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Messaggi del 09/12/2014

Il Dittamondo (1-28)

Post n°773 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXVIII

Dal principio mio al dí che fue 
Cartagine distrutta, eran giá iti 
lustri cento ventuno e poco piue. 
In questo tempo, che qui meco additi, 
Bruto mandai, che i Lusitan percosse 5 
sí, che piú tempo ne funno smarriti. 
La pace di Mancin tanto mi cosse, 
ch’io il fei gittar tra i nemici legato, 
dove a la fin rimase in carne e in osse. 
Qui torno a Scipio, del qual t’ho parlato, 10 
ch’avendo posto a Numanzia l’assedio, 
e chiusa tutta intorno d’un fossato, 
tanto fu grave a’ Numantini il tedio 
sí de la fame e de gli altri disagi, 
che, disperato ognun d’ogni rimedio, 15 
ne’ belli alberghi e ne’ ricchi palagi 
e ne le gran ricchezze il fuoco mise 
e cosí la cittá converse in bragi. 
Apresso il danno, per diverse guise, 
per non dar di sé gloria ai lor nemici, 20 
senza pietá l’un con l’altro s’uccise. 
I Gracchi scelerati e infelici, 
superbi, ingrati come Luciferro, 
fenno lor setta a morte de’ patrici: 
de’ quali alcuno fu morto di ferro, 25 
alcun secondo legge per sentenza 
ed alcuno annegato, s’io non erro. 
In questo tempo fu la pistolenza 
per le locuste sí grande e acerba, 
ch’io piango ancor di tanta cordoglienza: 30 
ché in prima consumâr le biade e l’erba 
e poi, cadute in mar, gittâr tal morbo, 
che di sei tre e piú di vita isnerba. 
E se qui il vero bene allumo e forbo, 
quel c’hai veduto nel mille trecento 35 
e quarantotto non parve piú torbo. 
Poi, dopo questo gran distruggimento, 
ch’ancor piangea ciascun dolente e lasso 
il danno ricevuto e ’l suo tormento, 
per li Franceschi mi fu morto Crasso: 40 
e quanto trista fui de la sua morte 
e de’ compagni suoi a dir qui lasso. 
Ma qui mi lodo di Perpenna forte, 
che tanto a la vendetta mi fu caro, 
ch’io l’onorai con tutta la mia corte. 45 
Seguita ora a dir del pianto amaro 
che i Cimbri e gli Ambron sentir mi fenno, 
quando il guadagno in Rodano gittaro. 
La gran franchezza di Sulpicio impenno, 
lo qual Popedio e Supidio sconfisse 50 
e vendetta di lor fece a mio senno. 
Un altro Crasso fu, che, fin che visse, 
cupido il vidi e sí ghiotto de l’oro, 
che degno fu che tal sapor sentisse. 
Di Metello mi lodo, e qui l’onoro, 
che piú pirati, che correan lo mare, 
prese e distrusse e cacciò d’ogni foro. 
E l’isole in ponente Baleare 
condusse sotto me per sua vertute, 
ma non senza gran forza dèi pensare. 60 
In questo tempo per le bocche acute 
di Mongibello uscîr sí alte fiamme, 
che tai da poi non funno mai vedute: 
onde i padri e i fanciulli con le mamme 
di Catania fuggîr con tanta fretta, 65 
ch’a pena dir potresti piú tosto amme. 
Gli Allobrogi e i Galli, una gran setta, 
fun per Igneo Domizio morti e lesi, 
come gente superba e maladetta. 
Di Bituito re contare intesi 70 
che Fabio dispregiava e la sua gente, 
come se giá gli avesse tutti presi, 
quando sconfitto fu tanto vilmente, 
ch’al Rodan giunto, per la calca molta 
ruppesi il ponte e non valse niente. 75 
Quivi, se a dietro volean dar la volta, 
cadean tra i morti e, se fuggiano innanzi, 
bevean de l’acqua, ch’era grave e molta. 
Non funno i Numantin, ch’io dissi dianzi, 
a la morte piú fieri né sí acerbi, 80 
né con pensieri di migliori avanzi, 
che quei Franceschi miseri e superbi 
che Quinto Marcio a pie’ de l’Alpi strinse, 
sí che perdero il vin, le bestie e l’erbi. 
Né certo mai pintore non dipinse 85 
di tanta gente maggior crudeltate, 
né con penna scrittor carta ne tinse. 
Qui noto il tempo de la mia etate: 
dico che Olimpiades cento cinquanta 
e nove avea, men forse una state, 90
se la memoria dal ver non si schianta.

 
 
 

Ar Pincio

Post n°772 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Ar Pincio

Solo solo arivò su lo spiazzale,
Guardò coll'occhi fissi a la lontana
Monte Mario, San Pietro, er Quirmale,
Come pe' dà' un saluto a Roma sana.

Vortò le spalle, anno giù p'er viale,
E se trovò davanti a la funtana
'N dove li cigni stann'a sbatte l'ale,
Quann'in quer mentre intese 'na campana.

- Ecco l'ora - strillò - lei m'ha tradito;
M'ha tradito pe' chi? per un birbone.
Nun c'è antro pe' me, tutt'è finito.

- Ner d' accusi, se mozzicò 'na mano,
Posò er cappello sopra er murajone,
E... accese mezzo sighero toscano.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Terze Rime 5-8

Post n°771 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Abdelkader Salza, Bari, Laterza 1913
 
V
 
Della signora Veronica Franca
 
[Non ama più colui, che la prese con la beltà sua caduca; ora la ragione, vinto il senso, la fa desiderosa di riavvicinarsi all'uomo virtuoso, da lei trascurato per quello.]
 
Signor, la virtù vostra e 'l gran valore
e l'eloquenzia fu di tal potere,
che d'altrui man m'ha liberato il core;
il qual di breve spero ancor vedere
collocato entro 'l vostro gentil petto,
e regnar quivi, e far vostro volere.
Quel ch'amai più, più mi torna in dispetto,
né stimo più beltà caduca e frale,
e mi pento, ché già. n'ebbi diletto.
Misera me, ch'amai ombra mortale,
ch'anzi doveva odiar, e voi amare,
pien di virtù infinita ed immortale!
Tanto numer non ha di rena il mare,
quante volte di ciò piango: ch'amando
fral beltà, virtù eterna ebbi a sprezzare.
Il mio fallo confesso sospirando,
e vi prometto e giuro da dovero
mandar per la virtù la beltà in bando.
Per la vostra virtù languisco e pèro,
disciolto 'l cor da quell'empia catena,
onde mi avolse il dio picciolo arciero:
già. segui' 'l senso, or la ragion mi mena.
 
VI
 
Risposta d'incerto autore per le rime
 
[L'uomo è lusingato e lieto del pentimento di lei, e spera di provarle la sua fede.]
 
Contrari son tra lor ragion e Amore,
e chi 'n Amor aspetta antivedere,
di senso è privo e di ragion è fuore.
Tanto più in prezzo è da doversi avere
vostro discorso, in cui avete eletto
voler in stima la virtù tenere;
e, bench'io di lei sia privo in effetto,
con voi di possederla il desio vale,
sì che del buon voler premio n'aspetto:
e, se 'l timor de l'esser mio m'assale,
poi mi fa contra i merti miei sperare,
ché s'elegge per ben un minor male.
Io non mi vanto per virtù d'andare
a segno che, l'amor nostro acquistando,
mi possa in tanto grado collocare;
ma so ch'un'alma valorosa, quando
trova uom che 'l falso aborre e segue il vero,
a lui si va con diletto accostando:
e tanto più, se dentro a un cor sincero
d'alta fé trova affezzion ripiena,
come nel mio, ch'un dì mostrarvi spero,
se 'l non poter le voglie non m'affrena.
 
VII
 
D'incerto autore
 
[Un amante, non corrisposto da Veronica, si lamenta della crudeltà di lei, e la supplica umilmente di riamarlo, invocando l'aiuto d'Amore.]
 
Dunque l'alta beltà, ch'amica stella
con sì prodiga mano in voi dispensa,
d'amor tenete e di pietà rubella?
Quell'alma, in cui posando ricompensa
di molt'anni l'error la virtù stanca,
dar la morte a chi v'ama iniqua pensa?
Lasso, e che altro a far del tutto manca
orribile ed amara questa vita,
e rovinosa in strada oscura e manca,
se non che sia col mal voler unita
d'una bellezza al mondo senza eguale
la forza insuperabile, infinita?
Ma perché da l'inferno ancor non sale
Tesifone e Megera ai nostri danni,
se scende a noi del ciel cotanto male?
Ben sei fanciul più d'ingegno che d'anni,
Amor, e d'occhi e d'intelletto privo,
se 'l tuo regno abbandoni in tanti affanni.
Te, cui non ebbe di servir a schivo
Giove con tutta la celeste corte,
e ch'a Dite impiagar festi anco arrivo;
te, del cui arco il suon vien che riporte
spoglie d'innumerabili trofei,
contra chi più resiste ognor più forte;
te, cui soggetti son gli uomini e i dèi,
non so per qual destìn, fugge e disprezza,
con la mia morte ne le man, costei.
Ma, se contrario a quel che 'n ciel s'avezza,
ella sen va da le tue forze sciolta,
per privilegio de la sua bellezza,
a la tua stessa madre or ti rivolta,
ch'unico essempio di beltà fu tanto,
pur piagata da te più d'una volta:
e, s'a lei toglie la mia donna il vanto
d'ornamento e di grazie, a lei che giova
l'esserti madre poi da l'altro canto?
èe vinta da costei Venere è in prova,
e se Minerva in scienzia e in virtute
a costei molto inferior si trova,
tanto più scegli le saette acute:
ché più gloria ti fia di questa sola,
che di tutt'altre in tuo poter venute.
Per l'universo l'ali stendi, e vola
di cerchio in cerchio, Amor, e sì vedrai
che questa il pregio a tutte l'altre invola;
e, s'al tuo imperio aggiunger la saprai,
quanto 'l tuo onor sovra i dèi tutti gìo,
tanto maggior di te stesso verrai:
benché lo sventurato in ciò son io,
che, benché stata sia costei sicura
da l'armi ognor del faretrato dio,
non è stata però sempre sì dura,
che non abbia ad Amor dato ricetto
per pietà nel suo sen, non per paura
Com'ad ubidiente umil soggetto,
ad Amor ansioso e di lei vago
l'adito aperse del suo gentil petto;
quinci 'l suo desir proprio a render pago,
al suo arbitrio d'Amor l'armi rivolse,
qual le piacque a fermar solingo e vago:
sì che, dovunque saettando colse
col doppio sol di quei celesti lumi,
a sé gran copia d'amadori accolse,
e con leggiadri e candidi costumi
dilettò 'l mondo in guisa, che la gente
d'amor per lei vien ch'arda e si consumi.
Gran pregio, in sé tener unitamente
rara del corpo e singolar beltate
con la virtù perfetta de la mente:
di così doppio ardor l'alme infiammate
senton lor foco di tal gioia pieno,
che, quanto egli è maggior, più son beate.
Anch'io lo 'ncendio, che mi strugge il seno,
sempre più bramerei che 'n tale stato
s'augumentasse e non venisse meno,
s'io non fossi, né so per qual mio fato,
in mille espresse ed angosciose guise
da lei, miser, fuggito e disprezzato:
ché, se 'l trovar l'altrui voglie divise
da le nostre in amor, è di tal doglia,
che restan le virtù del cor conquise,
quanto convien ch'io lagrimi e mi doglia
di vedermi aborrir con quello sdegno,
che di speme e di vita in un mi spoglia?
E, s'io mi lagno, e se di pianto pregno
porto 'l cor, che 'l duol suo sfoga per gli occhi,
miser qual io d'Amor non ha 'l gran regno.
Non basta che Fortuna empia in me scocchi
tanti colpi, ch'altrui mai non aviene
che 'n questa vita un sì gran numer tocchi;
ché sospirar e pianger mi conviene
di ciò, che la mia donna, fuor d'ogni uso,
al mio strazio più cruda ognor diviene;
e s'io, del pianto il viso smorto infuso,
del cielo e de le stelle mi richiamo,
ed or Amor, or lei gridando accuso,
che poss'io far, se, in premio di quant'amo,
giunto da l'altrui orgoglio a tal mi veggo,
che la morte ancor sorda al mio mal chiamo?
E col pensier, ond'io vaneggio, or chieggo
d'Amor aita, ed or per altra strada
sempre invano al mio scempio, oimè, proveggo.
Ma, poi che 'l ciel destina, e così vada,
che per sicura e dilettosa via,
dove 'l ben trovan gli altri, io pèra e cada,
sàziati del mio mal, fortuna ria;
poi, di me quando sarai stanca e sazia,
qual tuo gran pregio e qual acquisto fia?
E tu, Amor, dentro e fuor mi struggi e strazia,
ché tanto m'è 'l mio affanno di contento,
quant'ei l'orgoglio di madonna sazia.
Ben ai successi de le cose intento,
di lei m'assale immoderata t'ma,
che 'n lei vendichi 'l cielo il mio tormento.
Questo fa in parte la mia gioia scema,
anzi, s'io voglio raccontar il vero,
son sempre oppresso da una doglia estrema:
ché, se meco madonna usasse impero,
gratissimo il servirla mi saria
con affetto di cor vivo e sincero;
ma, che invece di spender signoria,
a dilettar la circostante turba
mi strazie sotto acerba tirannia,
questo m'afflige l'animo, e mi turba.
N', per le mie querele e i miei lamenti,
l'opera incominciata ella disturba,
ma, quasi mar nei procellosi venti,
nel mio chieder mercé via più s'adira,
e cela di pietà gli occhi suoi spenti:
da me torcendo altrove i lumi gira,
e gran materia è di sua crudeltate
quanto per me si lagrima e sospira.
O donna, pregio de la nostra etate,
anzi di tutti i secoli, se 'n voi
non guastasse l'orgoglio la beltate,
ond'avvien che 'l mio amor così v'annoi?
E, s'a morir davanti non vi vengo,
ancora offesa vi chiamate poi:
quanto faccio, e di quanto ch'io m'astengo,
di me le vostre voglie a render paghe,
vi spiace, e merto di vostr'odio ottengo.
Ma, perché 'l vostro sdegno ognor m'impiaghe,
dolci son di quel volto le percosse,
e de le vostre man candide e vaghe.
Qualunque affetto in voi giamai si mosse,
tutto fate con grazia: de' vostri atti
chiunque il dotto e buon maestro fosse.
Quai tenesse con voi natura patti,
ancor de l'ire vostre e de l'offese
tutti gli uomini restan sodisfatti.
Farvi perfetta a tutte prove intese
l'influsso, donator d'ogni eccellenza,
e benigno la man verso voi stese:
quinci del ciel l'altissima potenza
si vede in molti effetti discordanti,
c'han di virtute in voi tutti apparenza.
Oh che dolci, oh che cari e bei sembianti,
ch'alte maniere quelle vostre sono,
da farvi i dèi venir qua giuso amanti!
E se, com'io pur volentier ragiono
de le grazie, che 'l ciel tante in voi pose
con singolar, non più veduto dono,
non mi teneste d'ogni parte ascose
quelle vostre divine e rare parti,
di che vostra persona si compose,
non fôran sì angosciosi da me sparti
sospiri, né di lagrime vedresti
avampando, cor misero, innondarti.
Ma, dond'avien che 'n me, lasso, si desti
la speme, che per prova intendo come
faccia sempre i miei dì più gravi e mesti?
E pur chiamando di mia donna il nome,
vera, unica al mondo eccelsa dea,
convien ch'a lei mi volga, e ch'io la nome.
Deh, non mi siate così iniqua e rea,
che 'l mio mal sia 'l ben vostro e che m'ancida
quella vostra beltà, che gli altri bea!
Ma quell'Amor, che v'ha tolto in sua guida,
e che tien nel cor vostro il suo bel seggio,
la crudeltà per me da voi divida;
ch'io piangendo umilmente ancor vel chieggio.
 
VIII
 
Risposta della signora Veronica Franca
 
[Veronica risponde dicendosi ancor soggetta ad uomo indegno, che le fa trascurare ogni altro amante. Forse un giorno, libera dal giogo, verrà a chi ora la supplica invano.]
 
Ben vorrei fosse, come dite voi,
ch'io vivessi d'Amor libera e franca,
non còlta al laccio, o punta ai dardi suoi;
e, se la forza in ciò d'assai mi manca,
da resister a l'armi di quel dio,
che 'l cielo e 'l mondo e fin gli abissi stanca,
ch'ei s'annidasse fôra 'l desir mio
dentro 'l mio cor, in modo ch'io 'l facessi
non repugnante a quel che più desio.
Non che sovra lui regno aver volessi,
ché folle a imaginarlo sol sarei,
non che ch'un sì gran dio regger credessi;
ma da lui conseguir in don vorrei
che, innamorar convenendomi pure,
fosse 'l farlo secondo i pensier miei.
Ché, se libere in ciò fosser mie cure,
tal odierei, ch'adoro; e tal, ch'io sdegno,
con voglie seguirei salde e mature.
E poi ch'Amor anch'io biasmar convegno,
imaginando non si troveria
cosa più ingiusta del suo iniquo regno.
Egli dal proprio ben l'alme desvia;
e, mentre indietro pur da ciò ti tira,
nel precipizio del tuo mal t'invia.
E, se 'l cor vostro in tanto affanno ei gira,
credete che per me certo non meno,
sua colpa, si languisce e si sospira;
e, se voi del mio amor venite meno
(nol so, ma 'l credo), anch'io d'un crudel angue
soffro al cor gli aspri morsi e 'l rio veneno.
Così, quanto per me da voi si langue,
vedete ristorato con vendetta
de le mie carni e del mio infetto sangue.
E, se 'l mio mal vi spiace, e non diletta,
anch'io 'l vostro non bramo, e quel ch'io faccio
contra voi 'l fo da l'altrui amor costretta;
benché, s'oppressa inferma a morte giaccio,
com'è ch'a voi recar io possa aita
nel martìr, ch'entro grido e di fuor taccio?
Voi, s'a lagnarvi il vostro duol v'invita
meco, nel mio languir soverchio impietra
e rende un sasso di stupor mia vita:
via più nel cor quella doglia pen'tra,
che raggela le lagrime nel petto,
e l'uom, qual Niobe, trasfigura in pietra.
Il vostro duol si può chiamar diletto,
poiché parlando meco il disfogate,
del mio, ch'al centro il cor chiude, in rispetto.
Io vi rispondo ancor, se mi parlate;
ma le preghiere mie supplici il vento
senza risposta ognor se l'ha portate,
se pur ebbi mai tanto d'ardimento,
che in voce o con inchiostro addimandassi
qualche mercede al grave mio tormento.
E così portar gli occhi umidi e bassi
convengo, e converrò per lungo spazio,
se morte al mio dolor non chiude i passi.
Del mio amante non dico; ché 'l mio strazio
è 'l dolce cibo, ond'ei mentre si pasce
divien nel suo digiun manco ognor sazio.
E dal suo orgoglio pur sempre in me nasce
novo desio d'appagar le sue voglie,
ch'unqua non vien che riposar mi lasce;
ma dal mio nodo Amor l'arretra e scioglie:
forse con lui fa un'altra donna quello,
ch'egli fa meco; e qual dà, tal ritoglie.
Così di quanto è 'l mio desir rubello
ai desir vostri, a la medesma guisa
ne riporto supplizio acerbo e fello.
Fors'ancor voi del vostro amor conquisa
altra donna sprezzate, e con la mente
dal piacerle v'andate ognor divisa;
e, s'a lei sète ingrato e sconoscente,
in suo giusto giudizio Amor decide
ch'un'altra sì vi scempia e vi tormente.
Fors'anco Amor del comun pianto ride,
e, per far lagrimar più sempre il mondo,
l'altrui desir discompagna e divide;
e, mentre che di ciò si fa giocondo,
de le lagrime nostre il largo mare
sempre più si fa cupo e più profondo:
ché, s'uom potesse a suo diletto amare,
senza trovar contrarie voglie opposte,
l'amoroso piacer non avria pare.
E, se tai leggi fùr dal destìn poste,
perché ne la soverchia dilettanza
al ben del cielo il mondan non s'accoste,
tant'è più 'l mio dolor, quant'ho in usanza
d'innamorarmi e di provar amando
quest'amata in amor disagguaglianza
Ben quanto a l'esser mio vo ripensando,
veggo che la fortuna mi conduce
ove la vita ognor meni affannando;
e, se potessi in ciò prender per duce
quella ragion, ch'or, da l'affetto vinta,
d'Amor sotto l'imperio si riduce,
sarebbe nel mio cor la fiamma estinta
de l'altrui foco, e di quel fôra in vece
del vostro l'alma ad infiammarsi accinta.
E, se l'ordine a me mutar non lece,
s'a disfar o corregger quel non viene,
ch'o ben o mal una volta il ciel fece,
posso bramar che chi cinta mi tiene
d'indegno laccio in libertà mi renda,
sì ch'io mi doni a voi, come conviene;
ma, ch'altro in ciò fuor del desir io spenda,
e questo ancor con non picciola noia,
non è che più da voi, signor, s'attenda.
Ben sarebbe compìta la mia gioia,
s'io potessi cangiar nel vostro amore
quel ch'in altrui con diletto mannoia.
A voi darei di buona voglia il core,
e, dandol, crederei riguadagnarlo
nel merito del vostro alto valore:
così verrei d'altrui mani empie a trarlo,
e in luogo di conforto e di salute
aventurosamente a ben locarlo.
Anch'io so quanto val vostra virtute,
e de le rare eccellenti vostr'opre
molte sono da me state vedute.
Chiaro il vostro valor mi si discopre,
e s'io non vengo a dargli ricompensa,
Amor non vuol che tanto ben adopre.
Com'io 'l potessi far, da me si pensa;
e, se, dov'al desio manca il potere,
il buon animo i merti ricompensa,
che v'acquetiate meco è ben dovere:
forse ch'a tempo di miglior ventura
ve ne farò buon effetto vedere.
Tra tanto l'esser certo di mia cura
conforto sia, ch'al vostro dolor giovi,
e mi faccia stimar da voi non dura,
fin che libera un giorno io mi ritrovi

 
 
 

L'assicurazzione de la vita

Post n°770 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

L'assicurazzione de la vita

Dice ch'a Roma c'è 'na compagnia 
De gente ch'assicureno la vita; 
Io 'sta frescaccia nu' l' ho mai capita, 
E dico ch' è 'na gran minchioneria.

Anzi me pare propio 'na 'resia. 
Perché quanno ch' è l'ora stabbilita 
Ch'er Padreterno la vò fa' finita,
Che t'assicuri? l'ossa de tu' zia?

E' 'na speculazzione immagginata 
Pe' fa' sòrdi a le spalle de la gente 
Che ce crede e ciaresta buscarata.

L' ha approvato er sor Checco, er mi parente,
Co' tutto che se l'era assicurata,
E' morto tale e quale d'accidente.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (1-27)

Post n°769 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXVII

S’io t’ho parlato di Scipio sí largo, 
non ti maravigliar, ché fu sí degno, 
che volentier la fama ancor ne spargo. 
Ma perché forse troppo qui ti tegno, 
piú breve intendo ragionare omai 
degli altri buon, che seguio nel mio regno. 
Apresso questo, Flaminio mandai 
sopra Filippo re di Macedona, 
dal qual sentito avea tormento assai. 
E preso il regno a patti e la persona, 
a Navide si volse e quello ancora 
fece di lui e di Lacedemona. 
Ricco triunfo li fu fatto allora, 
come reddio co’ riscossi e coi presi, 
de’ quali il carro e sé quel dí onora. 
D’uno Amilcare ancor parlare intesi, 
che guastava co’ Boi Piacenza e Parma, 
il quale, al fine, lui e i suoi, offesi. 
Non saggio è quel che ’l nimico rispiarma 
da poi che, combattendo, in fuga il mette 
e che, se può, nol prende e nol disarma. 
Non saggio fu Pompeo, quando ristette 
di Cesare cacciare, avendol vinto; 
non fu Ettor, se a Talamon credette. 
Qui lodo Furio, che mai vidi infinto 
di perseguire i Boi, che con vittoria 
avean del campo Marcello sospinto. 
Qui lodo Fulvio, del qual fo memoria 
che in Ispagna di Lucio fe’ vendetta 
sí alta e grande, ch’assai mi fu gloria. 
Qui di Cornelio e Glabrio mi diletta 
parlar, li quali confinaro Antioco 
con pace, a forza, in parte acerba e stretta. 
E Scipio mio cacciò sí d’ogni loco 
Annibale, che ’n Prusia, per tristizia, 
prese ’l velen, col qual poi visse poco. 
Cosí di Paolo ancor prendo letizia, 
che Crasso vendicò e Perseo prese, 
prese il figliuol, ma taccio la giustizia. 
Una schiatta Basterna allor discese 
a passar sopra il ghiaccio la Danoia, 
per guastare e disfare il mio paese. 
Novella udio di questa gente croia 
di subito, la qual molto mi piacque: 
che ’l ghiaccio ruppe e ’l fiume poi l’ingoia. 45 
Un altro Scipio in quel tempo nacque, 
lo qual per sua vertú tanto s’avanza, 
che quasi qui d’ogni altro mio si tacque. 
E come di costumi e di sembianza 
seguio Troilus Ettor, prese costui 50 
de l’Africano nome e simiglianza. 
A ragionar brevemente di lui, 
Numanzia prese e fe’ del sangue lago 
del Barbarin, che minacciava altrui. 
A ’ngegno prese e per forza Cartago; 55 
poi l’arse tutta e qui finio la guerra, 
che trafitta m’avea d’altro che d’ago. 
La ruina e ’l dolor di quella terra 
non fu minor che ’l pianto, che si sparse 
in Troia allora che Ilion s’atterra. 60 
Né fu minore il fuoco ancor che l’arse, 
né d’Ecuba maggior l’acerba morte, 
che quivi quel con la reina parse. 
Cento venti anni fu la briga forte 
tra lei e me; or pensa se m’aggrada 65 
la fine udir de la sua grave sorte. 
Asepedon rubellò la contrada 
di Macedona, ond’io mandai Metello, 
che vinse lui e ’l regno con la spada. 
Cosí Mummio lo gran tesoro e bello 70 
di Corinto consuma; parte ebbi io 
e parte il fuoco converse in ruscello. 
Qui vidi me e vidi il regno mio 
per queste alte vittorie in tale stato, 
che ’l piú del mondo mi portava fio. 75 
Ma com vedi ciascun ben, che ci è dato 
per la fortuna, poco aver fermezza, 
cosí dopo ’l seren venne il turbato: 
ché, dove io era in tanta grandezza, 
in ne la Spagna Viriato apparve 
ch’assai mi fe’ sentire al cuor gravezza. 
E, secondo ch’udire allor mi parve, 
peggio m’avrebbe fatto, se non fora 
che, tradito da’ suoi, di vita sparve. 
Da notare è l’alta risposta ancora 85 
che Cipio fe’ a coloro che ’l tradiro, 
che chieser premio di tal fallo allora: 
“Non piace a li Roman, non han disiro 
che i cavalieri uccidano il lor duca, 
né premio dar di sí fatto martiro”. 90
Cotale asempro è buon che tra’ buon luca.

 
 
 

Terze Rime 3-4

Post n°768 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Abdelkader Salza, Bari, Laterza 1913

III

Della signora Veronica Franca

[Lontana dall'amante, soffre e piange, e sospira Venezia. Dove appena sarà tornata, a lui che l'attende darà, in amorosa lotta, dolce ristoro delle noie passate.]

Questa la tua fedel Franca ti scrive,
dolce, gentil, suo valoroso amante;
la qual, lunge da te, misera vive.
Non così tosto, oimè, volsi le piante
da la donzella d'Adria, ove 'l mio core
abita, ch'io mutai voglia e sembiante:
perduto de la vita ogni vigore,
pallida e lagrimosa ne l'aspetto,
mi fei grave soggiorno di dolore;
e, di languir lo spirito costretto,
de lo sparger gravosi afflitti lai,
e del pianger sol trassi alto diletto.
Oimè, ch'io 'l dico e 'l dirò sempre mai,
che 'l viver senza voi m'è crudel morte,
e i piaceri mi son tormenti e guai.
Spesso, chiamando il caro nome forte,
Eco, mossa a pietà del mio lamento,
con voci tronche mi rispose e corte;
talor fermossi a mezzo corso intento
il sole e 'l cielo, e s'è la terra ancora
piegata al mio sì flebile concento;
da le loro spelunche uscite fuora,
piansero fin le tigri del mio pianto
e del martìr, che m'ancide e m'accora;
e Progne e Filomena il tristo canto
accompagnaron de le mie parole,
facendomi tenor dì e notte intanto.
Le fresche rose, i gigli e le viole
arse ha 'l vento de' caldi miei sospiri,
e impallidir pietoso ho visto il sole;
nel mover gli occhi in lagrimosi giri
fermársi i fiumi, e 'l mar depose l'ire
per la dolce pietà de' miei martìri.
Oh quante volte le mie pene dire
l'aura e le mobil foglie ad ascoltare
si fermár queste e lasciò quella d'ire!
E finalmente non m'avien passare
per luogo, ov'io non veggia apertamente
del mio duol fin le pietre lagrimare.
Vivo, se si può dir che quel, ch'assente
da l'anima si trova, viver possa;
vivo, ma in vita misera e dolente:
e l'ora piango e 'l dì, ch'io fui rimossa
da la mia patria e dal mio amato bene,
per cui riduco in cenere quest'ossa.
Fortunato 'l mio nido, che ritiene
quello, a cui sempre torno col pensiero,
da cui lunge mi vivo in tante pene!
Ben prego il picciol dio, bendato arciero,
che m'ha ferito 'l cor, tolto la vita,
mostrargli quanto amandolo ne pèro.
Oh quanto maledico la partita,
ch'io feci, oimè, da voi, anima mia,
bench'a la mente ognor mi sète Unita,
ma poi congiunta con la gelosia,
che, da voi lontan, m'arde a poco a poco
con la gelida sua fiamma atra e ria!
Le lagrime, ch'io verso, in parte il foco
spengono; e vivo sol de la speranza
di tosto rivedervi al dolce loco.
subito giunta a la bramata stanza,
m'inchinerò con le ginocchia in terra
al mio Apollo in scienzia ed in sembianza:
e, da lui vinta in amorosa guerra,
seguiròl di timor con alma cassa,
per la via del valor, ond'ei non erra.
Quest'è l'amante mio, ch'ogni altro passa
in sopportar gli affanni, e in fedeltate
ogni altro più fedel dietro si lassa.
Ben vi ristorerò de le passate
noie, signor, per quanto è 'l poter mio,
giungendo a voi piacer, a me bontate,
troncando a me 'l martìr, a voi 'l desio.


IV

D'incerto autore alla signora Veronica Franca

[Rispondendo all'epistola precedente, l'amante, pur dolendosi ch'ella abbia voluto allontanarsi, spera che per la pietà di lui s'induca a tornar presto.]

A voi la colpa, a me, donna, s'ascrive
il danno e 'l duol di quelle pene tante,
che 'l mio cor sente e 'l vostro stil descrive.
L'alto splendor di quelle luci sante
recando altrove, e 'l lor soave ardore,
ai colpi del mio amor foste un diamante.
Io vi pregai, dagli occhi il pianto fore
sparsi largo, e sospir gravi del petto:
non m'aiutò pietà, non valse amore.
Valse, via più che 'l mio, l'altrui rispetto;
e, benché umìl mercé v'addimandai,
pur sol rimasi in solitario tetto.
D'ir altrove eleggeste, io sol restai,
com'a voi piacque ed a mia dura sorte:
sì che invidia ai più miseri portai.
E, s'or avvien che a voi pentita apporte
alcun dolore il mio grave tormento,
in ciò degno è ch'amando io mi conforte.
Dunque per me del tutto non è spento
quel foco di pietà, ch'ove dimora
fa d'animo gentil chiaro argomento.
Di voi, cui 'l ciel tanto ama e 'l mondo onora,
di bellezza e virtute unico vanto,
con cui le Grazie fan dolce dimora,
gran prezzo è ancor, se nel corporeo manto,
dove star con Amor Venere suole,
virtù chiudete in ciel gradita tanto.
èe 'l vostro cor del mio dolor si duole,
s'egualmente risponde a' miei desiri,
oh vostre doti e mie venture sole!
Tra quanto Amor le penne aurate giri,
non ha chi, com'io, dolce arda e sospire,
né tra quanto del sol la vista miri.
Dolc'è, quant'è più grave, il mio languire,
se, qual nel vostro dir pietoso appare,
sentite del mio mal pena e martìre.
Che poi non mi cediate nell'amare,
esser non può, ché la mia fiamma ardente
nel gran regno amoroso non ha pare.
Troppo benigno a' miei desir consente
il ciel, se dal mio cor la fiamma mossa
vi scalda il ghiaccio della fredda mente.
In voi non cerco affetto d'egual possa,
quel ch'a far di duo uno, un di duo viene,
e duo traffigge di una sol percossa.
Troppo del viver mio l'ore serene
fôrano, e tanto più il mio ben intero,
quanto più raro questo amando avviene:
quanto Amor men sostien sotto 'l suo impero
che 'n duo cor sia una fiamma egual partita,
tanto più andrei de la mia sorte altero.
sì come troppo è la mia speme ardita,
che sì audaci pensieri al cor m'invia,
per strada dal discorso non seguìta,
da l'un canto il pensar sì com'io sia,
verso 'l vostro valor, di merto poco,
dal soverchio sperar l'alma desvia;
da l'altro Amor gentil ch'adegui invoco
la mia tanta con voi disagguaglianza,
e gridando mercé son fatto roco.
D'Amor, ch'a nullo amato per usanza
perdona amar, dove un bel petto serra
pensier cortesi, invoco la possanza:
quella, onde 'l ciel ei sol chiude e disserra,
e, perch'a lui la terra è poco bassa,
gli spirti fuor de l'imo centro sferra,
prego che l'alma travagliata e lassa
sostenga; e, se non ciò, vaglia pietate
là dove 'l vostro orgoglio non s'abbassa.
Di mercé sotto aspetto non mi date
lusingando martìr, tanto più ch'io
v'adoro; e quanto prima ritornate,
ch'al lato starvi ognor bramo e desio.

 
 
 

Il Dittamondo (1-26)

Post n°767 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XXVI

Cotal, qual io ti conto, fu il mio Scipio 
e tal mi convenia, se ’l ciel dovea 
ridurre a buona fine il bel principio. 
Lo padre e ’l zio giá perduti avea 
avvolpinati a forza e per ingegno 5 
da Asdrubal, che la Spagna possedea, 
quando, con prego assai onesto e degno, 
per vendicare il danno ricevuto, 
da me partio questo mio sostegno. 
Non è da trapassar lo bello aiuto 10 
di Claudio e di Valerio, il cui ben fare 
fece ben fare al popol mio minuto. 
Non è ancora da voler lasciare 
sí come Fabio del figliuol li piacque 
la morte, piú che ’l fallo perdonare. 15 
Qui ritorno a colui, che propio nacque 
per me, che, poi che ne la Spagna giunse, 
a far mio pro un’ora non si tacque. 
Piú e piú volte Asdrubale compunse; 
prese Mago, di ch’io feci gran festa, 20 
e la nuova Cartago strusse e munse. 
Ad Annibal mandò Claudio la testa 
d’Asdrubal, de la qual rider s’infinse: 
credo per piú celar la sua tempesta. 
E tanto Scipio i suoi e sé sospinse 25 
a dí a dí, prendendo le province, 
che tutta Spagna in poco tempo vinse. 
Poi, ritornato a me questo mio prince, 
ed essendo al Consiglio disperato, 
mostrò l’ardire onde ogni roman vince. 30 
Qui passo a dir ciò che fu consigliato 
per Fabio e per lui; ma ben t’accerto 
che ’l suo buon dir piacque a tutto ’l senato. 
Con poca gente nel cammino esperto 
si mise e poi passò, senza periglio, 
dove il lito african li fu scoperto. 
Di tanta grazia ancor mi maraviglio: 
che ’n breve tempo in campo uccise Annone 
ed anche a Sifax re diede di piglio. 
E questo posso dir fu la cagione 40 
che le cittá d’Italia ritornaro 
la maggior parte a la mia intenzione. 
E perché gli African da poi mandaro 
per Annibal, che ben diece e sette anni 
m’avea fatto sentir tormento amaro, 45 
diliberata fui da’ suoi affanni: 
pianse il partir, perché fra tanto spazio 
veduta non m’avea dentro da’ panni. 
Di molti Italiani fece strazio; 
ma pria che giunto fosse a l’altro lito, 50 
per malo agurio fu del cammin sazio. 
E poi che ebbe il gran valore udito 
di Scipio, dubitando in fra se stesso, 
pensò far pace per alcun partito. 
E tanto seguitò di messo in messo, 55 
che ’l dí fu posto e data la fidanza; 
poi funno insieme, come fu promesso. 
Qui era il grande orgoglio e la baldanza; 
qui era la virtute e l’ardimento 
del mondo, potrei dire, e la possanza: 60 
ché vo’ che sappi che ’l gran parlamento 
che Dario scrive ch’a Troia fu fatto 
povero fu a tanto valimento. 
Livio ti conta l’accoglienza e l’atto 
e ’l bel parlar di questi due gran siri 65 
e come si partîr senza alcun patto. 
Però passo oltre e vegno ai gran martiri 
de la battaglia, che fu sí aspra e forte, 
che lungo tempo poi funno i sospiri. 
Non saprei dire di ciascun la sorte, 70 
né che fe’ Scipio né Annibal; ma, pensa, 
piú vergogna temea ciascun che morte. 
Pure a la fine il Sommo, che dispensa 
le grazie sue come a lui piace, volse 
che sopra gli African fosse l’offensa. 75 
Ma sappi che Annibal mai non si tolse 
del campo, in fin che colpo vi si diede: 
l’ultimo fu, tanto ’l partir li dolse. 
E posso per ver dire, e farne fede, 
che in quel giorno la vittoria presi, 80 
onde al mondo per me legge si vede. 
Apresso questo, i gran Cartaginesi 
per voler d’Annibal, che si partio, 
domandâr pace e fu tal ch’io la ’ntesi: 
però che tutti sotto al regno mio 85 
vennero gli African, ch’eran sí bravi: 
seguitâr loro e fenno al mio disio. 
Portate funno a Scipio le chiavi 
de la cittá ed el v’entrò co’ suoi; 
poi arse lor ben cinquecento navi. 90 
Apresso, a me tornato, saper puoi 
ch’io il trionfai con la sua milizia 
e pensar non potresti a li dí tuoi 
la festa, ch’io ne feci, e la letizia.

 
 
 

Rime inedite del 500 (IV)

Post n°766 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

IV

[1 Di Pietro Bembo]

Sonetti del BemboIn persona mortal divino aspetto
Ed in giovane cuor voglie attempate,
Umil, saggio parlar, pien d'onestate,
Mente a casti pensier fido ricetto,

Alto, sottil, angelico intelletto,
Di virtù specchio in questa nostra etate,
Con somma leggiadria somma onestate,
Parlar ch'avanza ogni mondan diletto;

Riso possente ad infiammar i fiumi,
Chiome vaghe d'or fin, fronte serena,
Mansueti, gentil, alti costumi;

Man che distruggi i cuor con dolce pena,
Chiari, ardenti, soavi e dolci lumi
Per voi mi sprona Amor, per voi m'affrena.

[2 Di Pietro Bembo]

Il lampeggiar de' begli occhi sereni,
Non scordato da noi dopo mill'anni,
M'abbaglia sì che in gli amorosi affanni
Tirar mi sento ovunque il ciel mi meni.

Ma trovo lor' di tal bellezza pieni,
Ed aver seco sì soavi inganni,
Che nullo affanno par poi che m'affanni,
E nullo incontro il mio gioir affreni.

Così da un vago, bello e dolce lume
Nasce il mio fuoco, e poi da quello istesso
Viene il rimedio ch'ei non mi consume.

Che spesso dunque mai temer s'espresso
Conosce essere in lei questo costume
Di far la piaga e riscaldarla appresso.

[3 Di Pietro Bembo]

Quando ripenso meco al sommo bene
Che i bei vostri occhi, donna, in me lassàro
Il dì che per i miei dentro passàro
Al cuor e sepper, trasmutarlo in spene,

Conosco allor che i lacci e le catene
Per mia vera salute mi mandàro
Spirti amici dal ciel; però che imparo
L'eterna vita in quell'ore serene.

Che stando nel divin vostro cospetto
Così sento da vui farmi beato
Come luna dal sol riceve lume.

E quinci volto a Dio con l'intelletto,
Comprendo il ben di quel soave stato
Che qualità non cangia, né costume.

[4 Di Pietro Bembo]

L'alte bellezze e le virtù perfette
Ch'in voi sì come in proprio albergo pose
Natura, da quel dì che si dispose
Farvi sopra dell'altre al mondo elette.

Hanno sì le mie voglie a sé ristrette
Soavemente, che le salde e ascose
Catene aspregio, e tanto men noiose
Esser le sento, quanto a me più strette.

Né fu di libertà giamai sì lieto
Afflitto prigionier', come sent'io
Di questi dolci miei novi legami;

E ripensando come il servir mio
Non vi è noioso, un tal piacer ne smeto
Che fa ch'io sprezzi il resto e voi sol' ami.

[5 Di Pietro Bembo]

Ite, versi, a colei che senza me
Prende ogni giuoco, ogni piacer che può
E dite, se vi dice com'io sto:
Semper piagne, sospira e grida ohimè!

Se v'adomanda ov'a più volto il pie',
Dite ch'a morte di buon passo io vo,
E dite, se vi dice quel ch'io fo:
Lui tien' il cor, la mente, il spirito in te.

Se v'adomanda ch'esercizio ho qui,
Ditegli: el scrive e sempre in bocca v'ha,
E non desidra altro ch'un bel sì.

Se vi dice: il mio servo a piacer l'ha,
Dite: lui tanta pena ha notte è dì
Ch'ogni fiera crudel gli harìa pietà.

[6 Di Pietro Bembo]

Lasso! quando fia mai che per mia pace
Tutti li miei pensieri ad uno ad uno
Possa scoprir senza sospetto alcuno
A cui mio troppo ardir forse non piace.

E quella che ver' me sdegnosa tace,
E tiene il mio parlar fors'importuno.
Col cor di sdegno e crudeltà digiuno
Oda quel che d'udir or le dispiace;

E rivolgendo allor con parlar grato
Ver' me gli accenti suoi sì dolci e rari
Dica pietosa del mio mal passato;

Fedel amico mio, che in pianti amari
Ti struggi sì nel tu' infelice stato,
Vivi, ch'ancor serai de' miei più cari.

[7 Di Pietro Bembo]

D. M. P. B.Né securo ricetto ad uom che pave
Scorgendo da vicin nemica fronte,
Né dopo lunga sete un vivo fonte,
Né pace dopo guerra iniqua e grave;

Né prender porto a travagliata nave,
Né dir parole amando ornate e pronte,
Né veder casa in solitario monte
A pellegrin smarrito è sì soave

Quant'è quel giorno a me beato e caro,
Che mi rende la dolce amata vista
Di cui m'è il ciel più che madonna avaro.

Né perch'io parta poi l'alma s'attrista
Tanta in quel punto dal bel lume chiaro
virtù, senno, valor, grazia s'acquista.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (6)

Post n°765 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.


15

Se quel pietoso, vago e dolce sguardo,
Con che Amor mi lusinga e mi mantiene,
Fosse dal cor, le mie innumere pene
Finirien tosto, e ’l foco ove tutt’ardo.

Ma perch’io temo che l’aurato dardo,
Con che Amor fiere l’amorose vene,
Lei non pungesse; con maggior catene
Rilego me, ed assai più riardo,

Ch’io nol fei pria, quando lieto perdei
La bella libertà, ch’or vo piangendo;
E dopo il dolce cognosco l’amaro.

Ella che vede chiaro i pensier miei,
Di ciò lieta si sta, e sorridendo
Vuol ch’io languisca, ond’a mie spese imparo.



16

Ben mi credea che per allontanarmi,
Dall’ignobile vulgo, che sempr’erra,
Por fine alquanto alla mia lunga guerra,
Ed in tranquilla pace riposarmi.

Ma ’l mio crudel signore ha prese l’armi,
Con le qual sempre i suoi suggetti afferra,
Ond’io che sono un fral corpo di terra,
Non veggio dove omai possa scamparmi.

Però che quant’io sto più solitario,
Più pinge nel vot’animo la Dea,
Questo crudele infin dal terzo cielo,

Con crudo aspetto e ver di me sì rea,
Ch’io temo di mio stato frale e vario,
Nè più speme ho nel suo dorato telo.



17

Amore, io trovo in te solo uno scampo,
Quando egli avvien che gli occhi pien di sdegni
Volge in me quella con turbati segni,
Che mi mantien nel foco ov’io avvampo.

Questa è speranza che mi tiene in campo
E per mia pena assottiglia suo’ ingegni;
Onde dolente aspetto che tu vegni
A raddolcir degli occhi il chiaro lampo.

Ella mi dice; il tempestoso mare
Tranquillar vedi, e farsi il turbo chiaro,
E le fresche campagne rinverdire.

E così mi conforta ad aspettare,
Dicendo; il lume che t’è or sì avaro,
Ancora arà pietà del tuo martire.

 
 
 

L'ottobbrata de Nannarella

Post n°764 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

L'ottobbrata de Nannarella

I

Giuvedi avemo fatto l'ottobrata
In de la vigna de li mi' padroni; 
Ciavessimo l'arosto, l'insalata... 
Stassimo propio come signoroni.

Ce riuscì bene puro la giornata... 
Un'aria che slargava li pormoni: 
Ma 'gni vorta ch' io faccio 'na vignata 
Bisogna sempre che me s'arimponi.

Doppo magnato, Checca e Celestino 
Se messeno a ballà' la tarantella; 
Io sonavo appoggiata a 'n tavolino.

'N der mejo scappò fora Cinicella, 
E un po' ch'è matto, un po' ciurlo dar vino 
Nun prese e me sfasciò la tammurella?

II

Nove mesi doppo

Si, ditemel'a me, commare Irene,
So' dua o tre mesi che me ne so' accorta
Quela regazza lì nu' sta più bene, 
Nun è più Nannarella de 'na vorta.

L'occhi infossati, le ganasse piene 
De lagrime, la céra mezza smorta. 
Sempre intanata, sempre fra le scene, 
Nu' mette er piede mai fòr de la porta.

S'esce, è de sera. Nun pò fa' le scale; 
Si le fa, Je vie' subbito l'affanno; 
Quela regazza deve avé' un gran male,

Io, commarella mia, vado pensanno
Che diavolo je pò avé' fatto male... 
- Eh, fija! L'ottobbrata de l'antr'anno!

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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