire a V.S. Interrogato di nuovo se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto Barbiero, risponde: non lo saprei mai dire a V.S.

Vollero poi sentire un altro testimonio, per verificare una circostanza asserita dal Piazza nella sua deposizione; cioè che un certo Matteo Volpi s'era trovato presente, quando il barbiere gli aveva detto: ho poi da darvi un non so che . Questo Volpi, interrogato su di ciò, non solo risponde di non ne saper nulla, ma, redarguito, aggiunge risolutamente: io giurarò che non ho mai visto che si siano parlati insieme.

Il giorno seguente, 30 di giugno, fu sottomesso il Mora a un nuovo esame; e non s'indovinerebbe mai come lo principiassero.

Che dica per qual causa lui Constituto, nell'altro suo esame, mentre fu confrontato con Gulielmo Piazza Commissario della Sanità, ha negato a pena hauer cognitione di lui, dicendo che mai fu in casa sua, cosa però che in contrario gli fu sostenuta in faccia; et pure, nel primo suo esame mostra d'hauere piena sua cognitione, cosa che ancor depongono altri nel processo formato; il che ancora si conosce per vero dalla prontezza sua in offerirli, et apparecchiarli il vaso di preseruatiuo, deposto nel suo precedente esame.

Risponde: è ben vero che detto Commissario passa da lì spesso dalla mia bottega; ma non ha prattica di casa mia, né di me.

Replicano: che non solo è contrario al suo primo esame, ma ancora alla depositione d'altri testimonij...

Qui è superflua qualunque osservazione.

Non osaron però di metterlo alla tortura sulla deposizion del Piazza, ma che fecero? ricorsero all'espediente degl'inverisimili; e, cosa da non credersi, uno fu il negar che faceva d'avere amicizia col Piazza, e che questo praticasse in casa sua; mentre asseriva d'avergli promesso il preservativo! L'altro che non rendesse un conto soddisfacente del perché aveva fatta in pezzi quella scrittura. Ché il Mora seguitava a dire d'averlo fatto senza badarci, e non credendo che una tal cosa potesse importare alla giustizia; o che temesse, povero infelice! d'aggravarsi confessando che l'aveva fatto per trafugar la prova d'una contravvenzione, o che infatti non sapesse ben render conto a sé stesso di ciò che aveva fatto in que' primi momenti di confusione e di spavento. Ma sia come si sia, que' pezzi gli avevano: e se credevano che in quella scrittura ci potesse esser qualche indizio del delitto, potevan rimetterla insieme, e leggerla come prima: il Mora stesso gliel aveva suggerito. Anzi, chi mai crederà che non l'avessero già fatto?

Intimaron dunque al Mora, con minaccia della tortura, che dicesse la verità su que' due punti. Rispose: già ho detto quello che passa intorno alla scrittura; et puole il Commissario dir quello che vole, perché dice un'infamità, perché io non gli ho dato niente.

Credeva (e non doveva crederlo?) che questa fosse in ultimo la verità che volevan da lui; ma no signore; gli dicono che non se gli ricerca questa particolarità, perché sopra di essa non s'interroga, né si vole per adesso altra verità da lui, che di sapere il fine perché ha scarpato (stracciato) la detta scrittura, et perché ha negato et neghi che il detto Commissario sia stato alla bottega sua, mostrando quasi di non hauer cognitione di lui.

Non si troverebbe, m'immagino, così facilmente un altro esempio d'un così sfrontatamente bugiardo rispetto alle formalità legali. Essendo troppo manifestamente mancante il diritto d'ordinar la tortura per l'oggetto principale, anzi unico, dell'accusa, volevano far constare ch'era per altro. Ma il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra. Compariva così di più, che non avevano, per venire a quella violenza, altro che due iniquissimi pretesti: uno dichiarato tale in fatto da loro medesimi, col non voler chiarirsi di ciò che contenesse la scrittura; l'altro, dimostrato tale, e peggio, dalle testimonianze con cui avevan tentato di farlo diventare indizio legale.

Ma si vuol di più? Quand'anche i testimoni avessero pienamente confermato il secondo detto del Piazza su quella circostanza particolare e accessoria; quand'anche non ci fosse stata di mezzo l'impunità; la deposizion di costui non poteva più somministrare nessun indizio legale. «Il complice che varia e si contradice nelle sue deposizioni, essendo perciò anche spergiuro, non può fare, contro i nominati, indizio alla tortura... anzi nemmeno all'inquisizione... e questa si può dire dottrina comunemente ricevuta dai dottori.» (65)

Il Mora fu messo alla tortura!

L'infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d'aver detta la verità. Oh Dio mio; non ho cognitione di colui, né ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire... et per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, né che sia mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore! misericordia! Ho stracciato la scrittura, credendo fosse la ricetta del mio elettuario... perché voleuo il guadagno io solamente.

Questa non è causa sufficiente, gli dissero. Supplicò d'esser lasciato giù, che direbbe la verità! Fu lasciato giù, e disse: La verità è che il Commissario non ha pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l'infelice rispondeva: V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò : la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d'Alessandro il grande, «il quale stava ascoltando pur anch'esso dietro ad un arazzo»: (66) dic quid me velis dicere (67) e la risposta di chi sa quant'altri infelici.

Finalmente, potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar sé stesso, che il pensiero del supplizio, disse: ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù, che dirò la verità.

Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l'immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con un'illegale impunità. L'armi eran prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento.

Vedendo che il dolore produceva l'effetto che avevan tanto sospirato, non esaudiron la supplica dell'infelice, di farlo almeno cessar subito. Gl'intimarono che cominci a dire.

Disse: era sterco humano, smojazzo (ranno; ed ecco l'effetto di quella visita della caldaia, cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia); perché me lo domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le case, et di quella materia che esce dalla bocca dei morti, che son sui carri. E nemmen questo era un suo ritrovato. In un esame posteriore, interrogato dove ha imparato tal sua compositione, rispose: diceuano così in barbarìa, che si adoperaua di quella materia che esce dalla bocca de' morti... et io m'ingegnai ad aggiongervi la lisciuia et il sterco. Avrebbe potuto rispondere: da' miei assassini, ho imparato; da voi altri e dal pubblico.

Ma c'è qui qualche altra cosa di molto strano. Come mai uscì fuori con una confessione che non gli avevan richiesta, che avevano anzi esclusa da quell'esame, dicendogli che non se gli ricerca questa particolarità, perché sopra di essa non s'interroga? Poiché il dolore lo strascinava a mentire, par naturale che la bugia dovesse stare almeno ne' limiti delle domande. Poteva dire d'essere amico intrinseco del commissario; poteva inventar qualche motivo colpevole, aggravante, dell'avere stracciata la scrittura; ma perché andar più in là di quello che lo spingevano? Forse, mentre era sopraffatto dallo spasimo, gli andavan suggerendo altri mezzi per farlo finire? gli facevano altre interrogazioni, che non furono scritte nel processo? Se fosse così, potremmo esserci ingannati noi a dir che avevano ingannato il governatore col lasciargli credere che il Piazza fosse stato interrogato sul delitto. Ma se allora non abbiam messo in campo il sospetto che la bugia fosse nel processo, piuttosto che nella lettera, fu perché i fatti non ce ne davano un motivo bastante. Ora è la difficoltà d'ammettere un fatto stranissimo, che ci sforza quasi a fare una supposizione atroce, in aggiunta di tante atrocità evidenti. Ci troviam, dico, tra il credere che il Mora s'accusasse, senza esserne interrogato, d'un delitto orribile, che non aveva commesso, che doveva procacciargli una morte spaventosa, e il congetturar che coloro, mentre riconoscevan col fatto di non avere un titolo sufficiente di tormentarlo per fargli confessar quel delitto, profittassero della tortura datagli con un altro pretesto, per cavargli di bocca una tal confessione. Veda il lettore quel che gli pare di dovere scegliere.

Note

(continua)

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 04

Post n°1015 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 4

Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian Giacomo Mora

Il Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza, ed è, che terminata la tortura del Piazza, i giudici ordinassero di ricondurlo in carcere colle ossa slogate, quale era, senza rimetterle a luogo, e che l'orrore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca l'accusa a se stesso del Piazza; ma nel processo, che ho nelle mani, di ciò non vedo alcun vestigio. Appare da questo, che fosse promessa al Piazza l'impunità qualora palesasse il delitto e i complici. È assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a quest'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente non esservi per lui fuorché l'accusarsene e nominare i complici, così avrebbe salvata la vita e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza dunque chiese ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d'avere unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l'unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo della Vedra (ove attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo, e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: «È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì». Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena conoscenti, «amico di buon dì, buon anno». Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. I1 barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega «Vi ho poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose: è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a tre dì me lo diede poi». Questo è il principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano «tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagnia chiamato Matteo che fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto barbiere». Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette:

I - Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano;
II - Che si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all'aria aperta, al solo contatto diano la morte:
III - Che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli;
IV - Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso;
V - Che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione;
VI - Che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie, cercasse superfluamente de' complici;
VII - Che per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra un uomo appena conosciuto;
VIII - Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj,

e il Piazza ne assumesse l'incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall'altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de' spasmi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più inverosimiglianza. Anche nella Francia in que' tempi fu bruciata 1a marescialla d'Ancre, come strega, per sentenza del parlamento di Parigi: tutta l'Europa era assai più nelle tenebre, di quello che ora vi sia. È da osservare che anche in quest'orribile disordine vi si immischiò il sortilegio, la fattucchieria; e l'infelice Piazza, per trovare la scusa perché non avesse fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice, «detta la verità», in prima rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede da bere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome aveva fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò.

Su questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e quello che pure meritava osservazione fu, che lo colsero in sua casa fra la moglie e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la colonna infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell'unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì 21 giugno; che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza, seguita il giorno 22 che fu sabato: e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto dell'arresto conferma l'innocenza, non meno che la sorpresa di quest'infelice. Egli aveva preparato pel commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso, ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento, di cui descrisse poi la ricetta, che in que' tempi si conosceva sotto il nome di «unguento dell'impiccato». Il commissario diede l'ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione prima che glielo consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato l'unguento che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di esser legato per un simile motivo: «Se per sorte», (dice egli mentre è arrestato in casa, prima di condurlo prigione) «sono venuti in casa, perché io abbia fatto quell'elettuario e non l'abbia potuto fare, non so che farci, l'ho fatto a fine di bene e per salute de' poveri»; poi allo sbirro diceva: «Non stringete la legatura alla mano, perché non ho fallato»; indi sospirando e battendo un piede, esclamò: «Sia lodato Iddio!».

Nella minutissirna visita fatta alla casa in presenza del Mora egli rese conto de' barattoli d'unguenti, d'elettuarj e d'altre polveri e pillole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta vi si osservò «un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca, la quale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava» Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che al toccarlo conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una caldaja visibile a tutti, in una casa dove v'erano più uomini, perché i Mora aveva figlj e moglie, come consta anche dal processo? Le tenere fanciulle e la figlia per la quale risulta che aveva fatto un unguento per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà di ragazzi un veleno che uccide col tatto, riponendolo in una caldaja fissata nel muro del cortile? Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il fabbricatore e distributore dell'unto conservasse placidamente quel corpo di delitto alla vista, riposto nel cortile? Nessuno di tai pensieri venne in capo al giudice. Interrogato il Mora cosa contenesse quella caldaja, rispose nell'atto della visita: «L'è smoglio», cioè ranno. Nuovamente poi interrogato nel primo esame, rispose: «Signore, io non so niente, l'hanno fatto far le donne: che ne dimandino conto da loro che lo diranno; e sapeva tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser oggi condotto prigione: e quello è mestiero che fanno le donne, del quale io non mi impedisco». Su di questo proposito interrogata la moglie dello sventurato Mora per nome Chiara Brivia, risponde d'aver fatto il bucato quindici giorni prima, e d'aver lasciato del ranno «nella caldara, quale è là nel cortino».

Questo ranno doveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje. Margarita Arpizzanelli prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo al giudice: «Sa V. S. che con il smoglio guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare?». Si vede che il fanatismo era al colmo, e che le persone che si esaminavano, a costo d'inventare nuove e sconosciute proprietà, volevano sacrificare una vittima, e credevano di servir Dio e la patria inventando un delitto. Si visita il ranno da questa Arpizzanelli lavandaja, e questa giudica: «Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle furfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco, bianco, e non è tacchente come questo, il quale ha brutto colore, ed è tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa; ma quello del vero smoglio, in movendosi il vaso in che si trova, si move tutto il detto fondo». Presso poco diè lo stesso giudizio l'altra lavandaja Giacomina Endrioni, che disse: «Mi pare che vi sia qualche alterazione, ed il smoglio si vede che quanto più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con lo smoglio marzo, cattivo, si fanno di gran porcherie e tossichi». Non credo che verun chimico saprebbe fare un veleno coll'acqua del bucato. In una bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento viscido, grasso, giallo dopo varj giorni d'estate?

Né fu meno funesto il giudizio de' fisici. Il fisico collegiato Achille Carcano concluse con quella opinione: «Io non ho osservato troppo bene che cosa facci lo smoglio, ma dico bene che per rispetto alla ontuosità, che si vede in quest'acqua può essere causata da qualche panno ontuoso lavato in essa, come sarebbe mantili, tovaglie e cose simili; ma perché in fondo di quell'acqua vi ho vista ed osservata la qualità della residenza che vi è, e la quantità in rispetto alla poca acqua, dico e concludo non potere in alcun modo a mio giudizio essere smoglio». Le due lavandaje lo giudicano smoglio «con delle furfanterie» e con qualche «alterazione»; il medico dice che in alcun modo «non è smoglio», e lo asserisce perché a proporzione del sedimento vi è poca acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto nel mese di giugno non potesse l'acqua essere svaporata per la maggior parte! Fa ribrezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori e dagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di ragione in quelle feroci circostanze. Due altri, cioè il fisico Giambattista Vertua e Vittore Bescapé decisero presso poco come il fisico Carcano, e conclusero di non saper conoscere che composto fosse quello della caldaja.

Su questo giudizio e sulla deposizione del commissario Piazza, che anche al confronto col barbiere Mora sostenne l'accusa datagli, esclamando sempre il Mora e dicendo: «Ah Dio misericordia! non si troverà mai questo», andò progredendo il processo.

Terminato il confronto si pose al secondo esame il Mora. Il Piazza aveva detto di essere stato a casa del Mora, aveva citati Baldassare Litta e Stefano Buzzi come testimonj del fatto. Esaminato il Litta il giorno 29 giugno, «se mai ha visto il Piazza in casa o bottega del Mora», rispose: «Signor no». Esaminato il Buzzi nel giorno istesso, «se sa che tra il Piazza e il barbiere passi alcuna amicizia», rispose: «Può essere che siano amici e che si salutassero, ma questo non lo saprei mai dire a V. S.». Interrogato, «se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto barbiere», rispose: «Non lo saprei mai dire a V. S.». Tali funno le deposizioni de' due testimonj, che il Piazza citò per provare di essere stato a casa del barbiere. Il barbiere negava che fosse mai stato il Piazza a casa di lui. Su questa negativa il barbiere fu posto a crudelissima tortura col canape. Ciò si eseguì il giorno 30 di giugno. Il povero padre di famiglia Gian-Giacomo Mora, uomo corpulento e pingue, a quanto viene descritto nel processo, prima di prestare il giuramento si pose ginocchioni avanti il Crocifisso ed orò, indi baciata la terra si alzò e giurò. Quando cominciarono i tormenti esclamò: «Gesù Maria sia sempre in mia compagnia, son morto». Il tormento cresceva, ed egli esclamava, protestava la sua innocenza e diceva: «Vedete quello che volete che dica che lo dirò». Fa troppo senso all'umanità il seguitare questa scena, che non pare rappresentata da uomini, ma da que' spiriti malefici che c'insegnano essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi l'infelice Mora promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti; si sospesero. Calato al suolo disse: «La verità è che il commissario non ha pratica alcuna meco». Il giudice gli rispose che «questa non è la verità che ha promesso di dire, perciò si risolva a dirla, altrimenti si ritornerà a far levare e stringere». Replicò lo sgraziato Mora: «Faccia V. S. quello che vuole». Si rinnovarono gli strazj, e il Mora urlava «Vergine santissima sia quella che m'ajuta». Sempre se gli cercava la verità dal giudice, egli ripeteva: «Veda quello che vuole che dica, lo dirò». L'eccesso dello spasimo attuale era quello che l'occupava, e finalmente disse il Mora: «Gli ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al commissario». Con tal espediente fu cessato il tormento, quindi per non essere nuovamente ridotto alle angoscie viene a dire: «Era sterco umano, smojazzo, perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti». Vedesi la produzione forzata dalla mente di un miserabile oppresso dallo spasimo. Lo sterco e il ranno non bastavano a dar la morte: egli inventa la saliva degli appestati; poi proseguendo le interrogazioni e le risposte, dice il Mora che ebbe dal commissario Piazza per il peso di una libbra di quella materia della bocca degli appestati e la versò nella caldaja, e che gliela diede per fare quella composizione onde si ammalassero molte pelsone, e avrebbe lavorato il commissario, e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere. Conclude col dire che questo concerto fu fatto, «trattandosi così tra noi ne discorressimo».

Il Piazza che aveva levata l'impunità non diceva niente di tutto ciò. Anzi diceva di essere stato invitato dal Mora. Come mai raccogliere clandestinamente tanta bava per una libbra? Come raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde la moglie, i teneri incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure, e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come sperar guadagno vendendo l'elettuario: mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e più assurdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle funeste passioni de que' tempi infelici. Il giorno vegnente, cioè il primo di luglio fu chiamato il Mora all'esame per intendere «se ha cosa alcuna da aggiungere all'esame e confessione sua che fece jeri. dopo che fu omesso da tormentare», ed ei rispose: «Signor no, che non ho cosa da aggiungervi, ed ho più presto cosa da sminuire». Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose all'interrogazione: «Quell'unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti» A tale proposizione fugli minacciato, che se si ritrattava dalla verità detta il giorno avanti. «per averla si verrà contro di lui a tormenti»: a ciò rispose il Mora: «Replico che quello che dissi jeri non è vero niente, e lo dissi per i tormenti». Postea dixit: «V. S. mi lasci un poco dire un' Ave Maria, e poi farò quello che il Signore mi inspirerà»: postea genibus flexis se posuit ante imaginem Crucifixi depictam, et oravit per spatium unius miserere deinde surrexit, mox rediit ad examen. Et iterato juramento, interrogatus [indi si pose in ginocchio dinanzi all'immagine del Crocefisso e disse un miserere: si alzò e ritornò all'esame. Ripetuto il giuramento, alla domanda]: «che si risolva ormai a dire se l'esame che fece jeri, e il contenuto di esso è vero», respondit «In coscienza mia, non è vero niente». Tunc jussum fuit duci al locum tormentorum [Allora si comandò che fosse condotto al luogo del supplizio], con quel che segue, ed ivi poi legato, mentre si ricominciava la crudele carnificina, esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più «tormenti, che la verità che ho deposto la voglio mantenere»; allora lo slegarono e il ricondussero alla stanza dell'esame, dove nuovamente interpellato, «se è vero come sopra ha detto, che l'esame che fece jeri sia la verità nel modo che in esso si contiene», rispose: «Non è vero niente». Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum etc.: e così con questa alternativa dovette alfine soccombere, e preferire ogni altra cosa alla disperata istanza de' tormenti. Ratificò il passato esame e si trovò nel caso nuovamente di proseguire il funesto romanzo. Ecco quanto inverosimile sia il racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che appena egli conosceva di figura, e col quale anche dal processo risulta che non aveva famigliarità, quel Piazza adunque «la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso di quella materia, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo i catenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo». Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perché consegnarla al barbiere acciocché «gli accomodasse un vaso?». Mancavano forse ammalati in quel tempo, mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perché non ungere immediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. «Si pigliava», prosegue l'infelice Mora, «di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava il commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura». Lo sterco e l'acqua del bucato non potevano che indebolire l'attività della bava degli appestati.

Tessuto così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all'esame il Piazza, che aveva l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual modo fabbricato l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere materia per fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: «Signor no, che non lo so». Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva l'impunità dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendolo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti l'avrebbe scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia somministrato la bava, si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo ragionamento poteva pur farlo il giudice; ma sgraziatamente la ragione non ebbe parte veruna in tutta quella sciagura. Il giudice allora disse al Piazza, che dal processo risultava che egli avesse somministrato la bava de' morti al barbiere, e su di ciò nuovamente il giudice l'interrogò così: «Che dica per qual causa nel suo esame e confessione, qual fece per godere l'impunità, non depose questa particolarità, sostanza del delitto, siccome era tenuto di fare?». E a ciò rispose il Piazza: «Della sporchizia cavata dalla bocca dei morti appestati io non l'ho avuta, né portata al barbiere, e del resto che ho confessato, adesso che sono stato interrogato, non me ne sono ricordato, e per questo non l'ho detto». Allora gli venne intimato, che per non aver egli mantenuta la fede di palesare la verità, e per aver «diminuita la sua confessione» non poteva più godere della impunità, a norma ancora della protesta fattagliene da principio. A questa minaccia il Piazza si rivolse subito ad accordare di aver somministrato la bava e di averne data al barbiere, non già una libbra, come disse il povero Gian-Giacomo Mora, ma «così un piattellino in un piatto di terra». Obbligato poi dall'interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, eccone la risposta, di cui l'assurdità abbastanza da sé sola si manifesta. Così dunque rispose lo sgraziato Piazza: «Io mi mossi instato e ricercato dal detto barbiere, il quale mi ricercò a così fare con promessa di darmi una quantità di danari, sebbene non la specificò, dicendomi che aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di danaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte, che mi avrebbe dato una quantità di danari». Conviene ricordarsi che il barbiere era un povero uomo, e basta vedere lo spazio che occupava la sua povera casetta. Egli poi era un padre di famiglia con moglie e figli, e non un ozioso e vagabondo, del quale si potesse far scelta per un simile orrore. Sin qui a forza di tormenti e di minacce si è trovato modo di far coincidere i due romanzi, e costringere il contraddicente a confermare la favola di chi aveva parlato prima. Vengono ora in campo da questa risposta due cose affatto nuove. Una si è che il barbiere promettesse «una quantità di danari»; l'altra si è che in questo affare vi entrasse «una persona grande»: né l'una né l'altra era stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all'esame il Mora. Interrogato se egli avesse promesso una quantità di danari al Piazza, rispose il Mora nel quinto esame del giorno 2 luglio 1630: «Signor no; e dove vuole V. S. che piglimi questa quantità di danari?». Allora gli venne detto dal giudice quanto risultava in processo e sui danari e sulla persona grande, e si redarguì perché dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole: «V. S. non vuol già se non la verità, e la verità io l'ho già detta quando sono stato tormentato, e ho detto anche d'avvantaggio»; dal quale fine si vede come l'infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta favola pronunziata, se non avesse temuto nuovi tormenti: «e ho detto anche d'avvantaggio»! Questo «anche» più chiaramente lo disse allorché ai due di luglio furongli dati i reati, e stabilito il breve termine di due soli giorni per fare le sue difese; sul qual proposito si legge in processo che il protettore de' carcerati disse al notajo così: «Per obbedienza sono stato dal signor presidente, e gli ho parlato; sono anco stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, e che quello l'ha detto per i tormenti; e perché io gli ho detto liberamente, che non voleva, né poteva sostenere questo carico di difenderlo, mi ha detto che almeno il sig. presidente sia servito di provvederlo di un difensore, e che non voglia permettere che abbia da morire indifeso»: da che si vedono più cose, cioè che il Mora teneva per certo di dover morire, e tutta la ferocia del fanatismo che lo circondava doveva averlo bastantemente persuaso; che, sebbene tenesse per certa la morte, liberamente diceva di avere mentito per i tormenti; e che finalmente il furore era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difendere questa disgraziata vittima, posto che il protettore diceva di non volere, né potere assumersene l'incarico. Il termine poi per le difese venne prorogato.

 
 
 

Il Dittamondo (4-12)

Post n°1014 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XII

Tanto son vago di cercare a dentro, 
ch’io mi lascio Solino alquanto a dietro 
ed esco fuor del suo segnato centro. 
E ciò ch’io veggio e per vero odo, impetro 
ne la mia mente, e poi cosí lo noto 
in questi versi con ch’io sono e cetro. 
Io son su l’ocean ghiaccio e rimoto, 
e a la fine di Suecia io sono 
in luogo pauroso, oscuro e vôto. 
Un’isola è apresso, ov’io ragiono: 
Scandelavia di lá nomar l’udio, 
onde Ibor fu, che giá fe’ sí gran trono. 
E sí come da quella mi partio, 
venendo in verso noi ne vidi un’altra 
piú dimestica assai al parer mio. 
La gente è quivi molto accorta e scaltra; 
vendono e compran pelli e cose strani, 
che mandan poi d’una provincia in altra, 
diversi uccei, gran penne di fagiani: 
Gottolandia da’ Gotti si dice, 
che prima l’abitâr ne gli anni strani. 
Dietro da me, lungo quella pendice, 
lassai Livalia, ove il fiume di Narve 
bagna il paese in fine a la radice. 
Per quel cammin, che piú dritto mi parve 
sotto ’l settentrion, vèr la marina, 
Norvegia lungo Isolandia m’apparve. 
Dal mezzodí con Dacia confina; 
da levante Galazia e da ponente 
l’Ibernico ocean li s’avvicina. 
Bianca, robusta e grande v’è la gente 
e il paese alpestro e con gran selve 
e freddo sí, che poco caldo sente. 
Assai v’è pesce, selvaggina e belve 
onde han la vita lor, ché da la terra 35 
biada, olio e vin non si divelve. 
Il mare intorno a tre parti la serra; 
pescator sono e cacciatori isnelli 
e, quai pirati, altrui per mar fan guerra. 
Girfalchi bianchi e novitá d’uccelli 40 
e diversi animai vi sono assai, 
orsi canuti e fibri grandi e belli. 
Un’acqua v’è, ch’a l’Elsa assomigliai. 
Da poi che ’l sole è giunto in Capricorno, 
passan piú dí, che non v’è giorno mai. 45 
Norvegia lascio e a Isolandia torno; 
prendo il cammino, a seguir la mia tema, 
dove il lago di Scarse dá del corno. 
Per molte isole si naviga e rema 
in quella parte, com son Lite e Edia 50 
e Silia nigra, Sanso e Finema. 
E come quel che volentier si spedia 
del suo cammin, Vetur, Chitan e Nu 
passai con gran fatica e con gran tedia. 
In questa parte, sotto il freddo piú, 55 
si passa in Prussia, ove Lettan si trova; 
senza fé son, quanto mai gente fu. 
La legge che hanno è sí bestiale e nova, 
ch’adoran ciò che prima il giorno vede, 
pur che sia cosa che con vita mova. 60 
E qual fa sacramento di gran fede, 
uccide un bo e, sul sangue di quello 
giurando, ’l giuro per fermo si crede. 
Cosí per questa strada, ch’io favello, 
entrai nel paese di Apollonia: 65 
pover mi parve in vista e poco bello. 
In Vandalia fui e per Graconia 
e da lá Turon e molti altri fiumi 
passai, che quella terra riga e conia. 
Poi chiara e nota la Buemmia fumi, 70 
copiosa d’argento e di metalli, 
con bella gente e di novi costumi. 
Praga v’è grande e con nobili stalli; 
l’Albia l’adorna e quel paese onora 
sí come corre per piani e per valli. 75 
Abeti e pini assai vi sono ancora, 
e orsi e pardi e diversi animali, 
che ne’ gran boschi stanno e fan dimora. 
Erbe aromatiche e medicinali 
molte si trovano e gran pro ne fanno 80 
la gente quivi in diversi mali. 
Fra l’altre fiere, una bestia v’hanno 
grande, che chiaman bo, crudele e dura, 
con lunghe corna, che ferir non sanno. 
D’altro l’ha proveduto la natura: 85 
ché sotto il mento ha come una borsa, 
che d’acqua l’empie e scalda in gran calura. 
E poi ch’egli è cacciato e messo in corsa, 
volgesi a dietro e l’acqua fuori getta 
e ciò che giunge pela e i nervi attorsa. 90 
E quanto piú è messo a grave stretta, 
piú scalda l’acqua e con piú ira torna 
in contro a quei che piú presso l’aspetta:
e cosí i cani e i cacciatori iscorna.

 
 
 

Rime di Celio Magno (66-69)

Post n°1013 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

66

O del mio paradiso uscio gradito,
dove mi chiama e poi m'esclude amore;
ben parlo io col mio sol, ma il suo splendore
da te m'è chiuso, e 'l mio sperar tradito.

Così Tantalo crede a dolce invito
d'avari pomi e fuggitivo umore:
e mentre l'alma ho dentro e 'l corpo fuore,
senza vita rimango in due partito.

Ma non vogliate voi dolce mia morte,
ch'io sì vicin languisca al mio diletto,
e invece di pietà pena riporte;

ché, se m'apriste già del vostro petto
per man d'amor l'adamantine porte,
perch'in questa l'entrar mi fia disdetto?

67

Di notte in braccio al mio tesor godea
felice furto; e per accorto farmi
de l'ora del partir, desto a chiamarmi
meco un picciol del tempo indice avea.

Guastollo Amor, che presso a noi giacea,
quasi del suo nemico insegna ed armi:
onde il tempo tradimmi, e fe' trovarmi
dal dì veloce in grembo a la mia dea.

Ma disse Amor: — Sia lieto e dolce inganno
questo; e segno a voi dia con quanta fretta
per mai più non tornar l'ore se n' vanno.

E che sol col seguir quel che diletta
in questa vita, d'ogni oltraggio e danno
contra 'l tempo crudel si fa vendetta. —

68

O lieto dì che 'l digiun lungo sciolto
a queste luci mie tanto bramose
di quella in cui mia vita il ciel ripose
m'ebbe ogni affanno in dolce gioia volto!

Al mio novo apparir nel suo bel volto
crebbe il color de le vermiglie rose:
e ne la fronte Amor dipinto espose
l'alto piacer dentro 'l suo petto accolto.

Deh chi la tenne a fren? Ch'al collo preste
m'apria le braccia, e da' coralli amati
sugger mi dava allor nettar celeste.

Col cor baciommi: e voi, cortesi e grati
al mio felice ardor, pegno me n' deste
con più d'un dolce sguardo, occhi beati.

69

In laude degli occhi dell'amata

Quanto in voi, donna, io miro,
tutto è grazia e bellezza
e m'empie il cor di meraviglia e foco.
S'al biondo crin mi giro,
l'oro ha minor vaghezza;
s'a l'alma fronte, il ciel sereno è un gioco;
chiamar poi rose è poco
i fior del vago viso,
o la man neve, e 'l seno.
Chi de la bocca a pieno
può 'l tesoro lodar? Chi 'l dolce riso?
Tutto è bel, tutto è caro:
ma più de' bei vostr'occhi il vanto è raro.
Son gli altri vostri onori
miracol di natura;
questo par che da Dio proprio discenda.
Quel vince ogni bel fuori
di voi; questo l'oscura:
cui cede anco ogni bel ch'in voi risplenda.
Né perché il ciglio ascenda
a tanto onor perdete
de l'altre parti il pregio:
che vostro è privilegio
parer più bella ove men bella sete.
Beltà con beltà giostra,
e vinca o perda, tutto è gloria vostra.
Così chi 'l ciel d'intorno
va contemplando e mira
ad uno ad uno i suoi ricchi ornamenti:
quinci l'azuro adorno,
quindi le stelle ammira
e la luna e le nubi alte e pendenti;
ma più ch'altro i lucenti
raggi del sol sublima,
e in lor più si compiace.
Né, s'altro men gli piace,
il ciel però di minor pregio estima,
ch'ogni cosa è perfetta,
e d'infinito bel pasce e diletta.
Anzi la maggior luce
che ne' vostr'occhi siede,
a le men chiare in voi splendor comparte;
com'anch'essa più luce
mentre arricchir si vede
da l'alte grazie a sé d'intorno sparte.
Io stupido ogni parte
adoro, e di tutte ardo
contemplator felice.
Pur, se talor mi lice
in quei lumi affisar l'avido sguardo,
tal dolcezza in me piove
che nulla invidio il paradiso a Giove.
E se mia vista inferma
contra sì chiari lampi
cede, o dar fugge a lor guardando noia,
geme e non sa star ferma:
né vuol Amor ch'io scampi,
ma che tosto ritorni a la mia gioia,
e ch'ivi, ardendo, moia;
ben ch'indi ognor rinasco,
quasi fenice nova.
E perché allor non trova
esca più dolce il cor, né d'altro il pasco,
da lor non pò né suole
o moto o raggio uscir, ch'io non l'invole.
Vidigli chini starse
dolcemente talora,
e sfavillar quasi coperti i rai:
in tal guisa mostrarse
d'aperta nube fuora
per anguste fenestre il sol mirai.
Dormir poi li trovai,
come 'l ciel mi concesse,
un dì, furtivo amante:
e 'n sì vago sembiante
posar, ch'invido il sol parea dicesse:
— Ahi, che contender ponno
con mia beltà, benché li chiuda il sonno! —
Ma quando s'alzan poi
al ciel fuor del bel velo,
e tutta la lor pompa ivi si spiega,
il sole i raggi suoi
vinti confessa, e 'l cielo
ch'in lui si fermin lungo spazio prega.
Al fin, s'in noi si piega
la lor divina fiamma,
qual cor non arde e strugge?
Chi mai più salvo fugge,
s'una sol volta del su' ardor s'infiamma?
Anzi, chi lieta sorte
non stima averne amando e strazio e morte?
Meravigliosi effetti,
che per trionfo e palma
d'amor, produce il guardo, or crudo or pio:
il ghiaccio arder ne' petti;
spegner, riponer l'alma;
far miser di felice, e d'uomo un dio.
Occhi, primo ardor mio,
fonti d'ogni valore,
specchi del sommo bene!
Ahi, che mal si conviene
mio basso stile a tanto alto splendore!
Poich'ei, già vinto e stanco,
sul cominciar de' vostri onor vien manco.
Dunque, s'altro non posso, idoli miei,
porgovi almen, divoto,
il silenzio per lode, e 'l cor per voto.

 
 
 

Rime di Celio Magno (56-65)

Post n°1012 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

56

Per li capiversi

Puro e candido latte o vaghe rose
a gigli miste è 'l vostro viso e 'l petto,
vive faville gli occhi ed oro schietto
le chiome, onde 'l mio laccio Amor compose;

il dolce riso ha poi tra preziose
novelle perle e bei rubin ricetto:
ahi, ch'io non giungo a l'alto mio concetto
voi pareggiando a quest'umane cose.

In ciel Venere, a voi simil, dimora;
toglie la gloria al sole un vostro sguardo:
ahi, che tal lode ancor poco v'onora.

Manca ogni essempio, ogni intelletto è tardo
in spiegar tanto bel: sì come ancora
a dir quant'io per voi mi struggo ed ardo.

57

O begli occhi, de l'alma esca felice,
per cui celeste ambrosia in terra pasce;
soavi fiamme in cui more e rinasce
per miracol d'amor nova fenice;

idoli miei beati, a cui m'addice
servo e divoto il ciel fin da le fasce;
stelle anzi prime voi, donde in me nasce
tutto quel c'ho di lieto e d'infelice;

o degli strai d'Amor doppia faretra,
contra cui si disarma ogni aspro core,
e i dolci colpi suoi per grazia impetra;

occhi, che fate altrui d'alto stupore
con sì rare bellezze immobil pietra,
sia benedetto il vostro dolce ardore!

58

Pria risplender le stelle a mezzo il giorno,
e per l'ombre notturne il sol vedrassi;
rivolgerà 'l gran Nilo indietro i passi,
nel fonte ignoto suo celando il corno;

mossi dal basso lor terren soggiorno
ascenderan per sé ne l'aria i sassi;
dura la neve incontra 'l sol farassi
e 'l verno andrà qual primavera adorno;

le sfere pria de la magion superna
col tempo fermeransi, e gli elementi
senza guerra vivranno in pace eterna:

che spenta mai degli occhi almi e lucenti
si veggia nel mio cor la fiamma interna,
o pur favilla del su' ardor s'allenti.

59

— Scrivi — mi disse Amor, — ch'al mondo vive
sotto velo mortal celeste dea
che con un guardo sol l'anime bea,
d'ogni altro ben fuor del bel volto schive.

Dì che fiamme ho per lei sì calde e vive
che di ghiaccio eran l'altre ond'io v'ardea;
dì che 'l pensier formar non basta idea
ch'a l'alto segno de' suoi pregi arrive.

E 'l nome puoi tacer: ch'a tanta luce
scerner da l'altre alcun non dubbia od erra;
né per farlo palese il sol si mostra.

Ma goda quanto può la vita vostra
del suo splendor: ché raro il ciel produce
di tal beltà le meraviglie in terra. —

60

Sedea madonna, e col crin d'or spiegato
sul cerchio, onde dal sol riparo avea,
ombra a se stessa et ad Amor porgea
contra l'estivo ardor del giorno ingrato.

Teneale innanzi il bel fanciullo alato
il vetro, ove sua gloria ella scorgea;
quand'io, che fuor, ma più nel core, ardea,
fui da cortese man tra lor chiamato.

Né vago augel con sì veloci penne
tra frondi e fior sul mezzo dì s'imbosca,
come cors'io sotto il diadema adorno.

Ma da' begli occhi in me tal luce venne,
ch'a sol più ardente, a più sereno giorno,
trapassar mi sembrò da l'ombra fosca.

61

Tu, che bench'abbi il crin senile e bianco
né mai dal travagliar posi o respiri,
pareggi il corso de' celesti giri,
e più ch'affretti il piè, movi più franco;

tu, che ne tieni ognor gli sproni al fianco,
breve a' nostri piacer, lungo a' desiri,
e sol presti a virtù ch'eterna spiri
mentre con gli anni vien tutt'altro manco;

dì tu se de la mia donna più bella
scorgesti mai: ch'al mio giurar nol crede
e cortese lusinga il vero appella.

Ma il mio infinito ardor devria far fede
ch'anco infinita è sua bellezza, e ch'ella
quel nega invan che tutto 'l mondo vede.

62

Deh spiega, Noto, al ciel l'umide penne
dagli antri tuoi con fronte oscura e bruna,
e folte nebbie d'ogn'intorno aduna
quante irato adoprar mai ti convenne;

indi, se d'aspro duol ch'altri sostenne
ti punse il cor giamai pietate alcuna,
versa con tal furor pioggia importuna
ch'al mondo il ciel novo diluvio accenne.

Perché non sol partirsi indarno tenti
Cinzia, ma del camin ch'oggi prepara
per così tristo augurio ognor paventi:

ché senza la sua vista amata e cara
vinceria l'acque tue dal ciel cadenti
de le lagrime mie la pioggia amara.

63

Primo

Opra leggiadra e don gradito e caro
di quella man che 'l cor m'avinse,
picciolo velo in cui pietà ristrinse
alto conforto del mio stato amaro;

qual sì largo or destin, dianzi sì avaro
la mia nemica a tal mercé constrinse?
Ma sol mia fede ed umiltà la vinse:
ché senza premio Amor se n' va di raro.

Dunque, o cortese vel, m'asciuga il pianto;
e scossa del dolor l'antica salma,
in sen m'alberga al cor gioioso a canto.

Dove chi te formò sculta vedrai;
e tra dolci sospir di felice alma,
eterne grazie, eterni baci avrai.

64

Secondo

Ma chi sa se 'l desio m'ordisca inganno?
e 'l don porti per gioia anzi martire?
Fu si vaga ella ognor del mio languire,
che deggio aver del pro più certo il danno.

Lagrime chiede il velo: e sol d'affanno
pronto ministro serve al mio morire;
tal altrui già solea sfogando l'ire
mandar ferro o veleno empio tiranno.

O sotto pio sembiante Amor crudele!
Ch'al gustar del tuo ben dubbio il cor fai,
se amaro o dolce prova, assenzio o mele.

Ma vedrò tosto del mio sole a' rai
se questo è di pietà pegno fedele,
o pur m'annunzia eterno pianto e guai.

65

Se, come di temprar la lira al canto,
e di luce e splendor tra dèi celesti,
così de l'arte onde salute presti,
Apollo, a te si deve il primo vanto;

deh rendi a que' begli occhi il lume santo,
ch'egra empia nube or tien languidi è mesti:
e fallo pria che 'l duol risolva questi
occhi miei lassi in tristo umor di pianto.

Sì canterem dapoi con puro zelo
te nobil padre del Castalio fiume,
figlio di Giove e gran signor di Delo.

E quanti io darò baci al lor bel lume,
che saran più che non ha stelle il cielo,
renderò grazie al tuo cortese nume.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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