Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

Messaggi del 11/12/2014

Rime di Cino Rinuccini (11)

Post n°792 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

30

Un falcon pellegrin dal ciel discese
Con largo petto e con sì bianca piuma,
Che chi ’l guarda innamora e ne consuma.

Mirand’io gli occhi neri e sfavillanti
La vaga penna e ’l suo alto volare,
Mi disposi lui sempre seguitare.

Sì dolcemente straccando mi mena,
Ch’altro non chieggio se non forza e lena.



31

I dolci versi ch’io soleva, Amore,
Teco dettar per isfogar me stesso,
Lasciar conviemmi, poichè sì d’appresso
Sento l’ire e gli sdegni: o gran dolore!

Chè non m’ancidi il tormentato core,
Sicch’io mora ’n un punto e non sì spesso?
Già so io ben ch’io non ho error commesso,
E pur veggio turbato il suo splendore.

Nè ’n vita altro mi tien, se non s’io moro
Più non vedrò chi mi conduce a morte,
La quale è mio scampo. O dura vita!
    
Perchè consumi me che sempre ploro,
Ch’ebbi ’l ciel sì maligno e sì ria sorte?
Chè mia pena non fai, morte, finita?

32

Quando il rosato carro ascende al cielo
     Vidi una donna andar per verde prato,
     Che veramente scesa era dal cielo,
     Nè tal fu vista mai più sotto ’l cielo.
     E nel prato veniva ad un chiar fonte,
     Quand’era appunto il sole al mezzo cielo,
     Cantando sì soave, che mai cielo
     Armonizzò sì dolce, quanto i canti
     Che allora biscantava: nè tai canti
     Cantò mai Filomena, quando il cielo
     Riveste i colli e’ rami d’un bel verde,
     Che fanno ogni animal gioire al verde.
Trapunto aveva in oro un vestir verde,
     Che certamente era tessuto in cielo;
     Tant’era ricco a veder cotal verde.
     Poi si posava sopra l’erba verde,
     Cogliendo i vaghi fior del fresco prato,
     Per contesser vïole e rose in verde;
     E ghirlandava se con oro e verde
     E per l’estivo sol nel chiaro fonte
     Volea bagnar le man, quando nel fonte
     Vide un miracol sì adorno in verde,
     Ch’abbandonò sè stessa e’ dolci canti,
     Guardando fiso onde venian tai canti.
Poi scorgendo su’ ombra, e’ dolci canti
     Ch’uscian di lei, in sul fiorito verde
     Si riposava e cominciava i canti;
     Risonando sì dolce, che a tal canti
     Si stava Amor, ch’era sceso dal cielo,
     Maraviglioso ad ascoltar tai canti.
     E ne’ suo’ occhi stava a’ dolci canti
     Come in luogo più degno; quando al prato
     M’abbattei passeggiando; e per lo prato
     Sentii gridare Amor; vien, vieni a’ canti,
     Ed accostati qui al chiaro fonte,
     Sicch’oda e veggia chi è a questo fonte.
Quando fui presso al sacrosanto fonte,
     Udii si dolce melodìa di canti,
     Che sì maraviglioso non fu al fonte
     Narcisso, quando se vide nel fonte
     Che ’l fe divenir fior nell’erba verde,
     Quand’or fu’ io sì presso al chiaro fonte.
     Allor, com’Amor volle, giù nel fonte
     Mi dichinò chi dallo empireo cielo
     Quaggiù discese sotto il nostro cielo;
     E femmi ber dell’acqua di tal fonte.
     Sicchè gioioso non fu mai in prato
     Alcun fior, quant’i’ fu’ nel verde prato.
E poi che un poco mi tenne nel prato,
     A man destra si volse al chiaro fonte,
     Che un sol alber bagnava in cotal prato,
     Ed un ramo ne svelse, ed in sul prato
     Coronar volle me con dolci canti,
     Che reverente stava in su quel prato,
     E vergognoso tenea gli occhi al prato;
     Dicendo; Amor, la tua ghirlanda verde
     Non merit’io ancor, benchè a tal verde
     Arò io l’alma sempre ed a tal prato.
     Amor con lei sorrise, e verso il cielo
     Si volse e ritornarsi insieme al cielo.
Canzone, e’ non fu mai poi sott’il cielo
     Più lieto alcun di me, quando tal verde
     Colse sì bella donna in dolci canti,
     Appresso al chiaro e dilettevol fonte,
     Che risiede sì ben nel fresco prato.

 
 
 

Il Dittamondo (2-03)

Post n°791 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO III

Da poi ch’io t’ho degli offici trattato 
e de l’insegne, è buono udir la gloria 
che ricevea qual era triunfato. 
Dico che quando con ricca vittoria 
tornava alcun d’alcuna signoria, 5 
in questo modo accrescea sua memoria: 
che per tutto il paese far sentia 
chi ’l volesse veder, quel cotal giorno 
ch’io triunfava il cotal che venia. 
Era in su quattro ruote un carro adorno 10 
e tanto bello, che vi si perdea 
alcuna volta l’uom mirando intorno. 
Di sopra ad esso una sedia avea 
di preziose pietre e d’un lavoro, 
ch’a riguardarla un miracol parea. 15 
Qui su sedea, qui su facea dimoro 
colui che n’era per suo valor degno, 
vestito a bianco e la corona d’oro. 
Quattro cavalli, i piú bei del mio regno, 
conducevano il carro e tanto bianchi, 20 
che piú la neve o ’l cigno non disegno. 
Camelli, forti muli e poco stanchi 
venian dinanzi con le ricche some, 
guidati da ragazzi duri e franchi 
(e sopra quelle erano scimie, come 25 
usiamo ancoi, e molti babbuini), 
con piú altri animai, ch’io non so il nome, 
leopardi, leonze e porci spini, 
ed eranvi giraffe e, sopra quelli, 30 
uomini come nani piccolini, 
gran leofanti, e questi avean castelli 
sopra il dosso con ghezzi neri e strani, 
struzzoli, pappagalli ed altri uccelli. 
Qui vedevi leoni e fieri cani: 35 
e sappi che seguiano in questo modo, 
secondo i luoghi che m’eran lontani. 
Apresso, i presi stretti a nodo a nodo 
venian legati e quivi ciascun messo, 
secondo ch’era degno e di piú lodo: 
per questo avresti conosciuto adesso, 40 
quando preso vi fosse o duca o re, 
ch’al sinistro del carro eran piú presso. 
E color che fidati avea da me 
di morte e di prigione, era ciascuno 
d’un segno pileato sopra sé. 45 
Tutti i gran fatti suoi ad uno ad uno 
dal destro lato cantava una gente, 
col ben che fatto avea al mio comuno. 
Da l’altro, a ciò che fosse conoscente 
di non prender superbia a tanto onore, 50 
un’altra andava ancor similemente: 
e questa ogni suo vizio e suo disnore 
ponea in versi, per sí fatta guisa, 
che giá ne vidi altrui mutar colore. 
Poi, dietro il carro, imagina ed avisa 55 
veder marchesi, conti e gran baroni 
sotto le insegne de la mia divisa. 
E imagina veder li ricchi doni 
che fatti avea a coloro, che a le imprese 
portavan fama di miglior campioni. 60 
Col capo raso, scoperto e palese, 
dopo costoro era alcun che menava 
li miei, che scossi avea d’altro paese. 
Ogni mia bella strada s’adornava: 
su la terra zendadi, erbetta e fiori 65 
erano sparti e quivi si danzava. 
In contro a lui veniano i senatori 
con la milizia a piè e il popol mio, 
vestiti a compagnia di bei colori. 
Veniano apresso con vago disio 70 
le madri, le donzelle e i pargoletti 
con tanta festa, che mai tal s’udio. 
Pensar ben dèi ch’a veder tai diletti 
venian signor di luoghi assai lontani 
ed alte donne con gentili aspetti. 75 
Giovani bagordare a le quintani 
e gran tornei e una e altra giostra 
far si vedea con giochi novi e strani. 
Cosí andava questa ricca mostra 
per render laude e sacrifizio a Marte, 80 
ch’era in quel tempo la speranza nostra. 
A chi volea, le mense erano sparte 
senza pagare e ciascun sí fornito, 
che parea quasi incantamento e arte. 
E poi ch’egli era fuor del tempio uscito, 85 
sopra il suo carro ne venia ad agio, 
con l’ordinato modo c’hai udito, 
in fino al piè del mio nobil palagio. 
Quivi scendea ed io con tanta festa 
poi l’abbracciava e con sí dolce bagio, 90
che detto avresti: – Maraviglia è questa! –

 
 
 

La Bella Mano (066-073)

Post n°790 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LXVI

Quanto posso m'ingegno trar d'affanni
Quest'alma, che nudrita in pene e in doglie,
Fra misere speranze et crude voglie
Ha consumato suspirando gli anni.

Posson poi tanto in lei gli dolci inganni
Dei due begli occhi, ove il mio ben s'accoglie,
Che quanto più mi sforzo, men si scioglie
Dal crudel laccio, et più segue i suoi danni.

Qual Circe, o qual Sirena, o qual Medusa,
Con erbe, o canto, o venenoso sguardo,
M'ha trasformato dalla forma vera?

Et m'ha la mente sì d'error confusa
Per un caldo disio, donde io sempre ardo,
Che l'alma ceca sempre teme et spera?

LXVII

Lasso, ben so che sì non arde il cielo
Or che il fronte d'Apollo più sfavilla,
Come entro 'l cor m'infiamma una favilla,
Ma fuor mi strugge d'amoroso gelo.

Poi nanzi a gli occhi Amor m'ha posto un velo,
Sotto 'l qual lagrimando il duol distilla,
Sì ch'io non veggio parte omai tranquilla
Per attemprar la fiamma che mal celo.

Né aspetto mai più luce; né men foco
Spero mai dentro al cor, né fuor men ghiaccio;
Ma ceco pianga sempre, avampi et treme,

Se quella bella man non scioglie il laccio,
Che sì soavemente a poco a poco
Mia vita strugge, e il cor m'annoda et preme.

LXVIII

Un novo et sì sfrenato raggio d'oro,
Che ogni splendore offende di sua luce,
Mia vita nelle fiamme in guisa adduce,
Che quanto più divampo, più namoro.

Ardo in quell'ora et dolcemente moro,
Mentre che al vago ardor mi riconduce
Lei, che m'ha scorto al fin della mia luce
Con quella man, che nei miei pianti onoro.

Suavi stridi, onde il ciel si risente,
Et lagrime pietose notte et giorno,
Et quei sospiri, ond'io già il mondo rempio,

Son frutti delle angoscie di mia mente,
Che sempre vede il bel costume adorno,
Che scese giù dal cielo a nostro esempio.

LXIX

Che pensi, cuor di tigre: a che pur guardi
Sdegnosa al cielo; et poi ti volgi a terra?
Cerchi di rinforzar l'aspra mia guerra,
Che sì ti discolori et subito ardi?

So ben che ti lamenti de tuoi sguardi,
Che affatto non mi fan metter sotterra:
Et più di quella man, che il cor m'afferra;
Parendoti il mio fin che venga tardi.

Ma fai qual vuoi di me, crudel, vendetta;
Et premi et pungi il cor da ciascun lato,
Che a te soccorso ancor quest'alma chiede.

Et s'alcun merto alfin per lei si aspetta,
Spero dopo la morte esser beato,
Soffrendo passion per vera fede.

LXX

Riposo, ove non fu mai tutto intero,
Et pace, ove è sol guerra, affanno et doglia,
Cercando per empir l'ardente voglia,
Che satia non fia mai per quel ch'io spero:

Et duol credendo esser più saldo et fiero,
Che Amor dai lacci d'oro il cor mi scioglia,
Son giunto a tal, ch'io ne fo quel che voglia
Errando d'ogni parte nel pensiero.

L'uno è cagion che nel mortal mio affanno
Ricorra a quei begli occhi per soccorso,
Ove al mio foco s'apparecchia l'esca:

L'altro, ch'io viva ove è il maggior mio danno;
Ne resti mai colei che il cor m'ha morso,
Infin che del mio corpo l'alma n'esca.

LXXI

Ora che il Sol s'asconde, et notte invita
Al dolce sonno ogni animal terreno,
Al freddo cerchio d'ombra, al ciel sereno
Arde il mio cor dolente, et chiama aita.

Poi pensa la cagion della ferita
Acerbamente ascosa nel mio seno,
Et rivolgendo ognior la scerne meno,
Tanto è la sua virtù vinta et smarrita.

Tal che non sa pensar se è fiamma o doglia
Quel che mi strugge et arde a parte a parte,
O pure altro martir che sì m'incende.

Or se a conoscer quel gli manca l'arte,
Che fia nella cagion, che a ciò m'invoglia,
Che al remo è più celata, et men s'intende?

LXXII

Che giova la cagion de' nostri guai
Cercar con gran disio dovunque guardi,
Anima semplicetta, poi che tardi
Da lei per noi mercè s'impetra omai?

Gli occhi sereni, et gli amorosi rai,
Che escon sì caldamente de suoi sguardi,
Son la cagion del foco, ove sempr'ardi,
Et della gran tempesta, ove tu stai.

Secreta lor virtù mandò giù al core
Con vana spene et le faville et l'esca,
Onde convien che eternalmente avampi.

Così a mia voglia un tempo m'arse amore:
Ma par che omai di giorno in giorno cresca
La fiamma sì, che non so donde scampi.

LXXIII

Né pianto ancor, né priego, né lamento
Giamai contra costei mi valse o vale:
Et io seguendo vo sempre il mio male;
Et par che di mia morte sia contento.

Doglioso et stanco, et d'affanno lento,
Come uom trafitto da pungente strale,
Vo lagrimando dietro a cui non cale,
Et per campagne et boschi caccio il vento.

Così tutto il mio tempo all'ombra, al sole
In van sospiro, in van ritento in versi
Da questa fera l'ultimo soccorso.

Ma che giova, alma trista, ognior dolersi?
Non cura nostre doglie, né parole
Costei che in vista umana ha cuor d'un orso.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 

Terze Rime 11-12

Post n°789 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XI

D'incerto autore

[Mentr'ella è a Verona con un suo amante, un altro, rimasto a Venezia, si duole ch'ella tardi a ritornare, ed a ciò la sollecita.]

Invero una tu sei, Verona bella,
poi che la mia Veronica gentile
con l'unica bellezza sua t'abbella.
Quella, a cui non fu mai pari o simìle,
d'Adria ninfa leggiadra, or col bel viso
t'apporta a mezzo 'l verno un lieto aprile;
anzi ti fa nel mondo un paradiso
il sol del volto, e degli occhi le stelle,
e 'l tranquillo seren del vago riso;
ma l'intelletto, che sì chiaro dielle
il celeste Motor a sua sembianza,
unito in lei con l'altre cose belle,
quegli altri pregi in modo sopravanza,
che l'uman veder nostro non perviene
a mirar tal virtute in tal distanza.
A pena l'occhio corporal sostiene
lo splendor de la fronte, in cui mirando
abbagliato e confuso ne diviene:
questa la donna mia dolce girando,
l'aria fa tutta sfavillar d'intorno,
e pon le nubi e le tempeste in bando.
Di rose e di viole il mondo adorno
rende 'l lume dal ciglio, con cui lieta
primavera perpetua fa soggiorno.
Oimè! qual empio influsso di pianeta,
unica di quest'occhi e vera luce,
subito mi t'asconde e mi ti vieta?
Chi 'l nostro paradiso altrove adduce,
Adria, meco perciò dogliosa e trista,
ché 'n tenebre il dì nostro si riduce?
Ogni altro oggetto, lasso me, m'attrista,
or che del vago mio splendor celeste
mi si contende la bramata vista.
Ben del pensier con l'egre luci e meste
scorgo Verona invidiosamente,
che de' miei danni lieta si riveste.
Veggo, lasso, e rivolgo con la mente
ne l'altrui gioia e ne l'altrui diletto
via più grave 'l mio danno espressamente.
Adria, per costei fosti almo ricetto
di tutto 'l ben ch'a noi dal ciel deriva,
quant'ei ne suol più dar sommo e perfetto:
or di lei tosto indegnamente priva,
per questa del tuo lido antica sponda
torbido 'l mar risuona in ogni riva.
Ben tanto più si fa lieta e gioconda
Verona; e di fiorito e dolce maggio,
nel maggior nostro verno e ghiaccio, abonda.
Quivi del mio bel sol l'amato raggio
spiega le tante sue bellezze eterne,
che d'ir al cielo insegnano il viaggio.
Per virtù di tal lume in lei si scerne
vestir le piante di novel colore,
e giunger forza a le radici interne.
L'aura soave e 'l prezioso odore,
che da le rose de la bocca spira
questa figlia di Pallade e d'Amore,
nutrimento vital per tutto inspira,
sì ch'a quel refrigerio in un momento
tutto risorge e rinasce e respira;
e de la voce angelica il concento
i fiumi affrena, e i monti ad udir move,
e 'l ciel si ferma ad ascoltarla intento:
il ciel, che in Adria piange, e ride altrove,
là 've la dolce mia terrena dea
grazia e dolcezza dal bel ciglio piove,
e quel ricetto estremamente bea,
dov'ella alberga, per destìn felice
d'un altro amante e per mia stella rea.
Altri del mio penar buon frutto elice,
del mio bel sol la luce altri si gode,
ed io qui piango nudo ed infelice.
Ma, s'ella 'l mio dolor intende et ode,
perch'a levarmi l'affamato verme
non vien dal cor, che sì 'l consuma e rode?
E, se non m'ode, o mie speranze inferme!
poi che 'l ciel chiude a' miei sospir la strada,
contra cui vano è quanto uom mai si scherme,
Ma tu sì aventurosa alma contrada,
ch'a pena un tanto ben capi e ricevi,
qual chi confuso in gran dolcezza cada,
d'Adria i diletti, a fuggir pronta e lievi,
mira; e dal nostro danno accorta stima
il volar de' tuoi dì fugaci e brevi.
Or ti vedi risposta ad alta cima
né pensi forse come d'alto grado
le cose eccelse la fortuna adima:
stabil non è di qua giù 'l bene, e rado
più d'un momento dura, e 'l pianto e 'l duolo
trova per mezzo l'allegrezza il guado,
Ma pur felice aventuroso suolo,
che quel momento al goder nostro dato
possiedi un ben così perfetto e solo.
Pian, poggio, fonte e bosco fortunato,
ch'a un guardo, a un sol toccar del vago piede
forma prendete di celeste stato,
l'alto e novo miracol, che 'n voi siede,
a farvi basti, in tanto spaziò, eterno
tutto quel ben, ch'al suo venir vi diede;
sì che mai non v'offenda o ghiaccio o verno,
ned altro influsso rio,ma sempre in voi
sia la stagion de' fior lieta in eterno;
pur che tosto colei ritorni a noi,
al nido, ov'ella nacque, che senz'essa
mena tristi ed oscuri i giorni suoi.
Deh torna, luce mia, del raggio impressa
de la divinità, qui dove mai
pianger la tua partita non si cessa.
Tempo è di ritornar, madonna, omai
a consolar de la vostr'alma vista
di questa patria i desiosi rai,
a dar a la mia mente inferma e trista
col dolce oggetto del bel vostro lume
rimedio contra 'l duol, che sì l'attrista:
e, se troppo 'l mio cor di voi presume,
datemi in pena che del vago volto
da vicin lo splendor m'arda e consume;
né de' begli occhi altrove sia rivolto
il doppio sol, fin che 'n polve minuta
non mi vediate dal mio incendio vòlto;
e, per farlo, affrettate la venuta.

XII

Risposta della signora Veronica Franca

[Ella risponde invitando l'innamorato, che non può riamare, a celebrar Venezia; dove, perché egli possa dimenticare lei per altra donna, non tornerà così presto.]

Oh quanto per voi meglio si faria,
se quel, che 'l cielo ingegno alto vi diede,
riconosceste con più cortesia,
sì che impiegarlo in quel, che più si chiede,
veniste, disdegnando il mondo frale,
che quei più inganna, che gli tien più fede;
e, se lodaste pur cosa mortale,
lasciando quel ch'è sol del senso oggetto,
lodar quel ch'al giudicio ancor poi vale:
lodar d'Adria il felice almo ricetto,
che, benché sia terreno, ha forma vera
di cielo in terra a Dio caro e diletto.
Questa materia del vostro ingegno era,
e non gir poetando vanamente,
obliando la via del ver primiera.
èenza discorrer poeticamente,
senza usar l'iperbolica figura,
ch'è pur troppo bugiarda apertamente,
si poteva impiegar la vostra cura
in lodando Vinegia, singolare
meraviglia e stupor de la natura.
Questa dominatrice alta del mare,
regal vergine pura, inviolata,
nel mondo senza essempio e senza pare,
questa da voi deveva esser lodata,
vostra patria gentile, in cui nasceste,
e dov'anch'io, la Dio merc', son nata;
ma voi le meraviglie raccoglieste
d'altro paese; e de la mia persona,
quel ch'Amor cieco vi dettò, diceste.
Una invero è, qual dite voi, Verona,
per le qualità proprie di se stessa,
e non per quel che da voi si ragiona;
ma tanto più Vinegia è bella d'essa,
quanto è più bel del mondo il paradiso,
la cui beltà fu a Vinegia concessa.
In modo dal mondan tutto diviso
fabricata è Vinegia sopra l'acque,
per sopranatural celeste aviso:
in questa il Re del cielo si compiacque
di fondar il sicuro, eterno nido
de la sua f', ch'altrove oppressa giacque
e pose a suo diletto in questo lido
tutto quel bel, tutta quella dolcezza,
che sia di maggior vanto e maggior grido.
Gioia non darsi altrove al mondo avezza
in tal copia in Vinegia il ciel ripose,
che chi non la conosce, non l'apprezza.
Questo al vostro giudicio non s'ascose,
che de le cose più eccellenti ha gusto;
ma, poi la benda agli occhi Amor vi pose,
dal costui foco il vostro cor combusto,
vi mando agli occhi de la mente il fumo,
che vi fece veder falso e non giusto.
Ned io di me tai menzogne presumo,
quai voi spiegaste, ben con tai maniere,
che dal modo del dir diletto assumo;
ma non perciò conosco per non vere
le trascendenti lodi, che mi date,
sì che mi son con noia di piacere.
Ma, se pur tal di me concetto fate,
perch'al nido, ov'io nacqui, non si pensa
da voi, e 'n ciò perch'ognor nol lodate?
Perch'ad altr'opra il pensier si dispensa,
se per voi deve un loco esser lodato,
che dia al mio spirto posa e ricompensa?
Ricercando del ciel per ogni lato,
se ben discorre in molte parti il sole,
però vien l'oriente più stimato;
perché quasi dal fonte Febo suole
quindi spiegar il suo divino raggio,
quando aprir ai mortali il giorno vuole:
così anch'io 'n questo e in ogni altro viaggio,
senza col sol però paragonarmi
per mio oriente, alma Venezia, t'aggio.
Questa, se in piacer v'era dilettarmi,
dovevate lodar; e con tal modo
al mio usato soggiorno richiamarmi.
Lunge da lei, di nullo altro ben godo,
se non ch'io spero che la lontananza
dal mio vi scioglia, o leghi a l'altrui nodo.
Continuando in cotal mia speranza,
prolungherò più ch'io potrò 'l ritorno:
tal che m'amiate ha lo sdegno possanza!
Così vuol chi nel cor mi fa soggiorno:
amor di tal, che per vostra vendetta
forse non meno il mio riceve a scorno;
ma, come sia, non ritornerò in fretta.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (10)

Post n°788 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

27

Entra dell’Ariète, sicchè i fiori
Vestono i colli e gli arbuscei le fronde,
In verde prato gir vestita a bianco
Vidi una donna con cerchio di perle,
Composto con grand’arte in lucent’oro.
I suoi biondi capelli un nodo d’oro
Rilegava sì ben, che invidia al sole
Facea, mischiando i bianchi e’ rossi fiori,
Annodandogli tutti in verdi fronde,
Per avvolgerli insieme colle perle,
Et adornarsi sotto il manto bianco.
Fiso guardando tra ’l bel nero e bianco
Negli occhi, che parean ciascuno un sole,
Abbagliai sì ch’io caddi come i fiori
Con lor succisi gambi, o come fronda
Quando è spezzato il ramo; nè più l’oro
Riconosceva, nè color di perle.
 
Allor trasse la man bianca di perle
Disotto al prezïoso vestir bianco,
Dove una ruota avea trapunta in oro,
E chinò la man bianca giù a’ fiori
Ricoprendomi tutto colle fronde.
Così dormi’ infino all’altro sole.
 
Ma poi ch’io mi svegliai non vidi il sole,
Ch’era sparito, e la fronte di perle
Col suo serico adorno vestir bianco
Di varj nodi tutto ornato a oro;
E secche si eran già le verdi fronde,
E spenti tutti e bianchi e’ rossi fiori.
Allor gridai; o ben mondani, o fiori
Caduchi e lievi, o fuggitive perle,
Ed o fragile e debíl vestir bianco,
Ed o vani pensier nel fallac’oro,
Voi non durate a pena un brieve sole
Rivolgendovi come al vento fronde.
Sicchè la fe ch’a voi, o fiori o fronde,
Avea, abbandono e perle e bianco e oro,
E a te mi raccomando eterno sole.

28

Se giammai penso alla mia vita affisso
Quant’ella è frale, e come morte strugge
Ciò ch’è nel mondo, e come il tempo fugge,
Spesso contra di me m’adiro e risso.

E dico; fa che ’l tuo cor sia discisso
Da’ ben mondan, co’ qua’l’anima adugge:
Nè irato leon per febbre rugge
Quant’io me riprendendo in questo abisso.

Ed ogni dì muto nuovo consiglio,
Pensando ed ordinando la mia vita;
Così deliberando a morte corro.

E sempre avvien che pure il piggior piglio;
Onde l’anima trista sbigottita
Merzè, Iesù, ti grida in questo borro

29

Non fur vinte giammai arme Latine,
Nè la Greca scïenza fu avanzata,
Nè nulla fu sì di bellezze ornata
Che vincesse le donne Fiorentine.

Ben fu formata da virtù divine
Questa che per Idea dell’altre è data,
Ed ha in se virtù, che chi le guata
Fanno gentil, leggiadre e pellegrine.

O gioghi Parnasei, o sante Muse,
O Minerve, o Apollo, o gran poeti,
Perchè non siete in polpa, in ossa, in vena?

Voi non aresti mai rime diffuse
Nè mai dettati versi tristi e lieti;
Sol canteresti la latina Elèna.
 
 
 

La poverella

Post n°787 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La poverella

Stavo cor zoppo in fonno ar vicoletto
Qiiann'ecchete è passata 'na signora:
A lui j'ha dato er sordo e a me m'ha detto:
- Tu che sei sana e libbera, lavora! -

Da che nun fo la guercia, ciarimetto,
Ho voja a pèrde' er fiato l'ora e l'ora:
In de 'sti tempi qui nun fa più affetto
La scarpa rotta e er gommito de fora.

Ma mò' ciò 'na risorsa in mi' marito,
Che giorni fa cascò dar quinto piano;
Ier' a sera a San Giacomo ho sentito

Che forse se farà  l'operazzione:
Mbè, si Dio vò' je tajeno le mano,
Vedrete che me fo 'na posizzione.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (2-02)

Post n°786 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO II

Però che spesso avièn che l’uom domanda 
de le mie insegne e sí de’ miei offici, 
è buon ch’io cibi te di tal vivanda. 
Tu dèi saper che le prime radici 
si funno i re, che fenno i senatori, 5 
li cui figliuoli eran detti patrici.
Consoli seguitaro e dittatori 
e costor fun tra’ miei sí grandi e tali, 
che potean comandar come signori; 
tribuni ancora apresso questi, i quali 
fun per la plebe in Sacro monte eletti, 
dico a difesa di tutti i lor mali. 
Fun censori, questori e fun prefetti, 
vescovi ancor sopra le cose sacre, 
edili per guardare ai miei difetti. 15 
A pro de’ grandi e de le genti macre 
funno pretori, che le questioni 
traeano a fin, quand’erano piú acre. 
Fun ciliarche e fun centurioni, 
maestri e reggitor dei cavalieri 20 
e, diretro da lor, decurioni. 
Con piú valor, con piú alto pensieri 
donna mai non si vide, com’io fui, 
né ordinata piú ne’ suoi mestieri. 
Io tel dirò, perché tu ’l dica altrui: 25 
in fra gli altri dolor, m’è or ch’io veggio 
tal far tribun, che l’uom non sa dir cui. 
Or se seguir dirittamente deggio, 
dir mi convien de l’una e l’altra insegna, 
con le qual vinsi quanto qua giú veggio. 30 
La piú vittoriosa e la piú degna, 
la piú antica e con piú alte prove, 
e quella che nel mondo ancor piú regna, 
l’aquila è, che dal ciel venne a Giove 
per buono augurio, quando pugnar volse 35 
co’ figli di Titano e anco altrove. 
Costui per arme in vessillo la tolse 
in fin ch’el visse e certo a lui s’avenne, 
ché giusto fu, e ’l ciel per tal lo sciolse. 
Questa per sua Dardano poi tenne; 40 
questa Ganimede trasse a la luna, 
dove pincerna con Aquario venne; 
questa portò Enea in sua fortuna 
per l’Africa in Italia, sí che poi 
un idol fu a la gente comuna; 45 
e questa a Prisco con gli artigli suoi 
trasse il cappel di capo e gliel rimise, 
come chiaro per Livio saper puoi: 
onde Tanaquil l’abbracciò e rise, 
tanto dolce diletto n’ebbe al core 50 
del bello annuncio in che speranza mise. 
Per questo, Prisco, poi che fu signore, 
la prese in tanto amore e sí l’avanza, 
che da piú parti le era fatto onore. 
Con questa Mario strusse la possanza 55 
de’ Cimbri, come il mio Sallustio scrive, 
quando Rodan cambiò volto e sembianza. 
Con questa Cesar cercò molte rive, 
Pompeo, Catellina e piú miei figli 
e Ottavian, ma con penne piú vive. 60 
E se cucito non le avesse i cigli 
per sua viltade Carlo di Buemme 
e rotto il becco e schiantati gli artigli, 
di bei rubini e d’altre care gemme 
tu le vedresti una ricca corona 65 
di sopra a gli archi e al gambo dell’emme. 
Poi la seconda, di che l’uom ragiona 
che piú temuta fu per tutte terre 
e piú gradita da ogni persona, 
si fu, con l’Esse, il P, il Q, e l’Erre 70 
d’oro scolpiti dentro al campo rosso: 
e con questa fornio giá molte guerre. 
E perché meno qui rimagni grosso, 
trattar ti voglio con brievi parole 
de’ due colori quanto dir ne posso. 75 
L’oro, ch’è giallo, è appropiato al sole 
e ’l sol ci dá prudenza e signoria 
e lume a ciascun ben che far si vole; 
il rosso a Marte dato par che sia 
e Marte dio di battaglie si crede, 
che porge altrui vittoria e maggioria: 
ond’io, che in questi dei avea fede, 
d’oro lo scudo vermiglio adornai, 
che al tempo di Numa il ciel mi diede. 
Ancor le quattro lettere formai, 85 
come da alcuno puoi avere udito, 
con argomento d’intelletto assai. 
Queste mostravan che come col dito 
istá la carne e l’unghia, cosí meco 
era il senato e il popolo unito. 90 
E in esse ancora intender puoi quel preco 
che giá di Cristo ragionar udisti, 
che ’n su la croce fe’, parlando seco, 
allor che disse ne’ sospir piú tristi 
Cristo, ch’è salvator di tutto il mondo: 95 
Salva Populum Quem tu Redemisti.
E in altro ancor lo ’ntendo, ch’io nascondo.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (9)

Post n°785 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

24

Io non ardisco di riguardar fiso,
Te mirabil Fenice,
Perchè ’l cor dice — rimarrai conquiso.

Dagli occhi tuoi escano i chiari rai
Ch’altrui fan duro sasso,
Cambiandosi le membra tutte quante.
Dell’antica Medusa le forz’hai.
Oimè, tristo, lasso,
Che già sento mancare il cor tremante.

Ah, che esempio sarò nel mondo errante
Di non mirar l’altezza
Di tua bellezza — fatta in paradiso!



25

In coppa d’or zaffir, balasci e perle;
Cantar donna amorosa in verde prato;
E con vittoria cavaliere armato;
E fiammeggiare in ciel lucide stelle;

E fiera in selva con gaetta pelle;
Leggiadro drudo da sua donna amato,
Cantare in versi il suo benigno fato;
Amanti donnear vaghe donzelle:

Tutto è niente a veder questa Dea,
Che fa invidia al cielo onde è discesa
E di bellezze avanza Citerea.

Perchè dunque sostien cotale offesa,
Amor, che fuor della tua corte stea
Chi s’arma contra te e fa difesa?



26

O vezzoso, leggiadro e bianco nastro
Ch’avvolgi i capei d’or sanz’alcun’arte;
O gigli, o rose in quella fronte sparte
Più lucente e polita che alabastro.

Occhi splendïenti più che astro,
Ove ’l bianco dal ner sì ben si parte;
O viso, cui natura sì comparte,
Ch’aggiunger non vi può arte nè mastro.

Certo che Paris mai la bella Elèna,
E Troiolo Criseida in veste bruna,
Nè Achille la nobil Pulisena,

Nè Iove Dafne amato avrebbe o alcuna;
Perchè veduto avrien leggiadria piena,
Gentilezza e biltà tutte in quest’una

 
 
 

Terze Rime 9-10

Post n°784 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Abdelkader Salza, Bari, Laterza 1913

IX

D'incerto autore

[Altro lamento d'un amante di Veronica, durante un'assenza di lei.]

Donna, la vostra lontananza è stata
a me, vostro fedel servo ed amante,
morte tanto crudel quanto insperata.
Nel gentil vostro angelico sembiante
abitar l'alma e 'l mio cor vago suole,
e ne le luci sì leggiadre e sante:
queste fùr risplendente unico sole
sovra i miei dì, senza lor tristi e negri,
e di quel pieni, ond'uom via più si duole,
come sono a me adesso orbati ed egri,
in questa sepoltura de la vita,
che non fia, senza voi, che si reintegri.
Con voi l'anima mia s'è dipartita,
anzi 'l mio spirto e l'anima voi sète,
e tutta la virtù vitale unita:
e, s'uom morto parlar vien che si viete,
non io, ma di me parla in cambio quella,
che ne le vostre man mia vita avete.
Questa non pur vi scrive e vi favella
per miracol d'Amor, in cotal guisa,
che, ne l'esser io morto, in voi vive ella;
ma, stando dal cor vostro non divisa,
vi susurra a l'orecchie di segreto,
e 'l mio misero stato vi divisa.
Né perciò del mio male altro ben mieto,
se non ch'agli occhi vostri ei si figura
con spettacolo a voi gioioso e lieto;
e, mentre meco ognor v'innaspra e indura,
superate ne l'essermi crudele
le fiere mostruose a la natura.
Lasso, ch'io spargo ai venti le querele,
anzi è un percuoter d'onde a duro scoglio,
quanto mai di voi pianga e mi querele.
Mosso s'insuperbisce il vostro orgoglio,
sì come 'l mar a l'impeto de' venti,
mentre a ragion con voi di voi mi doglio:
ed or, per far più gravi i miei tormenti,
per levarmi 'l ristoro, ch'io sentia
nel formarvi propinquo i miei lamenti,
n'andaste a volo per diversa via,
quando men sospettava, a dimostrarvi
in tutti i modi a me contraria e ria.
Qual neve sotto 'l sol, piangendo sparvi
con quest'orma di vita, e con quest'ombra
vana e insufficiente a seguitarvi;
anzi, da' miei sospir caccia e sgombra,
col vento, ch'a voi venne, si risolse,
che spirando al bel sen fors'or v'ingombra.
Empio destin, ch'altrove vi rivolse
dal mirar lo mio strazio e quella pena,
che infinita al mio cor per voi s'accolse!
Troppo era la mia vita alta, serena,
darvi in presenzia de la mia gran fede
col vicin pianger mio certezza piena,
e riceverne asprissima mercede
di presenti minacce e di ripulse,
contrario a quel ch'a la pietà si chiede.
Ben certo allor benigno il ciel m'indulse:
e troppo chiara ancor nel sommo sdegno
la luce de' vostr'occhi a me rifulse.
Di gustar quel piacer non era degno,
ch'io sentia, nel vedervi, aspro e mortale
far più sempre 'l mio duol, con ogni ingegno:
or lasso piango il mio passato male,
quando a le mie d'amor gravi percosse
non fu in dolcezza alcun diletto eguale.
Amor d'acerbo colpo mi percosse,
di quel che di piacer è in tutto privo,
quando da me, madonna, vi rimosse.
Dianzi fu 'l viver mio lieto e giulivo,
ed or, a prova del mio mal cotanto,
sento 'l mio ben, mentre di lui mi privo.
Deh tornate a veder il mio gran pianto;
venite a rinovar l'aspre mie piaghe,
senza lasciarmi respirar alquanto:
di ciò contente fian mie voglie e paghe,
che 'l mio duol, da voi fatto ancor maggiore,
mirin da presso lame luci vaghe.
A me fia d'alta gioia ogni dolore;
e in gran pietà riceverà lo strazio,
e in dolce aita ogni aspra offesa il core,
pur ch'a noi ritorniate in breve spazio.

X

Risposta della signora Veronica Franca per l'istesse rime

[Non potendo ella, invaghita d'un uomo a lei caro su tutti, corrispondere ad altro affetto, s'è allontanata da Venezia, perché nella sua assenza si mitighi l'ardore di chi l'ama senza speranza.]

In disparte da te sommene andata,
per frastornarti da l'amarmi, avante
ch'unqua mostrarmi a tanto amore ingrata:
né mia colpa fia mai ch'alcun si vante
giovato avermi in opre od in parole,
senza mercede assai più che bastante;
ma s'uom, seguendo ciò che 'l suo cor vuole,
di quel m'attristi, ond'ei via più s'allegri,
meco non merta, e mi sprezza, e non cole.
Quei sì, che son d'amor meriti intègri,
quando, per far a me cosa gradita,
per me ti sono, i tuoi dì tristi, allegri:
e nondimeno tu con infinita
doglia sentisti che mai cose liete
non m'incontrár dal tuo amor disunita.
Che mi prendesti a l'amorosa rete,
presa da un altro pria, vietò mia stella;
non so se per mio affanno, o per quiete:
basta che, fatta d'altro amante ancella,
l'anima, ad altro oggetto intenta e fisa,
rendersi ai tuoi desir convien rubella.
Con tutto questo, e ch'al mio ben precisa
la strada fosse, e fattomi divieto,
dal tuo seguirmi poco men che uccisa,
con giudicio amorevole e discreto
tanto stimai 'l tuo amor senza misura,
quanto più al mio voler fosti indiscreto:
e, di te preso alcuna dolce cura,
bench'a me tu temprasti amaro fele
col tuo servirmi, in ciò non ti fui dura:
e, per te non avendo in bocca il mele
di quell'affetto, ch'entro 'l sen raccoglio,
che in altrui pro convien che si rivele,
liberamente, come teco soglio,
ti raccontai ch'altrove erano intenti
i miei spirti; e mostraiti il mio cordoglio.
Or, perché teco ad un non mi tormenti,
tentando invan ch'a mio gran danno io sia
pietosa a te, con tuoi dogliosi accenti,
da te partimmi; e, non potendo pia
esserti, almen veridica t'apparvi :
non rea, qual da te titol mi si dia.
Quanto è 'l peggio talvolta il palesarvi,
effetti d'alma di pietate ingombra,
dov'altri soglia male interpretarvi!
Benché, se vaneggiando erra et adombra
il tuo pensier, che da ragion si tolse,
seguendo Amor per via di lei disgombra,
non però quel, ch'ad util tuo si vòlse
da me, da cui 'l desir tuo si raffrena,
che d'ir al precipizio piè ti sciolse,
a meritar alcun biasmo mi mena;
anzi di quel, ch'aiuto in ciò ti diede,
la mia chiara pietà si rasserena:
ché, s'io mossi da te fuggendo 'l piede,
fu perché le presenti mie repulse
m'eran de la tua morte espressa fede.
E quante volte fu che ti repulse
da sé 'l mio sguardo, o ti mirò con sdegno,
so che 'l gran duol del petto il cor t'evulse.
Ch'io ti vedessi d'alta doglia pregno
morirmi un dì davante, eccesso tale
era a me sconvenevole ed indegno.
Da l'altra parte, assai potev'io male
risponder al tuo amor: non men che fosse
il tentar di volar non avendo ale.
E che far potev'io contra le posse
di quell'arcier, che, del tuo bene schivo,
d'oro in te, in me di piombo il suo stral mosse?
Ma d'òr prima anco al mio cor fece arrivo
la sua saetta, stand'io ferma intanto,
mirando incauta l'altrui volto divo.
Quinci un lume, ch'al sol toglieva il vanto,
m'abbagliò sì, che non fia che s'appaghe
d'alcun ben altro mai l'anima tanto.
E, perch'errando 'l mio stil più non vaghe,
io parti' per disciorti dal mio amore,
con le mie piante a fuggir pronte e vaghe.
èo che la lontananza il suo furore
mitiga; e quando tu, del viver sazio,
pur vogli amando uscir di vita fuore,
te, con quest'occhi, e me insieme non strazio.
 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (8)

Post n°783 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

21

Questa è colei, Amor, che n’addolcisce
Il core e lusingando a morte il mena,
Questa è colei, ch’or turba or rasserena
L’alma, che spesso trema e impallidisce.

Questa è colei che dolce e amaro misce,
Sì ben ch’io non ho polpa, osso o vena
Ch’io non senta mancar, nè credo a pena
Giungere al porto, sì l’alma invilisce.

Dunque, signor, che fra dubbiosi scogli
Or d’un oscuro, ed or d’un chiaro lume
Vedi trascorsa la mia debil barca;

Se da sì fallac’onde non mi togli,
O se da volar via non mi dai piume,
Sento romper il fil l’ultima Parca.



22

Con gli occhi assai ne miro,
Ma solo una nel core
Ne tieni, — Amore, per cu’ sempre sospiro.

Questo fo per iscudo,
E per me’ ricoprire
I mortal colpi che sentir mi fai.
E tu sempre più crudo
Tien freddo il suo disire,
E fammi traditor, nè ciò fu mai.

Dunque, signor, che ’l sai,
Scuoprile il mio dolore,
E dille; muore — senza colpa in martiro.



23

Contento assai sarei, dolce signore,
Se io potessi con morte finire
La mia gravosa pena e ’l gran martire,
Che dentro chiude il tormentato core.

Ma perch’io veggio che sarebbe errore
Se io facessi sì col mio morire
Che veder non potessi più aprire
La luce, con che vinci ogni splendore;

Vivo morendo, ed ognora ripenso
Quanto soavi e dolci in me porgesti
Daprima gli occhi, ch’or m’han fatto un sasso.

Nè d’altro si lamenta un core offenso,
Se non che come ferito il vedesti,
Con lei ti congiurasti; oimè, lasso!

 
 
 

'Na frittata in campagna

Post n°782 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

'Na frittata in campagna

- Sor oste. - Che ci vòle? - Una frittata. 
- De quant'ova? - De quattro. - A regazzino. 
Va' de là, pia quattr'ova de giornata. 
- De giornata? So' tutte cor purcino.

- Di' piano. La padella? - Sta attaccata. 
L'erba pepe? - Sta sotto ar tavolino, 
- Damme lo strutto. - Nonna ce s'è ontata 
Le scarpe. - Damme l'ojo de' llumino,

Sverto, nun t'addormì'. Tiè' qui 'sto piatto,
Sbattece l'ova, - Nun vedete? E' sporco 
De semmolella; cià magnato er gatto.

- Mejo! Accusì je vie' più saporita. 
- C'è cascata 'na mosca? - Ingrassa er porco.
- Sor oste, 'sta frittata? - Ecco, è servita.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

La Bella Mano (061-065)

Post n°781 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti
 
LXI

Non porrà mai con tutta sua durezza.
Questa selvaggia, o con più rea sembianza,
Levar dal petto mio l'alta speranza
Che già fermata è sì, che nulla apprezza.
 
Ben può suo sdegno insieme et sua vaghezza
Disfar di me quel poco che ne avanza;
E il resto di mie spoglie in la bilanza
Tener tra vita et morte in tanta asprezza.
 
Ma per ritrarmi dall'ardente laccio,
Indarno ver di me si mostra dura,
Da tal benigna stella vien mia sorte.
 
Dico l'errante fera, che ognior caccio,
Leggera et sciolta sì che nulla cura,
Di sua beltà superba et di mia morte.
 
LXII

Solo fra l'onde senza remi o sarte,
A meza notte priva d'ogni luce,
Mi trovo in picciol legno, et è mio duce
Errore et Caso, non Ragione et Arte.
 
Quando io son combattuto d'ogni parte
Un nuvol di sospir, che mi conduce
Vicino al mortal passo, al cor m'adduce
Cagion, ch'io mi lamenti in mille carte.
 
Et più pavento allor, ch'io mi ricordo
Che, stando dentro al legno ben non veggio
Come fortuna intorno mi minaccia.
 
Il mio fido soccorso è fatto sordo,
Morta è pietà per me dove la chieggio,
Chiuse ha mia speme le pietose braccia.
 
LXIII

Deh torci gli occhi dallo soperchio lume,
Anima dolorosa, che due stelle
Ti par la vista, che ti mena al fine,
Et pensa chi vien tosto omai la sera;
Sì che io già sento rinforzar gli venti,
Et la fortuna infin dentro del porto.
 
Ben fora tempo omai ridursi in porto,
Ch'io veggio intorno già sparito il lume,
Et al mio navigar turbati i venti:
Et le tranquille mie due care stelle
Mi stan celate in tutto, da la sera
Ch'io vidi al viver mio sì pronto il fine.
 
Di quinci lasso di mia vita il fine,
Quindi si mostra al mio soccorso il porto,
Et al pigliar consiglio vien la sera:
Ma sì m'abbaglia un dispietato lume,
Ch'io sprezo il segno di mie fide stelle,
Et la salute mia commetto ai venti.
 
Se mai s'acquetan gli turbati venti,
Sì che, venendo la tempesta al fine,
All'orizzonte sorgan le mie stelle,
Io scamperò fuggendo in qualche porto,
Nanzi ch'un'altra volta il maggior lume
Trapassi il monte, et torni l'altra sera.
 
Ma pria mi giugnerà l'ultima sera,
Che mai levar dall'Ostro senta i venti
Per isgombrare il ciel nanzi al bel lume:
Et prima Amor trasporterammi al fine,
Ch'io volga vela per ritrarme in porto,
Durando il corso delle crude stelle.
 
Se tanto a me nimiche son le stelle,
Che voglion ch'io sospir mattino et sera
Su l'onde errando et mai no arrivi a porto,
Movansi d'ogni parte tutti i venti,
Sì che una volta veggia trarmi al fine
Per non veder per gli occhi mai più lume.
 
Leggiadro et vago lume di mie stelle
Scorgimi a miglior fine innanzi sera
Con più suavi venti in qualche porto.

LXIV

Fra scogli in alto mar, pien di disdegno,
Colma ho la vela; e il sol già si nasconde;
Et solo mi ritrovo, et non so donde
Conforto aspetti omai per mio sostegno,
 
Non veggio lume in porto o stella o segno,
Non luna che le corna aggia ritonde,
Ma tenebrose nebbie, et turbide onde,
Et giunto al duro fin mio stanco legno.
 
In tanto, di me dubbio, disperando
Scorgo il maggior periglio, et lì m'avento
Per venir tosto all'ultimo sospiro;
 
Ma lei, che d'ogni ben mi tiene in bando,
Sostien ch'io non perisca in tanto stento,
Perché sia sempiterno il mio martiro.

LXV

Se l'alma non s'accorge dell'inganni,
Non posso lungamente omai soffrire:
Smarrita è l'arte, et manco vien l'ardire,
Et la ragione è morta tra gli affanni.
 
La guerra è lunga et crudel troppo, et gli anni
Men freschi, stanchi sotto il gran martire:
La spene m'abbandona, e il gran disire
Sempre più ardente trovo né miei danni.
 
Il cor che né sue imprese tante volte
Quante ne ardisce, è vinto da costei,
Talor si sdegna, et pur meco s'adira.
 
Così mi vivo, et non è chi m'ascolte
Dè miei pensier, che tutti son di lei:
Onde la mente a doppio ne sospira.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

frank67lemiefoto0giorgio.ragazzinilele.lele2008sergintprefazione09Epimenide2bettygamgruntpgmteatrodis_occupati3petula1960mi.da2dony686giovanni.ricciottis.danieles
 
 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963