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Messaggi del 15/01/2015

Il Dittamondo (4-25)

Post n°1060 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXV

"Come udit’hai, due figliuoli ebbe Rollo: 
Guglielmo Lunga-spada e poi Riccardo, 
del qual tu sai, com’io, sino al merollo. 
Ardito e destro quanto un leopardo 
e bel del corpo Guglielmo diviso, 5 
sollicito, che al far mai non fu tardo. 
Di gran battaglie fece; al fine ucciso 
fu dal conte di Fiandra e nel suo loco 
Riccardo suo figliuol da’ suoi fu miso. 
Dopo costui, infiammato del foco 
de lo Spirito Santo, seguí il figlio, 
che giusto visse e ben tra ’l troppo e ’l poco. 
Al padre in forma e nome l’assomiglio. 
Apresso di costui, rimase reda 
Ruberto, franco e di alto consiglio. 15 
Seguita ora ch’a dir ti proceda 
come Guglielmo, nato di Ruberto, 
del regno d’Inghilterra si correda. 
Forte e grande si vide per certo, 
largo, cortese e grazioso a Dio, 20 
maestro in guerra e di consiglio esperto. 
Di Normandia con gran gente partio 
in contro Araldo e, lui ucciso, prese 
lo regno tutto e tenne a suo disio. 
Qui cambiò signoria questo paese 25 
e sappi ch’ogni re, che poi son stati, 
che da costui il suo principio prese. 
E perché meno al tempo ch’era guati, 
dico dal dí che nacque il nostro Amore 
da mille settanta anni eran passati. 30 
Vivendo Arrigo quarto imperadore, 
piú battaglie e piú fece costui 
e di tutte acquistò pro e onore. 
Guglielmo Ruffo seguio dopo lui, 
grande e forte e bello de le membra, 35 
superbo, avaro e micidial d’altrui. 
Al padre molto del corpo rassembra; 
ma di costumi li fu piú contraro 
ch’al foco l’acqua, quando sono insembra. 
Tanto ben ebbe, che in arme fu chiaro; 40 
molte battaglie fece a solo a solo, 
che tutte al suo onor si terminaro. 
Ma se fu reo, al fin n’ebbe gran duolo: 
ché, sendo al bosco e seguitando un cervo 
ed avendo smarrito ogni suo stuolo, 45 
ferito a ’nganno fu da un suo servo 
d’una saetta e quivi cadde in terra 
la carne fredda e incordato ogni nervo. 
Arrigo primo apresso il regno afferra; 
suo fratel fu, ma il padre somiglia 50 
ch’a Dio fu buono e giusto in pace e in guerra. 
Stefano poi apresso il regno piglia 
con molta guerra; tanto di lui dico 
che franco fu e ben se ne pispiglia. 
Seguio dietro da lui un altro Arrico, 55 
lo qual, dopo la guerra in Francia fatta, 
passò il mare col primo Federico. 
Fu poi Riccardo; apresso la baratta 
grave del mar, fu preso ne la Magna, 
tornando dal Sepolcro a la sua schiatta. 60 
Costui fu morto; ma sí se ne lagna 
Giovanni suo fratel, che la vendetta 
ne fece tal, ch’ancor par che sen piagna. 
In far bei doni e in guerra si diletta 
questo Giovanni, poi che fu signore, 65 
ora cacciando e or fuggendo in fretta. 
Bello del corpo e misero del core 
Arrigo suo figliuolo venne apresso, 
del qual parlare a me pare un dolore. 
Tanto ben ne puo’ dire, e io ’l confesso, 70 
che di lui nacque il buono Adoardo, 
del cui valore al mondo è fama adesso. 
Costui è quel che non ebbe riguardo 
de gli assassin del Veglio e che li prese 
e che pagò il buffon, se fu bugiardo. 75 
Costui è quel che oltra mare offese 
Melechdaer piú volte e che acquista 
per la fede cristiana gran paese. 
Come un gigante fu del corpo e in vista, 
grande e fiero e d’animo sí forte, 80 
che per avversitá mai non s’attrista. 
Gran tempo regna e, dopo la sua morte, 
prese il quinto Adoardo la corona, 
che con l’avolo suo fu d’una sorte: 
dico, per quello ch’ancor si ragiona, 85 
che fu cattivo e di vile intelletto 
né mai consiglio volse da persona. 
Odi gran cuor: che di coprire un tetto 
di paglia, intendi, si diceva mastro 
e qui talor ponea il suo diletto. 90 
A ’nganno prese il conte di Lancastro: 
quel che ne fece qui ti lascio a dire; 
ma in fin non li lasciò villa né castro. 
Cosí di grado in grado puoi udire 
che giunto sono ad Adoardo sesto, 95 
che ora vive largo e pien d’ardire. 
Dico per tutto ’l giro è manifesto 
ch’egli è il miglior cristian, ch’uom sappia al mondo. 
Ora t’ho detto, come m’hai richiesto,
la schiatta di Guglielmo in fine al fondo". 100

 
 
 

Rime di Celio Magno (166-171)

Post n°1059 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

166

[4]

Quegli occhi, amor, ch'a te Natura tolse
perch'ad un guardo sol l'umane genti
non avampasser tutte in fiamme ardenti,
a questa nova dea conceder volse;

E tal grazia e virtute in lor raccolse
ch'a strane meraviglie oprar possenti
fur primo ardor de le più nobil menti,
e 'l più bel pregio il regno tuo ne colse.

S'ella gli apria, bramar parean d'intorno
la terra e 'l ciel d'alta letizia pieni
esser percossi dal bel guardo adorno;

or che son spenti, e 'n loro a perder vieni
ogni tua gloria, a doppio danno e scorno
un'altra volta, Amor, cieco divieni.

167

Rompa e disperga il ciel l'indegna rete
ch'or vi tende crudel barbara mano;
ma se pur del nemico empio inumano
troppo, ohimè, nobil preda esser dovete,

me fido Acate sempre al fianco avrete.
mai non sarò da voi tronco o lontano;
fiami dolce ogni caso acerbo e strano,
e 'l travagliar per voi pace e quiete.

O di vera amicizia ardente affetto!
Può la via questo ne l'inferno aprirsi
per trarne spirto fuor caro e diletto.

E perché in morte al fido amico unirsi
possa, questo ancor suol con nudo petto
a mille piaghe, a mille strazi offrirsi.

168

A messer Marco Veniero

Col ricco vaso e 'l suo purgato inchiostro
di voi, saggio Venier, cortese dono,
scriver sol i' devrò ch'inferme sono
mie forze in render grazie al merto vostro.

E benché di Parnaso a l'alto chiostro
basso risponde de' miei carmi il suono,
scriverò quel ch'in mente ognor ragiono
di voi, novo splendor del secol nostro.

Ch'Apollo, a cui sì caro esser vi sento,
colmerà del mio ingegno i fonti asciutti,
per vostra gloria a la mia gloria intento.

Raro acquisto d'amor: poiché produtti
mi sono, ov'io mostrarmi, al mondo tento
più grato in voi, da voi più dolci frutti.

169

 [A Diomede Borghesi. 1]

Sì dolce al cor è 'l foco onde scaldollo
donna ch'al mio pregar mai non s'arretra;
ch'io non son mai di benedir satollo
d'Amor la face e l'arco e la faretra.

Amor destò 'l mio ingegno; Amor guidollo
in chiaro ciel da parte oscura e tetra:
per lui del suo favor Febo degnollo
e forse lunge il mio nome penètra.

Quinci al giogo d'Amor lieto i' sottentro
Con gli occhi sempre in un bel volto fissi;
e son di vera fé salda colonna.

Anzi al suo foco sì quest'alma unissi
ch'in speme ancor d'amarlo e l'ardern'entro
quand'io sia fuor di questa fragil gonna.

170

[2]

Tu, se diè la tua speme indegno crollo
e 'l cor omai di ria prigion si spetra,
del giusto duol ch'in libertà tornollo
ringrazia umile il regnator de l'etra.

Ma dove del martir che si gravollo
ha da sé svelta il cor la pianta vetra,
inesta d'altro amor novo rampollo:
ch'è sasso un uom che senza amar s'invetra.

Dì pur: — Lieto il tuo calle, Amor, rientro;
ch'esser non può ch'altr'abbia e tu 'l soffrissi
tanto rigor quanto in colei s'indonna. —

Perché, Borghesi, raro invan servissi:
e 'l tuo merto poria, s'io 'l guardo a dentro,
mollir, non ch'uman petto, aspra colonna.

171

[Dalle Metamorfosi]

Un augel sol v'è che si rinova
e riproduce del suo proprio seme:
Fenice in Siria detto, a cui dan cibo
non biada o erbe, ma di puro incenso
lacrime e succo d'odorato amomo.
Questa, poi che cent'anni ha cinque volte
vivendo corsi, sopra un'elce ombrosa
o d'una palma tremolante in cima
con l'unghie e 'l duro rostro a sé compone,
già vecchia e stanca, il fortunato nido.
Di nardo con cinnamomo e mirra
costrutto un rogo, a quel sopra si pone,
e fra gli odor sua lunga età finisce.
Quindi è fama che, eletto ad altrettanti
anni varcar, da le paterne membra
nasca di novo un pargoletto augello;
il qual, come in robusta età si sente
atto a peso portar, del grave nido
disgrava gli alti rami, e grato e pio
de la natia sua culla e del paterno
sepolcro insieme, a sé fa dolce soma:
che poi, per l'aere a la Città del sole
giunto, davanti a le sacrate porte
del gran tempio di lui, depone e lascia.

 
 
 

'A maggnata

Post n°1058 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

'A maggnata

Che vvôja ciò dde famme 'na maggnata
de de cibbo bbono, propio quelo fino,
che tte só ddì? Sarciccia e ppecorino
e dde Frascati 'na bella 'nnaffiata!

Si a tte tte piace, magna l'inzalata,
co' la cepolla e 'n ber pommidorino;
io preferisco mezzo preciuttino
e, co' quattr'ova, me fò 'na frittata.

Su li tui gusti nun ce sputo mica,
ma pe' mme puro ha da valè artrettante:
magnamo 'n pace e Ddio ce bbenedica.

De cibbi scrausi, 'n famme sentì 'llezzo.
Io ciò 'r salame, quelo ch'è ppiccante,
e, si tte gusta, te ne dò 'n ber pezzo!

Valerio Sampieri
15 gennaio 2015

 
 
 

Il Dittamondo (4-24)

Post n°1057 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXIV

"A ciò che ’l mio parlar piú ti diletti, 
farò la tema mia maggiore un poco, 
venendo digradando a quel che aspetti. 
Cosí, com’hai udito, con gran foco 
ne l’arsion di Troia, e prima ancora, 
possedeano i giganti questo loco. 
Bruto, nel tempo a punto ch’io dico ora, 
con piú Troiani in quest’isola venne, 
che cacciò quelli e per signor dimora. 
La sua prosapia lungamente tenne 
lo regno poi, ma troppo avrei a dire 
s’io dovessi contar ciò che n’avenne. 
E però tu che leggi, s’hai desire 
di ciò sapere, guarda l’alta storia 
di Bruto, perché quivi il puoi udire. 
Lungamente regnaro in molta gloria; 
alfin ne fun signor que’ di Sansogna, 
secondo che per molti n’è memoria. 
Qui non ti conto il danno e la vergogna 
che l’isola in quel tempo sofferse, 
però ch’ad altro intender mi bisogna. 
Ma tanto ti vo’ dir: che strutte e sperse 
vi fun le genti e il regno partito 
in molte parti, in genti diverse. 
E Alis, ne gli anni ch’io ti addito, 
in Cantuaria prese a far suo regno: 
bel fu del corpo, cortese e ardito. 
Apresso di costui, Celin disegno, 
poi Edelberto, largo e temperato, 
cortese, franco e di nobile ingegno. 
In questo tempo, Agustin fu mandato 
qui per Ambruogio a predicar la fede, 
per le cui man costui fu battizato. 
Propio ne gli anni che ’l mio dir procede, 
quel di Scozia, d’Irlanda e Nordanibri, 35 
convertîr tutti e l’isola si crede. 
Ma perché molto son confusi i libri 
di tanti re, quanti v’erano allora, 
convien che da tal tema mi dilibri. 
Eran dal dí, che la Rosa s’infiora 40 
de la Luce del ciel, da quattrocento 
anni passati e piú sessanta ancora, 
quando Uter Pendragon con l’argomento 
del profeta Merlino signor fu 
di tutta l’isola a suo piacimento. 45 
Seguitò poi il suo figliuolo Artú, 
lo qual fu franco, largo e temperato 
quanto alcun altro nel suo tempo o piú. 
Tanto da’ suoi fu temuto e amato, 
che lungamente dopo la sua morte, 50 
che dovesse tornare fu aspettato. 
Senza reda rimase la sua corte; 
ma non che ’l regno fosse senza re, 
ché assai ve n’era d’una e d’altra sorte. 
D’un’altra schiatta ancor gran fama è, 55 
la qual fu prima e poi che Ludovico 
lo ’mperio e Francia tenesse per sé. 
Amondo fu di questi ch’io ti dico 
ed Edelfredo tenne il regno apresso, 
che del quinto Leon si fece amico. 60 
Filosofia amò quanto se stesso; 
Boezio spuose e fece alcun volume; 
buon fu per pace e fiero in arme adesso. 
Forte, clemente e con bel costume 
Adoardo seguio e, dopo lui, 65 
Atelstano, che fece a Scozia lume. 
Amondo fu di dietro da costui; 
apresso Edredo e di poi Eduino, 
che tolto li fu il regno per altrui. 
Segue un altro Adoardo, il cui destino 70 
tal fu che la noverca sua con fraude 
morir lo fece e tolsegli il domino. 
Ma non creda colui, che regna e gaude 
per uccidere altrui, che Dio nol paghe 
con simili percosse o con piú caude. 75 
Non dico piú; ma per le mortai piaghe, 
ch’Etelredo li fe’, lo regno prese: 
di che le genti funno triste e smaghe. 
Morto costui, il dominio discese 
al terzo Adoardo, nel quale si pensa 80 
che spirito profetico s’accese. 
Costui, istando realmente a mensa, 
dov’eran molti d’una e d’altra guisa, 
tenea la mente a imaginar sospensa. 
E ne lo imaginar si mosse a risa; 85 
poi, dimandato perch’ello ridea, 
a’ suoi secreti la cagion divisa: 
– Risi, però che in su quel punto vedea
in Celio monte i sette dormienti, 
che’n sul sinistro ciascun si volgea –. 90 
Cercato poi del ver, funno contenti. 
Piú cose fece e disse, ch’a ridire 
a Dio son belle e divote a le genti. 
Dopo costui, che santo si può dire, 
rimase Araldo a governar lo regno; 95 
ma poco il tenne, come potrai udire,
se pon l’orecchie a quel ch’a dir ti vegno".
 
 
 

Rime di Celio Magno (151-165)

Post n°1056 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

151

Manda all'illustrissimo signor Ascanio Pignatello il proprio ritratto

Ecco l'effigie d'un che sovra quante
alme fur mai di tua virtute accese,
T'onora e pregia, e dal tu' amor cortese
gradito anch'ei se n' va felice amante.
Ché se 'l camino a le bramose piante
d'inchinarti presente il ciel contese,
ben deggio quel ch'è tuo farti palese
con questo almen di me pinto sembiante.
Quinci averrà che 'l tuo pensier più spesso,
desto dal guardo, a mio favor si giri,
e teco io viva ognor lungi e da presso.
Pasci ancor tu, benigno, i miei desiri
de la tua imago; onde a quest'occhi espresso,
come al cor, t'abbia, e 'l ver nel finto ammiri.

152

Al signor Berardino Rota

Rota, se del tuo ricco e bel lavoro
che tessi in rime a le future genti
vo contemplando i vari alti ornamenti,
vinto, il guardo e 'l desio riman tra loro.
Tal quando il ciel ne scopre il bel tesoro
de le notturne sue gemme lucenti,
vien ch'altri indarno annoverarle tenti,
come l'arene ancor del lito moro.
Oh di che saldi e gloriosi marmi
sepolcro innalzi al tuo bel foco antico!
Di che chiari trofei morte disarmi!
Come ovunque t'invita Apollo amico
sforzando alletti al suon de' dolci carmi
ogni cor fero e di virtù nemico.

153

All'illustrissimo signor Marco Veniero.

Come in tela talora angusta e breve
de la terra i gran spazi e del mar gli ampi
seni e del ciel gl'immensi, adorni campi
vaga pittura in sé mostra e riceve;
così nel picciol don, benché non leve
s'al pregio io guardo, al mio pensier tu stampi
di tue chiare virtù ben mille lampi,
ch'ognun per guide al ciel prender si deve.
Tu d'alto e nobil cor, tu saggio e pio,
tu de la patria tua sovrano lume
e famoso di Febo eletto figlio.
Ma 'l sol de' merti tuoi m'abbaglia il ciglio,
e s'io tento appressar, m'arde le piume,
vinti gli occhi, il poter, l'opra e 'l desio.

154

All'illustrissimo signor Bernardo Navagero

Saggio signor: per quell'antico e degno
laccio onde tua virtute il cor mi strinse;
per quel famoso allor che 'l crin ti cinse
come a nobil di Febo amato pegno;
Per quell'ardor ch'a glorioso segno
sempre l'opre e pensier tua mente spinse,
e che sì vivo essempio in te dipinse
d'alta bontà congiunta ad alto ingegno;
per l'alma patria tua, ch'in onorarti
de' maggior premi suoi se stessa onora,
sendo del merto men quanto può darti:
deh fa che 'l frutto i' colga anzi ch'io mora
de' tanti miei per lei sudori sparti,
ch'in tua benigna e giusta man dimora.

155

Al clarissimo signor Domenico Veniero [1]

Qual di Meandro a le fiorite sponde
canoro cigno in sì soavi accenti
l'aria intorno innamora e queta i venti
e ritien di dolcezza il corso a l'onde?
Qual rosignuol tra le riposte fronde
così dolce raddoppia i suoi lamenti
che là non perda ove ne' cori intenti
alto diletto il cantar vostro infonde?
Chi del più rio martir ch'Amor n'apporte
cerca riposo e medicina nova
note v'oda formar sì dolci e scorte,
e chi Cerbero mosso e Pluto al canto
d'Orfeo non crede, a farne intera prova
fermi del vostro al suon l'orecchie alquanto.

156

[2]

Qual da nobil radice arida e priva
di succo in vista, uscir per vetro fuore
suol a forza di foco almo licore
ch'infermo sana e 'l vigor morto avviva,
tal, mentre il caso rio per voi s'udiva
di chi tanto v'offese, a voi dal core
stillò per gli occhi un lagrimoso umore
tratto fuor da pietate ardente e viva.
O d'eroica virtute essempio espresso
di sue vendette a Dio far largo dono
e con lagrime pie sanar se stesso!
Ben vinte in voi tutt'altre glorie sono:
ch'a sovr'uman valor solo è concesso
dar per odio pietà non che perdono.

157

Al clarissimo signor Piero Gradenico

Nel novo seggio in cui Giustizia posto
a guardia v'ha de le sue leggi sante,
vi mostrate ver lei sì caldo amante
che null'altro è per fede a voi preposto.
Stassi il rigor con la pietà composto,
piange mesta la fraude a voi davante,
né soave parlar torvi è bastante
con sua fint'arte dal camin proposto.
Tal suole accorto augel, bench'altri il chiami
ed alletti col suon de' falsi accenti,
non torcer punto agl'invescati rami;
né per qualunque via prender vi tenti
affetto lusinghier con suoi dolci ami,
son meno al dritto i pensier vostri intenti.

158

Al clarissimo signor Orsatto Giustiniano

Quando riporterà benigno il sole
l'anima, Orsatto, a me col tuo ritorno?
la qual, bench'abbia in te dolce soggiorno,
ch'anch'io teco non sia si lagna e dole;
né men la tua, che meco albergar suole,
langue al tardar di sì bramato giorno:
e tu, d'amor con doppia ingiuria e scorno,
sua pace ad ambe col tuo indugio invole.
Tu non vivi, io non vivo; ambo siam lungi
da noi medesmi in questo amaro stato;
ahi, che tropp'alto ben da noi disgiungi!
Dunque rendendo a me l'aspetto amato
l'alme dolenti ai corpi lor congiungi:
e l'un de l'altro fa lieto e beato.

159

Al clarissimo signor Vettor Marino

Fra i tanti lumi del tuo raro ingegno,
quasi in adorno ciel più chiare stelle,
due splendon arti in te, sì vive e belle
che vincon di natura ogn'alto segno.
D'ambe la forza è di virtù sostegno,
e i nomi altrui di mano al tempo svelle;
l'una d'Omero onor, l'altra d'Apelle,
ambe primo di Febo amato pegno.
Questa pingendo parla, e morta spira,
quella parlando pinge, e i morti avviva;
stupido l'una e l'altra il mondo ammira.
Così doppio al tuo crin lauro s'aggira,
e poiché 'l pregio lor da te deriva,
te formi ogni pennel, suoni ogni lira.

160

A messer Domenico Tentoretto

Mentre ne' tuoi color sì propria miro,
Domenico, di me l'imagin pinta,
dubbio me n' vo se la natura è vinta
da l'arte, o pur s'in doppia vita io spiro.
Anzi, se d'ambe al pregio il pensier giro,
la vera effigie mia cede a la finta:
ché l'una in me sarà da morte estinta,
ov'io per l'altra a vincer morte aspiro.
Specchio dunque chiamar del tuo valore
ben mi poss'io fra l'opre tue più belle,
onde acquisti al pennello il primo onore;
e con tal grido già t'alzi a le stelle,
che nulla invidio, o mio nobil pittore,
ad Alessandro il suo famoso Apelle.

161

[A Francesco Bembo]

Da te pari al gran merto ornarsi miro,
signor, non già da me, l'effigie pinta;
Ond'io per te, per lei la morte vinta,
in tua carta e 'n sua tela eterno spiro.
Che s'al tuo lauro e agli altri il guardo giro,
vera è la fronde tua, l'altrui par finta;
e t'innalza virtù, l'invidia estinta,
là dov'io col pensiero a pena aspiro.
Ceda adunque il mio Apelle al tuo valore,
benché vincan le sue l'opre più belle;
e ceda anco Alessandro a me d'onore:
ché scarse al suo desio negar le stelle
nobil poeta, e dier nobil pittore;
a me dan novo Omero e novo Apelle.

162

Alla signora donna Giovanna Colonna d'Aragona Nel Tempio del Ruscelli

Quel lume che del vostro alto valore
splende, donna reale, in ogni parte,
E con le chiare sue faville sparte
accende il mondo a farvi a prova onore,
di sì caldo desio m'infiamma il core
che, s'a lui pari avessi ingegno ed arte,
o quale in queste a uoi sacrate carte
segno darei del mio vivace ardore!
Pur l'ardita mia voglia avrò per duce
a ritrar appo l'altre al tempio appese
questa oscura di voi frale memoria;
voi, come sol magnanimo e cortese,
sostenete, che prenda e vita e luce
dai raggi eterni de la vostra gloria.

163

[In morte di Irene di Spilimbergo. 1]

Vaghe stelle, del cielo occhi lucenti,
onde quasi il dì spento or si ravviva,
deh, se colei che di splendor vi priva
parta dal suo Titon con passi lenti,
mentre fra mille cor, che lei dolenti
seguian, partendo Irene al ciel saliva,
dite quanto al passar la casta diva
pregio le diè d'oneste voglie ardenti.
Quali poi vi sembrar Pallade e quella
che nel mar nacque, a le lor grazie conte,
ambedue poste a paragon con ella;
come al bel coro del Castalio fonte
Giove l'aggiunse poi nova sorella,
come Febo d'allor le ornò la fronte.

164

[2]

La bella man, che mille cor gentili
sì dolcemente in nobil laccio avinse,
e di sì bei lavor tela distrinse
ch'a suoi fur già d'Aracne i pregi umìli;
l'industre man, chi volti al ver simìli
con stupor di natura e d'arte pinse;
ch'al suon poi volta, ogni aspro cor constrinse
tener tutt'altre gioie indegne e vili;
la dotta man, con cui la bella Irene
tessea ghirlanda a sé di verde alloro:
morta or si sta con ogni nostra spene.
Ma quant'altro negli occhi e ne' crin d'oro
e 'n quel bel corpo il mondo a perder viene
di virtute e d'amor ricco tesoro?

165

[3]

Di nobil pianta che da verde riva
domina e rende il Tagliamento adorno,
sì bella verga uscia che d'ogn'intorno
l'acqua, la terra e 'l ciel di lei gioiva.
Tra le sue vaghi frondi Amor copriva
i più bei lacci; e mentre ardeva il giorno,
facendo a l'ombra sua dolce soggiorno,
con le Muse cantar Cinzia s'udiva.
Troncolla in sul fiorir con falce avara
morte pur troppo, ohimè, cruda e rubella:
ond'ogni cor ne pianse in doglia amara.
Ben ne fe' poi ghirlanda amata e cara
Febo; e mesto la pose ov'or con quella
de l'antica Ariadna il ciel rischiara.

 
 
 

Il Dittamondo (4-23)

Post n°1055 pubblicato il 15 Gennaio 2015 da valerio.sampieri

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXIII

Ora si passa ne la gran Bretagna,
a cui Bruto troiano il nome diede,
quando in contro a’ giganti la guadagna. 

Albione prima nominar si crede; 
Anglia, apresso, da una donzella, 5 
ch’Angla si disse, il nome procede.
Tanto è l’isola grande, ricca e bella, 
che vince l’altre che in Europa sono, 
come fa il sole ciascun’altra stella. 
Di molti e grandi ovili largo dono 10 
la natura v’ha fatto e piú ancora 
che sicuri da lupi star vi pono. 
De la gagata pietra ancor s’onora: 
di che Solino la natura propia 
quivi mi disse e come s’incolora. 15 
Perle vi sono ancora in larga copia; 
le genti vi son bianche e con bei volti, 
sí come neri e sozzi in Etiopia. 
Chiare fontane e caldi bagni molti 
trovammo nel paese e gran pianure 20 
e diversi animali in boschi sciolti. 
Frutte diverse e larghe pasture, 
belle castella e ricche cittadi 
adorne di palagi e d’alte mure, 
nobili fiumi e grandi, senza guadi, 25 
carne, biada, e pesce assai si trova; 
giustizia è forte per quelle contradi. 
Non la vidi, ma tanto mi fu nova 
cosa a udire, e poi sí vi s’avera, 
che di notarla, com l’udio, mi giova: 30 
che fra piú altre un’isoletta v’era, 
dove con coda la gente vi nasce 
corta, quale ha un cervo o simil fera. 
Vero è che, prima ch’escan de le fasce 
propie, le madri, senza alcun dimoro, 35 
passano altrove e fuggon quelle ambasce. 
Non vi diei fè, ma fama è tra costoro 
ch’arbor vi sono di tal maraviglia, 
che fanno uccelli: e questo è il frutto loro. 
Quaranta volte ottanta il giro piglia 40 
quindici volte cinque, senza fallo: 
e ’l giro suo è de le nostre miglia. 
Quivi si truova di ciascun metallo; 
quivi divota a Dio vidi la gente, 
forti, costanti e schifi a ciascun fallo. 45 
Maraviglia non pare, a chi pon mente, 
se prodezza, larghezza e leggiadria 
vi fun, come si dice, anticamente. 
Tamelide, Norgales, Organia, 
Listenois, Norbellanda e Strangorre 50 
volsi veder con la mia compagnia. 
Noi fummo a Londres e vidi la torre 
dove Genevra il suo onor difese, 
e ’l fiume di Tamis, che presso corre. 
E vidi il bel castel, cha forza prese 55 
con li tre scudi il franco Lancialotto 
l’anno secondo ch’a prodezza intese. 
Vidi guasto e disfatto Camelotto 
e fui lá dove l’una e l’altra nacque 
quella di Corbenic e di Scalotto. 60 
Vidi il castello dove Erec giacque 
con la sua Nida e ’l petron di Merlino, 
che per amor d’altrui veder mi piacque. 
Vidi la landa e la fonte del pino, 
lá dove il cavaliere al nero scudo 65 
con pianto e riso guardava il cammino: 
io dico quando il nano acerbo e crudo, 
dinanzi a gli occhi di messer Galvano, 
battendo il menò via con grande studo. 
Vidi la valle che acquistò Tristano, 70 
quando ’l gigante uccise a lo schermire, 
traendo di pregion qual v’era strano. 
E vidi i campi, ove fu il gran martire 
in Salibier, quando rimase il mondo 
vôto d’onor, di piacere e d’ardire. 75 
Cosí cercando quell’isola a tondo, 
vidi e udio contar piú cose e piue 
leggiadre e belle a dir, che qui nascondo. 
Io mi volsi a Solino e dissi: "Tue, 
se ti rammenti bene, a dir lasciasti 80 
del buon Guglielmo e de le rede sue". 
Ed ello a me: "Figliuol, ben ricordasti, 
ché ’l tempo è ora; e cosí dèi far sempre: 
coglier lo frutto a tempo, ché nol guasti: 
ché ’l fare e ’l dire hanno punti e tempre 85 
che, chi prender li sa, fan così frutto, 
come ’l seme che buona terra assempre". 
Cosí quivi rispuose al mio costrutto. 
Apresso incominciò per questa guisa, 
per disbramare il mio disio del tutto, 90
come ’l seguente capitol divisa.
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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