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Messaggi del 06/04/2015

Li ggiochi

Le note al sonetto sono tratte dal volumetto -di sole 38 pagine- "Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. Belli scelte ed illustrate dal P. Daniele Olckers o. s. b. ", Monaco, Tipografia accademica F. Straub, 1878.

III. Sonetti.

1. Li ggiochi.

Famo a bbuscetta? - No. - Ssedia papale?
Sartalaquajja? - No. - Ppiseppisello?
Gattasceca? Er dottor a lo spedale?
A la bberlina? - No - A nnisconnarello?

Potemo fa li sbirri e 'r bariscello,
La ggiostra, li sordati e 'r caporale,
A scaricabbarili, a acchiapparello,
A llippa, a battimuro, a zzompà scale.

Ggiucamo a bboccia, ar piccolo, a ppiastrella,
A mmorè, a mmora, a ppalla, a mmarroncino,
A ccavascescio, a ttuzzi, a gghiringhella,

A attaccaferro, a ffilo, a ccastelletto,
A ccurre, a pparesseparo . . . - No, Nnino,
Damo du' bottarelle a zzecchinetto.

Giuseppe Gioachino Belli
(Sonetto 278)

Note:
Verso 1: 1. Facciamo. 2. Il giuoco delle buschette o bruschettà. Si pigliano tanti fuscelli o fila di paglia quanti sono i concorrenti al premio proposto e si tengono in modo che non si possa vedere quale dei fuscelli sia piìi lungo o più corto. Ognuno dei concorrenti poi ne toglie uno e secondo che prima fu stabilito avrà il premio chi ne toglie o il maggiore o il minore. 3. E' quel giuoco, che chiamano i Veneziani s Piero in caregheta (portar uno a predellino o a predellucce). Due colle mani intrecciate in croce formano una specie di sedia sulla quale un terzo si mette a sedere.
Verso 2: 4. Un ragazzo si sta curvo e gli altri l'uno dopo l'altro saltano sopra di lui senza toccarlo. 5. I ragazzi si mettono in circolo. Uno che sta in mezzo additando o toccando l'uno dopo l'altro dice; Pisepisello, - odori così bello - odori così fino - per santo Martino - per Sant' Apollinare - salimo sulla scala - la scala del Pavone - penna del piccione -- figlia di re - che giucca a piastrella - tira su sto pie - che tocca a te. Colui che vien toccato ultimamente esce dal circolo e si comincia di nuovo.
Verso 3: 6. E il noto giuoco gatta cieca (il giuoco tedesco blinde Kuh), dove uno dei fanciulli cogli occhi bendati si studia di pigliar chi l'abbia leggermente percosso ed il chiappato poi deve bendarsi gli occhi e tentar di chiappar alcun altro. 7. Uno dei fanciulli fa le parti del medico ed altri si fingono ammalati.
Verso 4: 8. In che consista questo giuoco indica già la denominazione. 9. E il giuoco fanciullesco che chiamasi fare a capanniscondere, in cui uno mette il capo in grembo ad un altro, che gli tura gli occhi (e ciò si dice star sotto) mentre gli altri si vanno a nascondere, e poi il primo lasciato in libertà deve andarli a cercare; dicesi anche fare a rimpiattino o a' rimpiatterelli.
Verso 5: 10. Possiamo. 11. fare.  12. Giuoco notissimo (in tedesco Ràuber und Gensdarmen).
Verso 6: 13. E' lo stesso giuoco che correre in quintana o in chintana. Fanciulli seduti sopra cavalli di legno che girano intorno ad un palo di mezzo a cui sono attaccati cercano d'infilare e portar via un .anello de' varii che stanno appesi ad un' asta che sporge in fuori da un fianco del luogo ove si giuoca e ciò nel mentre che i cavalli girano con tutta rapidità. 14. Si veda la nota 8.
Verso 7: 15. Giuoco fanciullesco che si fa in due, ponendosi schiena contro schiena ed intrecciate le braccia alzandosi scambievolmente da terra. 16. Vengon designati tanti posti quanti sono fanciulli giuocatori meno uno. Ad un dato segno tutti devono cambiare i loro posti ed in questo mentre colui che non ha posto cerca di occuparne uno.
Verso 8: 17. Giuoco che si fa con due mazzette, delle quali l' una appuntata a due capi chiamasi lippa e vien balzata coli' altra chiamata mazza. 18. E piuttosto pena che giuoco. Uno dei ragazzi vien afferrato dagli altri e battuto al muro. 19. Saltare per le scale.
Verso 9: 20. Giuoco che si fa con pallottole (bocce) di legno, una delle quali detta il lecco vien gettata ad una certa distanza ed ognuno s'ingegna di tirare la sua pallottola più vicino al lecco che può buttando via quella dell' avversario. Nello stesso modo si giuoca alle p i as tr e 1 1 e (22) o lastrucce di ferro. Tali lastrucce sono anche chiamate morelle, onde dicesi giuocare alle morelle (23). 21. Giuoco che si fa con un pezzetto di legno di figura conica munito in cima di un ferruzzo, che da ragazzi mediante una cordicella scagliato cade ritto in terra e gira. I Romani chiamano questo giuoco anche ruzzica, più comunemente però dicesi trottola o ruzzola. 22 & 23 Si veda la nota 20.
Verso 10: 24. Giuoco notissimo che si fa in due. Nello stesso tempo stendendo i due giuocatori uno o più dita d'una delle mani gridano la somma delle dita stese da loro ambedue. 25. Giuoco detto anche al pallone, che si fa battendo col bracciale una palla grande di cuojo e ripiena d'aria. 26. Questo giuoco si fa così. Uno getta un ciottolo o altro pezzetto di pietra detto boccio o marrone ad una certa distanza e poi ciascuno dei giuocatori procura di lanciarvi vicino un soldo o altra piccola moneta.
Verso 11: 27. Giuoco simile al giuoco saltalaquaglia (si veda la nota 4) con questa differenza però che colui che salta sopra l'altro gli si mette addosso cavalcione. 28. E il giuoco detto comunemente al sussi. I ragazzi mettono sopra una pietra posta per ritto in terra quelle monete che sono convenuti di giuocare ed allontanatisene in una certa distanza ordinatamente tirano una lastra per uno in quella pietra ritta chiamata sussi e se questo sussi vien colpito, quei danari che cadono più vicini alla lastra di chi ha gettato, sono di lui, gli altri più vicini al sussi vi si rimettono sopra. 29. Giuoco che si fa andando in giravolte.
Verso 12: 30. Giuoco simile all' acchiapparello (si veda N° 16). In una stanza vengon designate come posti varie parti munite di ferro sia d'una finestra, sia d'un uscio ecc. le quali ad un dato segno dai giuocatori vengon poi afferrate. 31. Giuoco detto anche a tavola di mulino, a smerelli, a filetto, che si fa in due sopra tre quadrati concentrici figurati divisi per mezzo d'una croce (è il nostro Mùhlenspiel.). 32. Giuoco che si chiama anche alle caselle o capannelle. Mettonsi sopra un piano tre noccioli in triangolo e sopra di essi un altro nocciolo; si tira poi da una certa distanza con un altro nocciolo e vince chi coglie.
Verso 13: 33. Correre a gara ad una meta e chi vi giunge il primo è vincitore. 34. Giuoco simile alla mora, in cui si ha solamente da indovinare se il numero non noto sia pari o dispari.
Verso 14: 35. Diamo. 36. Giuoco a zecchinetta detto in altre parti d'Italia anche a santi e cappelletto, a palla e santi, a Marco Madonna, a testa e corona. Si fa gittando in alto una moneta prima d'essersi apposto a dire da quale parte resterà voltata. Chiamasi anche così un giuoco d'azzardo proibito in Italia.

 
 
 

Cenni grammmaticali

Il brano seguente è tratto dalla prefazione al volumetto -di sole 38 pagine- "Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. Belli scelte ed illustrate dal P. Daniele Olckers o. s. b. ", Monaco, Tipografia accademica F. Straub, 1878.

II. Cenni grammmaticali.

L'articolo determinativo,
Caso             masc.   fem.
Sing. N.   er  - lo      la
Sing. G.   der - de lo   de la
Sing. D.   ar - a lo     a la
Sing. A.   er - lo       la
Sing. Abl. dar - da lo   da la
Plur. N.   li            le
Plur. G.   de li         de le
Plur. D.   a li          a le
Plur. A.   li            le
Plur. A.   da li         da le
L'articolo determinativo colla preposizione in forma:
in ner o in der (= nel)
in ne lo o in de lo (= nello)
in ne la o in de la (= nella)
in ne li o in de li (= nelli)
in ne le o in de le (= nelle).
2. Sostantivi che escono nel singolore in e il Romanesco spesso li considera come altrettanti plurali di un singolare da lui sottinteso in a. Così p. e. scimisce plur. dal singol. scimiscia. (cimice plur.: cimici.) queste pulce (per pulci); l'altre gente dotte (= l'altra gente dotta); fornace spalancate (= fornaci). Invece di dire gli scribi dicesi anche li scriba e in luogo di mio trovasi mia. Delle volte la vocale finale del sostantivo gli serve da vocale iniziale dell' aggettivo seguente, p. e. in luogo di palco scenico, - parc' oscenico. Si congiunge anche la vocale iniziale del sostantivo coll' articolo come p. e. la sedia di Gaeta per l' assedio di Gaeta.
3. Il romanesco usa i pronomi personali assoluti per gli affissi: me = mi; te = ti; se = si; ce = ci; il dativo jje vale gli, le & loro. Nelle allocuzioni l'accusativo lo si trova anche in luogo di la come p. e. La Madonna lo scampi d'ogni male . . Dio lo conzoli . . .
L'affisso che sta innanzi al verbo non di rado vien congiunto col verbo in una sola parola: p.e. ciò = ci ho; ciai = ci hai; ciarimedia = ci rimedia; ciaricevo - ci ricevo; ciaripara = ci ripara ecc.
4. Delle volte trovasi a piccole voci aggiunta la sillaba ne; p. e. a mene = a me: di tene = di te; mone = mo, (ora); piune = più.
5. Al principio di molte voci specialmente di verbi che cominciano colla sillaba ri si mette la vocale a; come p. e. accusì = così; accresimato = cresimato; aritornare - ritornare; arimediare = rimediare; arreggere = reggere; appredicare = predicare; apprivativo - privativo; arubare = rubare ecc.
6. Talora si trova anche la sillaba in congiunta al princìpio tanto di sostantivi quanto di aggettivi senza che ne venga alterato il significato dì tali parole, come p e. indifficile - difficile; indigestione = digestione; immorale = morale.
7. L'ultima sillaba degli infiniti per lo più vien lasciata. Fa = fare; pìjjà =: pigliare; èsse = essere; avé = avere; sentì = sentire; e a questi infiniti accorciati si aggiungono poi i pronomi personali; onde gastigallo - castigarlo; passacce - passarci; fasse = farsi; potesse = potersi ecc. L'accento però di tali infiniti varia, come véde e vedé = vedere; gòde e godè - godere.
8. Del preterito definito trovasi la forma della 3^ persona usata per quella della I^ persona, come p. e. intese per intesi; ebbe per ebbi. Cosi anche nel condizionale p. e. farebbe per farei.
9. Le forme relative dell' imperfetto soggiontivo usansi per la 2^ pers. singol. e per la 1^ del plur. del preterito definito, come p. e. incontrassi per incontrasti; andassimo = andammo; entrassimo = entrammo; lasciassimo = lasciammo. Trovasi anche la forma della prima persona dell' imperf. soggiontivo in luogo della terza persona del singolare come potessi per potesse; la qual forma usasi anche per la 3. pers. sing. del condizionale p. e. se movessi un cane per si moverebbe un cane.
10. La 3. persona del numero singolare pel presente del congiuntivo esce spesso in i come p. e. vojji = voglia; vadi = vada; abbi - abbia.
11. Oltracciò si trovano sgrammaticature del verbo più o meno strane. Eccone alcuni esempi:
me n'aggnede = me n'andai; aggnede = andò; aggnedero ed aggnederono - andarono; assciutteno - asciugarono; chiamamo = chiamiamo; èrivo ~ eravate; famio - facevamo; fossivo = foste; mi crese - mi credetti; pareno - paiono; stamio = stavamo; so o zò = sono; trovene = trovane (imperativo); vieria = verrebbe ecc.
12. Cambia il romanesco molte volte le vocali delle parole. Eccone alcuni esempi:
abbreo = ebreo,
cUdino = codino,
accusì = cosi,
dua = due,
andivia = indivia,
ecchesce = eccoci,
anzalata = insalata,
eccheli = eccoli.
boècco = bajocco,
funtana = fontana,
ciarvello = cervello,
furtuna = fortuna,
mane (plurale di mano) = mani,
mità = metà,
puro = pure,
nun e nu' = non,
sabbito = sabbato,
si o colla s raddoppiata ssi = se (congiunzione condizionale). Come abbiamo già notato al N° 3.
se usasi pel pronome affisso si.
ughelo = ugola,
uprì = aprire ecc.
13- Sono anche mutate consonanti. Cosi la d dopo n vien mutata in n. per esempio: annare = andare; monno = mondo; quanno = quando; tremanno = tremando; venne = vende ecc.
la b dopo m trovasi cambiata in m come gamma = gamba; tromma = tromba; cammia = cambia
La consonante l spessissimo si muta in r, appricare = applicare; arbagia = albagia; carzetta = calzetta; er = il; ar - al; dar - dal; ner = nel; quer = quel; carcio = calcio; farzo = falso; scerto = scelto; eguarmente = egualmente ecc.
Delle volte trovasi anche mutata in n, come antro = altro.
In luogo di gl sempre si pone jj; pijjà = pigliare; fijja = figlia; tenajje = tenaglie.
La r vien anche molte volte traslocata come: Tirnità = Trinità; crompà =: comprare; frabbicà = fabbricare; grolia = gloria; frebbe = febbre; premissione = permissione; Traquinio = Tarquinio.
14. Il suddetto cambiamento di vocali e consonanti non di rado diventa cagione di grandi spropositi talora forse anche voluti Eccone alcuni esempi: Essenza per assenza; fischio in luogo di fisco; rè-barbero per rabarbero; artèria per altèa; anzianità in vece di ansietà.
15. La forte pronuncia nel principio d'una parola vien indicata colla consonante raddoppiata. Dopo una consonante la S si cambia in z che parimente si deve pronunciar forte. Per far pronunciare le sillabe ce, ci, eia, ciò, ciu con suono piano e toglierne l'aspro si dà loro una s, scrivendole sce, sci, scia, scio, sciu.
16. Nomi di persona più frequenti sono:
Bastiano = Sebastiano,
Bertollo = Bertoldo,
Checco = Francesco,
Commido = Comodo,
Cornejjo = Cornelio,
Eluterio = Eleuterio,
Filisce = Felice,
Fiordinanno = Ferdinando,
Ghitano = Gaetano,
Giachemo = Giacomo,
Giggio = Luigi,
Girolimo = Girolamo,
Giuvacchino = Gioacchino,
Larione = Ilarione,
Meo = Bartolomeo,
Muccio = Giacomuccio,
Nino = Giovanni,
Peppe = Giuseppe,
Pippo = Filippo,
Rimonno = Raimondo,
Tanislavo = Stanislao,
Titta = Giovanni Battista,
Toto = Antonio,
Ugusto = Augusto,
Urelio = Aurelio,
Ustacchio = Eustachio,
Betta = Elisabetta,
Ghita = Margherita,
Checca, Checchina = Francesca,
Lalla = Adelaide,
Lutucarda = Lutgarda,
Mitirda = Matilde,
Nastasìa = Anastasia,
Nena = Maddalena,
Nina = Caterina,
Nunziata = Annunziata,
Pepèa = Nepomucena,
Pressede = Prassede,
Sabella = Isabella,
Sciscijja = Cecilia,
Teca = Tecla,
Tolla = Anatolia,
Tota = Antonia,
Tuta e Tutta = Gertruda,
Ularia = Eulalia.

 
 
 

La Fornarina

Post n°1444 pubblicato il 06 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

La Fornarina

Era chiamata la Fornarina, perchè era fija d'un fornaro che ttienéva er forno in quela casetta tanta antica, vicina a queli'antra che ffa ccantòne tra la via de Santa Dorotea e pporta Sittimiàna.
Dunque era tresteverina, e bbella come un sole.
Un giorno ner mentre stava a la finestra a ppettinasse, passò dde llà un bravo dipintore, un certo Raffaelle che llavorava llì vvicino a la Fernesina, e, vvedella, e innammoràssene cotto, fu u' mmoménto.
E ssiccòme puro lui era un ber ggiovine, a llei j'agnede a gègno, e sse mésseno a ffa' l'amore.
Ma cche amore! Quello se chiamava amore pe' ddavéro!
Dice che llui 'gni tantino piantava e' llavoro per annalla a vvede; e ttutt'e ddua se daveno l'appuntamento e sse n'annaveno, come du' regazzini, sotto fiume, a ddiscore.
Anzi dice ch'er padrone de la Fernesina, quanno nu' lo vedeva, mannava quarcuno sotto fiume a ccercallo, e llà era sicuro che lo trovava assieme a la su' Fornarina.
Quanno dipigneva nun voleva antra modella che llei, sicché cchi lo sa s'in quanti mai de li su' quadri l'averà ddipinta.
Figuràmese dunque in quante cchiese starà ssù l'artari a ffà dda Madonna! E ppensà cche la ggente che la vanno a ppregà', nun sanno che hanno da fa' cor una povera fija d'un fornaro!

Giggi Zanazzo

 
 
 

When You Return

Post n°1443 pubblicato il 06 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

I Capercaillie (Gallo cedrone) sono un gruppo scozzese tra i più noti. La solista, Karen Matheson, è a mio parere una delle più belle voci femminili che cantano in gaelico.

Capercaillie - When You Return



Chaidh mi 'n-dé dhan choille challtainn
Shireadh chnòthan airson bladh
Ach 's e bh'air a h-uile geug ach
D'aodann-sa gam thriall
Chaidh mi 'n-dé gu tràigh a' mhaoraich
Lòn de choilleagan a bhuain
Nochd a h-uile slige neamhnaid
D'àilleachd-sa a luaidh

Chaidh mi staigh dhan aon taigh-òsda
Son do sgiùrsadh as mo cheann
H-uile glainne thog mi thaom do
Mhaiseachd aist' na deann
Chiaon mi tràth a-raoir dhan leabaidh
Thusa ruagadh as le suain
Ach cha tug thu cead dhomh cadal
Gus an dèanainn duan

Nuair a thig thu chì iad nach eil
Mearachd ann am fhiù
Nuair a thig thu chì iad nach eil
Mearachd ann am fhiù

Dh'iarrainn-sa bhith saor od thòireadh
Ach gu bheil sinn roinnt o chéil'
Do chumadh bhith an àit' do shamhla
Agam bhios an fhèill
Dh'fhàg thu mi 'nam bhaothair gòrach
Bòdhradh chàirdean le do chliù
Nuair a thig thu chì iad nach eil
Mearachd ann am fhiù

When you return, they'll see my words are true...
Nuair a thig thu chì iad nach eil mearachd ann am fhiù...

I went into the alehouse to expel you from my head
Every glass I raised, your beauty overflowed from it
I went early to bed last night to escape you in sleep
But you kept me awake 'til I'd make you a song

I'd wish we were torn asunder, were we not apart
Let your presence replace my image of you, and how I'd rejoice
You've brought me to foolish babbling, tiring friends with praise of you
When you return, they'll see that my words are true

When you return, they'll see my words are true...

Traduzione in inglese:

I went to the hazelwood yesterday
Seeking hazelnuts for food
But on every branch and twig
Was your pursuing face
I went to the fertile shore yesterday
To gather cockles for a meal
Every single shell was filled with
Your beauty, my love

I went into the alehouse
To expel you from my head
Every glass I raised, your beauty
Overflowed from it
I went early to bed last night
To escape you in sleep
But you kept me awake 'til
I'd make you a song

When you return they'll see that
My words are true
When you return they'll see that
My words are true

I'd wish we were torn asunder
Were we not apart
Let your presence replace my image of you
And how I'd rejoice
You've brought me to foolish babbling
Tiring your friends with praise of you
When you return they'll see that
My words are true

When you return they'll see that my words are true...
When you return, they'll see my words are true...

I went into the alehouse to expel you from my head
Every glass I raised, your beauty overflowed from it
I went early to bed last night to escape you in sleep
But you kept me awake 'til I'd make you a song

I'd wish we were torn asunder, were we not apart
Let your presence replace my image of you, and how I'd rejoice
You've brought me to foolish babbling, tiring friends with praise of you
When you return, they'll see that my words are true

When you return, they'll see my words are true...

 
 
 

Alcune poesie in romanesco

Foto di valerio.sampieri

Il brano seguente è tratto dalla prefazione al volumetto -di sole 38 pagine- "Alcune poesie in dialetto romanesco di G. G. Belli scelte ed illustrate dal P. Daniele Olckers o. s. b. ", Monaco, Tipografia accademica F. Straub, 1878.

Prefazione.

Quel che già lodava il Grossi nel Porta e che noi altri Bavaresi lodiamo nelle poesie in vernacolo del nostro celeberrimo poeta Francesco de' Kobell - cioè la copia e la vivacità dei quadri, l'acume d' osservazione, la finezza di satira, la natura viva e parlante che ci vien posta sotto gli occhi - tutto ciò si trova in grado ancor superiore nelle poesie del poeta romano Giuseppe Gioachino Belli.
Egli nacque nel 1791 in Roma, ove cessò di vivere improvvisamente il 21 dicembre 1863. In tenera età ebbe la disgrazia di perdere il padre, onde per aver di che vivere era costretto a lavorare in diverse computisterie come scrivano-apprendista; qualche tempo fu segretario del principe Poniatowski. Ma la natura che l'avea fatto poeta, lo traeva agli studi, onde lasciando l'ufficio di segretario si ritirò a dozzina in un convento di cappuccini, ove potea studiare più liberamente, e per campare dava delle lezioni private e nei ritagli di tempo faceva anche non di rado il copista di memorie legali.
Di tali strettezze lo tolse una giovine e ricca vedova che lo prese in isposo e gli diede così i mezzi necessarii a coltivare gli studi classici. Con questi egli congiunse uno studio particolare cioè quello della vita del popolo romano, il quale studio gli aperse una miniera inesausta di soggetti per i suoi versi in dialetto romanesco. Il modo, ch'egli teneva per conoscere ben bene la vita del popolano di Roma, è più o meno lo stesso, che tenne il nostro Francesco de' Kobell per poter ritrarre la vita dei montanari bavaresi. Il Belli, come ci narra Morandi, "si mischiava fra le più umili classi del popolo, negli omnibus, nelle chiese, nelle taverne, ne' teatri e in quelle vie più rimote, dove i popolani sentendosi come a casa propria non badano a star sui convenevoli e si rivelano per quel che sono. Egli era in somma un pittore che ricavava i suoi bozzetti dal vero. Alla sera tornato a casa coloriva in tanti sonetti le scene, che avea vedute.".
Dicesi ch'egli ne abbia composti circa due mila e trecento in vernacolo, e come il Porta [Carlo Porta nato a Milano nel 1776, morto nel 1821] pei Lombardi, il Capasso [Nicola Capasso nacque in Grumo villaggio nel territorio d'Aversa nel 1671, morì in Napoli nel 1745] pei Napoletani, il Meli [Giovanni Meli nacque a Palermo nel 1749, morì nel 1815] pe' Siciliani, cosi il Belli per i Romani diventò il classico del dialetto patrio.
Una raccolta di sonetti del Belli venne pubblicata in Roma nel 1839 Pe' tipi del Salviucci, un'altra nel 1843 in Lucca coi tipi del Giusti. Nel 1865 Ciro Belli, figlio del defunto poeta, pubblicò in Roma co' tipi del Salviucci poesie inedite di suo padre in quattro volumi, cioè in dialetto romanesco 786 sonetti ed in lingua italiana 80 sonetti, 15 componimenti vari, 34 terzine e 37 ottave. Finalmente Luigi Morandi nel 1869 fece una edizione di trenta sonetti attribuiti al Belli con un discorso sopra la satira in Roma e nell' anno seguente ne pubblicò ducento (Firenze, G. Barbèra).
Ouest' ultima edizione diede occasione al dottissimo Signor Schuchardt di pubblicare alcuni suoi articoli sopra il Belli e la satira romana nella gazzetta universale di Augusta. (1871. N' 164, 165, 166 u. 167.) Peccato, che nel 3° di quegli articoli dell' egregio letterato si legga: (pag. 2971) "Trasteveriner(n) welche Hostieund Messer in einer Tasche tragen'' in luogo di: "Rosenkranz und Messer.".
Nato in tempo di rivoluzione e senza appoggio com' era dopo la morte del padre G. G. Belli non si potè sottrarre all' influenza di quelle idee rivoluzionarie, che allora erano in voga e dominavano, il che fu cagione di certi sonetti, ch' egli ravvedutosi più tardi avrebbe voluto fare sparir dal mondo. In età più matura diventò acerrimo avversario e oppugnatore di tali idee. Certo è che i sonetti del Belli sono e saranno sempre un monumento prezioso non solamente riguardo alla lingua e ai costumi de' Romani, ma anche per quel che riguarda la topografia e statistica di Roma. Gli sconvolgimenti politici d'Italia hanno più o meno cambiata la faccia di Roma, forse la cambieranno ancora di più. Ritraendo il Belli nei suoi sonetti la vita del popolano parlò anche delle chiese, degli istituti d'educazione, dei conservatori, degli ospedali ove i popolani poveri trovavano ricovero assistenza ed aiuto spirituale e corporale nelle loro miserie, toccò inoltre arti e mestieri, mercati, monete e molte altre cose riguardanti la statistica.
Avendo io avuto dall' onorevole Collegio de' Professori del Ginnasio Massimiliano l'incarico di scrivere il programma di quest' anno scolastico 1877/78 ho voluto pubblicare alcuni sonetti del Belli, i quali non si trovano nell' edizione del Morandi. Sono di quelli che furono pubblicati dal figlio del poeta nella raccolta summentovata. In questa raccolta però molte cose presuppongonsi come notissime, che a noi altrj Tedeschi sono più o meno ignote, onde per facilitare l'intendimento delle poesie da me scelte vi aggiunsi varie spiegazioni e corredai di note quei sonetti che ne erano privi affatto, premettendovi inoltre alcune osservazioni intorno al parlare del popolano di Roma in generale, e vari cenni grammaticali riguardo al dialetto romanesco in particolare.

I. Qualche osservazione intorno al popolano di Roma.

Della sua lingua il popolano di Roma va superbo; essa è, come dice egli, la lingua del mondo. "Sta lingua che ddich' io, l'hanno uguarmente Turchi, spaggnoli, moscoviti, ingresi... e ttutte l' antre gente." La sua lingua è la più ricca "Ma nun c' è llingua come la romana, pe ddi' una cosa co' ttanto divario, che ppare un maggazzino de dogana.". Egli dunque sentendosi padrone privilegiato di tali ricchezze ne fa quell' uso che gli piace cambiando e rifacendo le parole a modo suo. E siccome il focoso popolano nell' ira piglia le pietre senza curarsi delle loro forme e le slancia contro l'avversario grosse, grandi e piccole come gli vengono tra le mani, così gli escono dalla bocca parole quali gli sono dettate dall' affetto, che non si trovano in verun dizionario. Egli pronto nel suo giudizio senza esitare si trasmuta nomi che gli sono sconosciuti specialmente nomi proprii in altri di suono simile, ma per lo più di tutt' altro significato, onde spessissime volte nascono le più ridicole cose. Cosi per esempio essendogli sconosciuta la voce greca protos per protomedico dice brodomedico, ed invece di medico oculista medico culista.
Sachsen Gotha gli vale Sasso cotto,
Chili gli vale Qui-e-lli,
Poniatowsky gli vale Pignatosta,
Miollis gli vale Qui tollis,
Westmoreland gli vale Vespa d' Olanna,
Gagarin gli vale Cacarini.
Uno della plebe romana additando ad un altro l'arco di Settimio Severo, che sta appiè del Campidoglio gli disse: Questo è l'arco di Settimio, s' è vero. Uno parlando della colonna Trajana l' avea chiamata colonna trogliana; il suo compagno lo corregge dicendo: "Ma nun fu la Repubblica romana che dda l' incennio sce sarvò sta ggioja? .... Ebbe, ssi viè dda Troja sta colonna, s' ha da di Trojana pe l'amor de la Madonna!"
Assistendo un popolano alla solenne processione del Corpus Domini sentì cantare ai cantori della Sistina quelle parole dell' inno Pange lingua: "Sui moras incolatus miro clausit ordine." Pieno di sdegno egli sclamò: "Incollato? (angeleimt) Ho ssempre inteso a ddi da trentun' anno che Cristo in croscè sce mori inchiodato*' (angenagelt).
Una madre raccomanda alla figlia che avea perduto qualche cosa di recitare il Salmo 90; "Qui habitat" e lodando la virtù, l'efficacia di quella preghiera soggiunge: "Se sarai venuta all' acqua di Venanzio l'avrai trovata.'' Con ciò volle indicare il verso 3° di quel Salmo, cioè: "ipse liberavit me de laqueo venantium."
Uno del volgo disse, esser la essenza divina così difficile ad intendersi,,che anche alla testa di Davide era la Sibilla". Gli erano venute in mente quelle parole del Dies irae: teste David cum Sibilla. Un altro si spiegò le parole: hora qua non putatis (filius hominis veniet) cosi: quando non sputate.
Riguardo alla storia ed archeologia il popolano di Roma cambia le cose antiche colle moderne non facendo caso di anacronismi fa usare agli uomini dell' antichità modi di vivere e di dire del tutto moderni.
Così p. e ci racconta uno del volgo: Muzio Scevola colle mani dietro manettate da sei carabinieri vien condotto davanti a Porsenna. Questi lo interroga: "Sora maschera, come vi chiamate?" Il popolano di Roma chiama maschera ogni persona sconosciuta, onde parlando anche di persona maschile al feminino maschera si premette sora. Muzio Scevola nella sua risposta dà a Porsenna il titolo: "Sacra Maestà.".
Dopo la conquista di Gerusalemme, racconta un altro della plebe, l'imperatore Tito raccolse ogni roba di valore dicendo: "Caspio, quel ch' è d'oro è mio," e gli scribi che facevano pio pio (bisbigliavano mormorando) te li fece castigare dal correttore. Correttore si chiamava quel servitore del Collegio romano, ch'era destinato a frustare gli scolari cattivi.
Credo però che non andrà lontano dal vero chi abbia l'opinione che lo spiritoso Belli nei suoi sonetti non avrà sempre fatto rigorosa distinzione di quel che si fondava sulla verità dei fatti da quel che era invenzione sua.
Due personaggi sono di grand' autorità presso il volgo romano: il barbiere ed il calzolaio. Il barbiere per la sua pratica con .molta gente, ed il calzolaio per la sua vita sedentaria che gli dà ozio di meditare seriamente su temi difficili, coi quali l'uomo ordinario del volgo non si può occupare. "Er calzolare dottore;" "Dice il barbiere e l'altre gente dotte." A quella opinione poi, che gli s' è ficcata in mente da cotali autorità il popolano s'attiene con una tenacità incredibile, perchè egli l' ha fatta sua, essa è la persuasione d' un Romano de Roma. Tutti coloro che non la pensano come lui vengon da lui censurati, beffeggiati o compatiti come uomini di poco cervello. Nelle cose che non riguardiino la fede né la morale il papa stesso e più ancora i suoi cardinali sono soggetti al tribunale del popolano, che li morde talora senza misericordia. Ne fanno fede quei sonetti pubblicati dal Morandi:
L'uccupazione der papa o 'na vitaccia da cani,
Pe' la morte de papa Gregorio,
L'anima de papa Gregorio.
Er cardinale vero, Er ritratto der cardinale
Tuttavia sono un documento di quella libertà di parola, che godevano i Romani e che non resterebbe impunita in verun altro stato. Quanto tenace sia il popolano di sua opinione lo dimostra anche questo: Un sepolcro antico è creduto dal popolo romano il sepolcro di Nerone, benché vi si trovi inciso il nome del morto: "P. Vibius Marianus.". Questa iscrizione non confonde per nulla il popolano, ma colla sua logica egli argomenta cosi: O il cadavere di Nerone fu tolto di questa tomba e ve ne fu sostituito quello di P. Vibio Mariano - e allora non posso capire la trascuraggine del governo che lasciò impunito un tal rubamento - o chi fece quella iscrizione era un asino, un ignorantaccio; giacché dacché il mondo s' è creato, questa è la sepoltura di Nerone!

 
 
 

San Giuvanni Latterano

San Giuvanni Latterano (1)

Quanno annate a S. Giuvanni, arrivate infinenta in fonno andove c'è l'artare de mezzo, co intorno una balaustra co' 'na scaletta che sse va ggiù.
Affacciàteve : finìta la scaletta c'è u' ripiano, poi in fònno un artarino, e in mezzo a 'sto ripiano un sepporcro d'un papa morto.(2)
Lo sapete com'è cche quer papa se trova lli?
Si nun lo sapete mó vve lo dico io.
Avete da sapé' che cc'era un papa tanto bbôno, tanto bbôno, che nun ve ne potete fa' un'idea.
Ecchete che 'sto papa s'ammala, e ppeggiora tanto che ariva in punto de morte.
Prima de morì', a li cardinali che je domannorno, s'indove voleva èsse' sepporto, j'arispose : -- Quanno so'mmòrto, metteteme sopra un carretto tirato da quattrobbovi, e llassàteli annà', senza che gnisuno li guida : andove li bbôvi se fermeranno llì vvojo èsse seppellito.
Li cardinali ubbidienti accusì ffèceno.
Li bbôvi, incominciorno a ggirà ppe' Roma fintanto che sse diresseno verso San GiuvanniLatterano.
Cammina, cammina, ecchete ch'ariveno su la porta granne de la chiesa.
Nun so nnemmanco arivati su ll'urtimo scalino che le porte, senza che gnisuno le toccasse, se spalàncheno, e le campane sôneno.
Intanto li bbôvi entreno in chiesa, vanno insinenta a l'artare de mezzo, se fèrmeno e ss'inginocchieno.
Proprio indove er caretto s'è ffermato, adesso ce se trova la sepportura de quer papa.

(1) Vedi : GERHART, «L'état d'âme d'un moine de l'an 1000» en Revue de deux mondes , CVII. Ove si narra la leggenda di quel Gerberto d'Aurillac, dottissimo uomo, prima abbate di Bobbio, poi arcivescovo di Reims, quindi di Ravenna che nel 999 l'imperatore Ottone III innalzò al pontificato col nome di Silvestro II. Di lui narrasi che salì al papato per opera del diavolo, e che alla sua morte, le sue ossa furono poste sopra un carro tirato da buoi, e vennero seppellite dinanzi la porta della chiesa di S. Giovanni in Laterano, dove gli animali si erano arrestati. Da questa ha forse avuto origine la presente leggenda.

(2) Martino V, Colonna.

Giggi Zanazzo

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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