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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 17/12/2014
Post n°845 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XVII Tu dèi imaginar che Dio è tale che sempre rende altrui del ben far bene ed, e converso, cosí del mal male. Dopo Mauricio seguita che vene Focas, il qual se contro a lui fu rio, 5 bontá di Prisco, alfin, ne portò pene. Ma pria de la sua morte, dir udio che ’n Persia era ito e tornato sconfitto e che perduto avea assai del mio. Otto anni tenne l’onor ch’io t’ho ditto; 10 apresso lui Eraclio col figliuolo l’ebbe tra mano: e questo assai fu dritto, perché in Persia passò con grande stuolo, lá onde trasse la croce di Cristo, e fenne a Cosdroe sentir grave duolo. 15 Sergio, monaco doloroso e tristo, visse in quel tempo e fu Macometto, che profeta s’infinse al male acquisto. Un anno e trenta costui tenne stretto lo ’mperio mio; al fin, come Dio volse, 20 idropico morí sopra ’l suo letto. Seguita Costantino, lo qual tolse ogni mio caro e ricco adornamento e portò via: di che forte mi dolse. E fe’ morire, il tristo, a gran tormento, 25 papa Martino e se di lui mi lagno ragione è ben, perché ’l danno ancor sento. In Cicilia costui, dentro ad un bagno, da’ suoi fu morto, sí poco l’amaro: quattro anni tenne me e ’l mal guadagno. 30 In questo tempo i Franceschi passaro in Lombardia sopra a Grimoaldo, dove el fe’ sí che ’l ber costò lor caro. Un altro Costantin, costante e saldo, cattolico e modesto, venne apresso, 35 figliuol di quel che fu al mal sí caldo. E come seppe che ’l padre era messo a morte per Mezenzio e per li suoi, cosí ne fece la vendetta adesso. Li Saracini non molto da poi 40 passâr su la Cicilia e tal fu ’l danno, che lamento ne venne qua fra noi. Apresso questo, dopo molto affanno, Costantino co’ Bulgari fe’ pace, che in vér levante al fin d’Europa stanno. 45 Di lodarti Cesarea qui mi piace, che s’ascose al marito e mai nol volle: si fe’ cristian, con ciascun suo seguace. E se ’l tempo, ch’è lungo, non mi tolle lo rimembrar, diciassette anni tenne 50 lo mio signor l’onor, ch’è or sí molle. Giustiniano seguita, che venne prudente, largo e tanto temperato, che de l’altro di sopra mi sovenne. Sicuro in arme l’avresti trovato, accrescitore de la nostra Fede, vago di darmi pace e buono stato. Ma perché veggi come poco vede colui che ha piú di questa nostra gloria, se propia madre la fortuna crede, 60 quel che dirò redutti a la memoria, però ch’al tempo d’ora molto spesso parlar si può di somigliante storia. A questo mio signor, ch’io dico adesso, Leo patricio, con danno e vituperio, 65 lo regno tolse e confinollo apresso. Similemente ancor fece Tiberio: e cosí il traditor con forza e frodo tre anni apresso governò lo ’mperio e Tiberio, poi, sette; ond’io n’annodo 70 diece, in prima che avvenisse il caso, che fu sí giusto, che Dio ancor ne lodo. Dico: Giustinian, ch’era rimaso col suo cognato, tanto aiuto n’ebbe, che su tornò e vendicò il suo naso. 75 E tanto a la vendetta costui crebbe, che morir fe’ quanti erano in Cersona, se non che pur de’ pargoli gl’increbbe. Da sedici anni tenne la corona in fra due volte e in Costantinopoli 80 alfin perdeo col figliuol la persona. Se quel che or vedi e io ti dico copoli, conoscer puoi che sempre in pianto fui che ’mperador è stato d’altri popoli. Miracol fece, al tempo di costui, 85 Beda, sí che l’udiron padri e mamme, dove tra i monti predicava altrui: ché le gran pietre e le altre come dramme, quando fu giunto al fin, dove si dice in saecla saeculorum, gridâr amme. 90 E se pur oltra de la gran radice debbo trattar, Filippo apresso venne eretico, cattivo e infelice, il quale il mio un anno e mezzo tenne. |
Post n°844 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Amor, che vincer puote animo invitto. Poi ch'ha ne' suoi begli occhi il seggio e 'l nido Onde fa scorno Etruria a Cipro, a Gnido Così nel petto mio ferendo ha scritto. Lucretia, per cui l'arbia il letto ha d'oro, Con sue bellezze in terra uniche e sole, Superbe al carro mio spoglie ministra. Ella, che ornato il crin d'eterno alloro Riluce intorno al paragon del sole, È di sacra virtù figlia e ministra. [2 Di Diomede Borghesi] Di Diomede Borghese Svegliato Intronato. Al signor Borso Argenti.
Argenti, che d'onor fregiato, e vago Di viver dopo morte, al senso imperi E i sacri d'Elicona erti sentieri Scorri con l'intelletto altero e vago, Deh forma poetando eterna imago Di lei, ch'umilia i cor' selvaggi e fieri, E potrìa serenar cento emisferi Col sol ch'ha ne la fronte illustre e vaga. Nova Lucretia, che con puro oggetto Ben par che tanto lampeggiando s'erga Che talor Febo ne riceva ingiuria. Ne l'onorato suo candido petto Pellegrine virtù cortese alberga, Che fan superba a meraviglia Etruria. [3 Di Diomede Borghesi]
Già sette lustri neghittosa, oscura, Nel carcere mortal dormito ha l'alma, Or la risveglia e sprona illustre ed alma Beltà, ch'ogni altra più famosa oscura. Nova Lucretia, che sol brama e cura D'acquistar ben oprando alloro e palma, M'erge, sottratto a miserabil salma A la superna providenza e cura. Nel mirar gli occhi avventurosi, alteri, Onda mi sembra un Mongibello il core, In grembo a la virtù m'affino e tergo. Per lor che fiano eterna esca d'Amore Avviene a gran ragion ch'io crida, e speri Lasciar più cigni glorïosi a tergo. [3 Di Diomede Borghesi] In questo sonetto, nel quale si toccano delle opinioni Platoniche, si mostra quanto sia utile, e quanto onore sia risultato e risulti all'autore dell'avere conosciuto l'eccellenza delle bellezze della divina signora Lucrezia Senese. Et l'aver tolto affettuosamente a servirla et a venerala. [4 Di Diomede Borghesi]
All'eccellentissima signora donna Marfisa d'Este Cibo.
Né lungo l'arbia mia, nobil, gioconda, Né di Brenta sui campi, o d'Adria in seno, Né sul felice, illustre, almo terreno, Che 'l sacro Tebro riverente innonda, Né d'Arno in su l'aprica, altera sponda, Né vicina al Sebeto, a l'ambro ameno, Né presso a l'umil Serchio, al picciol Reno, Né dove più d'onor l'adige abbonda, Né di Taro a le rive ornate e chiare, Né dove corre la tranquilla Secchia, Né dove il Mincio si trasforma in lago, Vera bellezza in alcun volto appare Quanto nel viso tuo leggiadro e vago, Nel qual meravigliando il Po si specchia. [5 Di Diomede Borghesi]
Quand'io presi a cantar superba, altera Donna, che 'l cor mi strinse e 'l fianco aperse, E l'alma accesa in grave doglia immerse Sovra il corso mortal rigida e fiera, Mi parve amica a l'honorata schiera Ch'altrui lodando in rime ornate e terse, Che non saran giamai di Lete asperse La sua propria virtù conserva intiera. Ma poi ch'a certa prova io veggio e scorgo Ch'ella schernisce chi scorrendo il giogo Va di Parnaso, e d'alta gloria è vago, Spenta l'indegna arsura, e rotto il giogo Questi versi a Vulcan dispenso e porgo Ch'han d'ombra di beltà formata imago. [5 Di Diomede Borghesi] L'autore prese a servire et a celebrare donna, la quale in principio mostrando di prendere in sommo grado d'esser cantata da lui, a poco, a poco li diede a divedere ch'essa non pregiava punto i suoi componimenti. Intendendo egli finalmente per lettere di suoi amici ch'ella indegnamente biasimandolo e schernendolo cercava d'avvilirlo, pien di nobile sdegno diede al fuoco tutte quelle rime, nelle quali era con eccellenti lode non volgarmente esaltata la ingratissima femmina. [6 Di Diomede Borghesi]
Diserte rive, alpestri monti e rupi, Piagge disabitate e colli incolti, Solitarie campagne e boschi folti, Riposte valli, ed antri ombrosi e cupi, Orsi, tigri, leon(i), serpenti e lupi, Squamosi pesci, augei liberi e sciolti, Notte che forse il mio lamento ascolti, Mentre la terra e il mar co' l'ombre occupi. Erbe, fior, dumi, fonti, arbori e pietre, Fauni, Oreadi, Amadriadi e Glauco e Dori, Zeffiro e Cintia ad oltraggiarmi avvezza, S'a voi cal' de' miei gravi, alti dolori, Pregote, Amor, che pur m'ancide, o spetre Del vivo scoglio mio l'aspra durezza. [7 Di Diomede Borghesi] Poiché repente un generoso sdegno, Amor, malgrado tuo, disciolse il nodo, Ond'io legato in doloroso modo Ebbi me stesso alcuna volta a sdegno, Fuor del tuo nequitoso, ingiusto regno, In dolce libertà lieto mi godo E l'ora e la stagion ringrazio e lodo Ch'io fui sottratto a l'aspro giogo indegno. Donna vil, che rabbiosa orsa crudele Nel cor simigli, e qual Medusa .... Col guardo in pietra i semplicetti amanti, Non sarà più cagion ch'aspre querele Io sparga al vento fra sospiri e pianti Vergogna e danno a procacciarmi .... [8 Di Diomede Borghesi]
Quella, che già mi parve altera luce Sol d'alme glorïose altero oggetto, E mirabil d'amor pregio o diletto Noiose e gravi a i cor tenebre adduce. Io tolsi, o SDEGNO, al sacro monte in duce Donna, ch'è scorta da volgare affetto; E 'l suo nome illustrai fosco e negletto Tal che tra i più famosi oggi riluce. Colpa d'amor, che l'intelletto e gli occhi M'addombrò lusingando, e poscia a forza Cader mi fece a lagrimosa rete. Ma perché tu mi presti ardire e forza, Ond'io pur freno i van desiri, o sciocchi, L'altrui falsa beltà ripingo in Lete. [8 Di Diomede Borghesi] L'autore haveva tolto a servire e celebrare donna, nel giudicare i meriti della quale s'era forte ingannato. Finalmente aiutato da nobile et generoso sdegno a conoscerla, et riconoscere sé stesso, s'era in diversa maniera ad annullare tutti quegli honeri, che gli haveva procurato con la penna, et ciò fece particolarmente mutando e trasformando alquante rime, che erano state composte ad esaltazione di lei. [9 Di Diomede Borghesi]
Poich'ha leggiadro avventuroso sdegno Disciolto il fiero e miserabil nodo Che mi legò pur dianzi e strinse in modo Ch'avrò mai sempre un tal servaggio a sdegno: Fuor d'ingiusto amoroso acerbo regno In dolce libertà lieto mi godo, E l'ora e la stagion ringratio e lodo Ch'io fui sottratto al grave giogo indegno. Donna, che sia di core aspra e selvaggia Qual tigre hircana, e qual Medusa colga Misero spirto ad hora, ad hora in sasso. Non farà più ch'a duro laccio io caggia; E 'n tutto di ragion orbato e casso Tormento e scorno a procacciar mi volga. [10 Di Diomede Borghesi]
Damma seguir ch'ognor veloce fugge Sperar di render molle hircana tigre, Creder placar leon ch'irato rugge, Versar novo per gli occhi Eufrate, o Tigre, Neve bramar che 'l cor m'incende e strugge, Cercar due luci ad oltraggiarmi impigre, Nel sen ch'angue crudel m'attosca e fugge Ricettar voglie al bene inferme e pigre. D'opere illustri aver dispregio e biasmo E tanto esser avvezzo a guerra, a lutto, Che già del mio languir più non m'incresce. È d'amor cura, ond'io m'adiro e 'l biasmo, E poi che è tal di sua radice il frutto Lo schivo e ratto mi procuro altr'esca. [11 Di Diomede Borghesi]
S'egli avverrà che dia cortese e largo Dopo la morte mia vivere alquanto, L'alato vecchio a quel ch'io scrivo e canto, Mentre a' sospiri ardenti il freno allargo, La terra, il mare udrà ch'empio letargo M'offende; udrà ch'io mi distillo in pianto E bramo, per mirar fera che 'l canto Schernisce il mio dolor, cangiarmi in Argo: Udrà che 'ngombro Amor d'alto disdegno, Mi fa seguir per calle aspro e selvaggio Zoppo cursore una veloce dramma. E forse fia che dal mio stratio indegno Apprenda spirto valoroso e saggio, Chiuder il petto a l'amorosa fiamma. [11 Di Diomede Borghesi] L'autore haveva inconsideratamente preso a servire et a celebrare donna, la quale, o per soverchia alterezza, o per accidental cagione si beffava di lui, e delle sue compositioni. [12 Di Diomede Borghesi]
Dunque non feci un grave oltraggio al vero Biasmando lei, che 'n varie guise ognora Lo steril prato del mio ingegno infiora Con dolce sguardo, fiammeggiante, altero. Carca di gloria al ciel drizza il pensiero Madonna, e sol quà giù virtute onora; Per lei riluce Apollo, e strali indora A mille, a mille il pargoletto arciero. Lasso! in qual parte avrà fido ricetto Un, ch'è d'amor nemico; in odio al sole, Rubello di virtute, in ira al cielo. Ahi! che mi pose intorno a gli occhi un velo Megera, e ministrò sensi e parole, E carta e 'nchiostro dispensommi Aletto. [12 Diomede Borghesi] Mostrasi il doloroso pentimento ch'ebbe l'autore d'havere (colpa di cieco e malvagio sdegno) biasimata in alcune compositioni bella et gentilissima donna, la qual fia sempre da lui, come cosa divina, affettuosamente lodata et devotamente honorata. [13 Di Diomede Borghesi] Da tuoi begli occhi un raggio ardente e puro, Ond'è ch'ancho per fama uom' s'innamora, Lampeggia sì che 'l sole, ad ora, ad ora Altrui rassembra tenebroso e oscuro. E da i rosati labri alma reale, Ch'oggi col tuo valor Ferrara indori, E le cui grazie SOLE ONORA il mondo. SANTA spira soventi aura VITALE, Che di rara dolcezza ingombra i cori E rende il nostro ciel chiaro e giocondo. |
Post n°843 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XVI Qui di Giustinian segue ch’i’ debbia trattare, il quale Agabito ridusse a luce fuor d’ogni eretica nebbia. Per costui piacque al sommo Ben ch’io fusse alquanto ristorata de’ miei danni, 5 quando il buon Bellisan con lui produsse, lo qual con molti, lunghi e gravi affanni, Africa, Persia e Alemagna mise, Francia e Cicilia, di sotto ai miei vanni. E fu Narseto ancora, il quale uccise 10 Totila e scampò me del grande assedio, dove la fame quasi mi conquise, e fe’ morire, dopo lungo tedio, Amingo; e Vindino tenne preso; poi contro a Buccellin fu mio rimedio. 15 Ora, se il parlar breve hai ben compreso, intender puoi che per Giustiniano in parte il mio fu riscosso e difeso. Costui ridusse in bel volume e piano la legge, com’è il Codico e ’l Digesto, 20 e strusse quanto in essa parea vano. Ancora vo’ che ti sia manifesto che per Italia fu sí crudel fame, ch’impossibil ti fie a creder questo: che io vidi le madri in tante brame, 25 che gustavan la carne de’ lor figli, sempre piangendo lor dolenti e grame. Otto anni e trenta governò gli artigli a l’uccel mio, il becco, l’ali e ’l busto, e trasse me piú volte de’ perigli. 30 E tanto fu prudente, forte e giusto, ch’ancora il piango, sí di lui m’increbbe. Giustin minor del mio rimase Augusto. Lo mal consiglio de la donna ch’ebbe condusse allor Narseto a ordire cosa, 35 che apresso per mio danno molto crebbe. Non molto poi Rosimonda, sposa d’Albuin re, per lo soperchio sdegno morir fe’ lui e fuggissi nascosa. La fine sua, partita dal suo regno, 40 sannola i Ravignani e io in parte, ch’essa morio per suo malvagio ingegno. Bello è saper chi fu e di qual parte Albuin venne e udire la cagione, secondo che n’è scritto in molte carte; 45 chi fu Ibor e chi fu Agione, chi fu Gambara e poi come nel fiume Agismondo trovò Lamissione. E bel ti fie veder questo volume per Teodolinda, ch’al Battista in Moncia, 50 com’ancor pare, fece onore e lume. Ma se costei fu buona a oncia a oncia, di Romilda, se leggi le novelle, nel contrario saprai quanto fu sconcia. Due figlie ebbe la trista molto belle, 55 che, per fuggir vergogna, si pensaro coprir di carne morta le mammelle. E se de’ corpi lor l’onor guardaro, per la gran loda, e come piacque a Dio, dov’era crudeltá pietá trovaro. 60 In questo tempo ragionare udio come l’Ermino ne la fe’ di Cristo multiplicava e cresceva il disio. Con buona pace e con perfetto acquisto sarei vissuta al tempo di Giustino, 65 non fosse stato il mal consiglio e tristo. Undici anni il mio tenne al suo dimino; poi per Tiberio governar lo vidi acceso e caldo ne l’amor divino. Or perché sempre nel ben far ti fidi 70 e propio aver compassion del povero, questo miracol fa che in te s’annidi. Costui, ch’a tutti fu padre e ricovero, trovò tre croci e di sotto da esse, come Dio volle, tesor senza novero. 75 Sette anni il mio governò e resse e certo questo tempo mi fu poco, sí mi piacea ch’ancora piú vivesse. Mauricio poi venti anni tenne il loco e al suo tempo funno fiumi e laghi 80 tai, per Italia, che non parve gioco. Bestie, serpi, serpenti e morti draghi al Tever portar vidi; e fu in Verona l’Adige tal, ch’assai vi fun gli smaghi. Questo signor, del quale si ragiona, 85 facendo guerra e non pagando i suoi, per cotal fallo perdé la persona. Assai di cosí fatti nomar puoi, che, per tener soldati e non pagare, sono iti male e propio ne’ dí tuoi. 90 Ahi, quanto ancor mi duole a ricordare i grandi e belli e sottili intagli i quai Gregorio allor mi fe’ disfare! E duolmi ancor che con lunghi travagli erano compilati piú volumi dei miei figliuoli e di miei ammiragli, ne’ quali il bel parlare e i bei costumi e l’ordine de l’armi eran compresi sí ben, ch’a molti, udendo, facean lumi, che la piú parte fun distrutti e lesi 100 per questo Papa; e se ’l pensier fu bono non so; ma pur di ciò gran doglia presi. Cosí da Cristo in qua venuta sono, parlando teco, in fine a secento anni, abbreviando ciò ch’io ti ragiono 105 per te ch’ascolti e perch’io men m’affanni. |
Post n°842 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Ti nascondesti, e furo a me contese Le luci onde solevi almo e cortese Portarmi il giorno, e fecondar l'ingegno, Io mi rimasi in tenebroso regno D'un tristo orror, che ratto al cor s'apprese, Rinchiusi i dolci carmi, e non s'intese Da me se non garrir noioso indegno. Or che sgombrando il rio nembo importuno Dalle temute folgori, m'affidi E mi prometti la stagion dei fiori, Qual serpe uscito ai rai graditi e fidi Mi ritrovo, e purgato il sozzo e 'l brano, Canterò con tre lingue i tuoi onori. [2 Di Cesare Cremonini] Madrigale del signor Cesare Cremonini alla sua donna, che baciando una statua si ruppe un labbro. La novella ferita Di quel labbro vezzoso Se nol sapete, o bell'angelo mio, È castigo amoroso, Baciar voi dunque un marmo e di desìo Lasciar crudel che si dilegui un core? Così l'ire d'Amore. Imperïose prova e fulminanti Bocca che bacia i sassi e non gli amanti. [3 Di Cesare Cremonini] Sonetto del signor Cesare Cremonini ne le maniere che si de' baciare. Non come amante, o Iele, unqua mi baci Se non mi uccidi ad ogni bacio, il core, Che non bacian quei baci ond'uom non muore Anzi pur vanamente han nome baci. Quel baciar baci languidi e fugaci Non è 'l baciar ch'ha istituito Amore; Vuol ei che i baci suoi prima di fuore E s'impriman ne l'alma acri e mordaci. Giungere labbro a labbro e leggermente Formar un bacio insipido e gelato È un bacio fanciullesco, un bacio esangue. Se non pugnan le lingue, il baciar langue E quei sol bacio è d'amator ardente Ch'è bacio da nemico e bacio irato. [4 Di Cesare Cremonini] Madrigale del signor Cesare Cremonini. Non sopra giaccio Aprile, Ma lieti e vaghi fiori, O bellissima mia cruda Licori, Deh! come avvien che per mia dura sorte Cangi suo stil natura, E sua natura il cielo? Poi che le rose e 'l gelo Miro in te sola, e solo in te discerno Viso di primavera, e cor di verno. [5 Di Cesare Cremonini] Sonetto del medemo per la partenza della sua donna. Tu sei, mio sol, partito; io qui dov'eri Con dubio passo il pian vo misurando, E ne la rimembranza consolando Com'amor vuole i vedovi pensieri, Rendetemi i miei rai lucenti, alteri, E l'alma vista, ond'io sol vivo amando. Chi me gli ha tolti, così grido errando, Per li miei dolci hor tristi, aspri sentieri? Risponde il fiume: a cui la tua serena Luce i rivi rendea chiari e beati, Ch'or han perduto ogn'onorato fregio, I dì nostri soavi e fortunati Sonsene andati, a noi duolo, a noi pena Lasci tu senza core, io senza Pregio. [6 Di Cesare Cremonini] Sonetto del medemo. Esorta la sua donna a ritornarsene a lui. Che più tardi, mio sol? Deh! torna omai, Così negar la luce a chi t'adora! O con quai note alla nascente aurora Salutar m'apparecchio i tuoi bei rai. Vien, mio sol, vieni, al tuo venir vedrai Di che vaghi pensier un cor s'infiora E ride e s'abbelisce e s'innamora, E sgombra il verno di futuri guai. Dirai tu allor godendo, e rimirando Meraviglie sì nove e così belle: Son queste del mio lume opre divine? E dirà il mondo: amando e rïamando Vivete, anime rare e pellegrine, In su l'ali d'amor ite alle stelle. [7 Di Cesare Cremonini] Sonetto del medemo. Prega la sua donna a volerlo far felice co' suoi sguardi, da' quali dipende il suo amore verso Dio. Amiccarmi, angel mio, furtivo e fiso E chinar poscia il bel guardo gentile, E tinger salutando in atto umìle D'un pallor di vïola il dolce riso. Fur' gratie ond'io rapito in paradiso Seppi ogn'altro gioir com'egli e' vide E strali ond'in un cor piaga simile Non fe' mai saettando il bel d'un viso. Così, mio sol, vogliate ognor bearmi, Non chieggio altro da voi che i rai lucenti, E dirò: favorisci i miei amori. E temprando alla cetra eletti carmi Da conservarsi alle future genti Canterò le mie lodi e i vostri onori. [8 Di Cesare Cremonini] Sonetto del medesimo. Al pallagio dove in Padova egli andete ad alloggiare, che vi era dentro ancora alloggiata la sua donna. Valle, ch'hai del mio sol l'aer sereno, E gratïoso dell'erbette il prato; Loggie, che fatte altier, questo e quel lato; Tu gran palagio, ch'hai mia vita in seno. Tempio, ove d'umil zel tutto ripieno, Sol contra me di tua bellezza armato Paga il tributo a Dio votivo e grato Il mio vivo, immortale angel terreno. Non mi sdegnate peregrino errante, Che voi per stanza avidamente prendo Sì come Amor e bel destin m'ha scorto. Se no' l' sapete, io parto, a voi, venendo D'angelica contrada e d'alto amante, So pur che i segni ancor nel viso porto. [9 Di Cesare Cremonini] Sonetto del medesimo. Nella partenza sua per Padova a la via degli Angeli. Regal contrada, ov'io gran tempo errai Seguendo una gentil, fallace spene, E come Amor mi scorse, or le mie pene, Or la bellezza altrui piansi e cantai. Ti privilegi il sol sempre dei rai Ch'ei veste uscendo a far le piaggie amene E l'aure dal ciel mandi ognor serene A le gran reggie onde pomposa vai. Io parto, e queste lagrime ch'io verso Rimarranno in mia vece a rimembrarti I passi sparsi e 'l mal gradito inchiostro. Io parto, in ch'aspro duol io porti immerso Il cor, perché tu meco Amor non parti, A chi sa legger nella fronte il mostro. [10 Di Cesare Cremonini] Madrigale del medesimo alla sua donna la quale era percossa da un raggio di sole. Forse pensaste, o sole, Venendo in quelle luci altera e belle Di far come alle stelle, Tor loro il lampo, presumendo intero Convenir della luce a te l'impero? Ma odi, e ti contenta D'essere il sol dei fiori, E che sian quei begli occhi il sol dei cori. [11 Di Cesare Cremonini] Sonetto del signor Cesare Cremonini in lode del signor Marc'Antonio Calcagni mentre fu padrino in una giostra. Tu Ministro d'Amor, ministro a Marte? Già non son molli dardi, aste guerriere Delle risse vezzose e lusinghiere E delle forti e pur deformi l'arte. L'uno è Dio sol di sangue e sol comparte A chi 'l segue di crudi e note fere; L'altro ciò che non è festa e piacere Da tutto il ragno suo manda in disparte. Sei tu da guereggiar un campion raro, Dove l'armi s'adoprin di bellezza, E sia l'arringo della guerra il letto? Fur grandi Ercole e Achille e innanellaro Pur il crin, ma non già veste fortezza Per vestir forte usbergo un molle petto. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°841 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XV Avea dal tempo che si pone a Cristo in fino a quello che qui ti rammento, che ’l cuor mi vidi sí turbato e tristo, anni cinquantadue e quattrocento ed eran quarantuno, ch’i’ era stata 5 per Alberico a simile tormento. Cosí come odi, mi vidi rubata piú volte e piú, poi che da Costantino fui, com’io t’ho detto, abbandonata. E se dritta deggio ir per lo cammino, 10 designando per ordine ciascuno che tenne il mio e fenne a suo dimino, Marcian con gli altri miei signori aduno, ch’undici milia vergini in Cologna al tempo suo martoriate funo. 15 In Francia, per la Magna e per Sansogna la gran turma dei Vandali passaro; se danno fenno, dirlo non bisogna. Sette anni fe’ costui meco riparo e dopo la sua fine venne Leo 20 e qui mi vidi il cielo e lui contraro. In questo tempo, ch’io dico sí reo, Augustulus Italia tutta prese e, presa, poi vilmente la perdeo. Lassolla il tristo e sé né lei difese 25 in contro a Odovacer, ch’a ferro e foco co’ Ruten consumava il mio paese. Teodorico, apresso questo un poco, di Gozia venne e non compié sua via, ch’i’ non me ne dolessi in alcun loco. 30 In questo tempo giá parlar s’udia di Uter Pendragon e di Merlino e del lavor che, fondato, sparia. Or questo Leo, che, a fare buon latino, coniglio dovrei dir, ne portò seco 35 le imagini mie fatte d’oro fino. E se la sana ricordanza è meco, diciassette anni tenne in mano il freno, che troppo fu, se deggio il ver dir teco. Seguita mo ch’io ti ricordi Zeno, 40 il qual coi Gotti mandò Teodorico, ch’Odovacer cacciò fuor del mio seno. In questo tempo amaro e antico, passâr quei di Sansogna in Inghilterra e ’l gran mal che vi fenno qui non dico. 45 Artú benigno, largo e franco in guerra, con l’alta compagnia Francia conquise, Fiandra, Norvegia e ciò che quel mar serra. E poi che morte distrusse e uccise Zeno, il quale diciassette anni tenne lo ’mperio e che piú leggi altrui tramise, Anastagio fu quel ch’apresso venne: tanto ebbe in sé di mal, che molte volte di Dioclezianmi risovenne. L’opere sue infedeli e stolte, 55 per non dir troppo, a ricordar qui passo, né brievi le so dir, perché son molte. Vero è che due miracoli non lasso li quai ciascun per dispregiare apparve la fede del battesmo a passo a passo. 60 L’un fu che l’acqua de la fonte sparve a Barabas; l’altro d’Olimpo, a cui Amor non fu quanto a me dolce parve. Certo io non so se tu il sai per altrui: Anastagio papa in quel tempo era 65 vago di Fotin, malgrado d’altrui. Le sette teste de la santa fiera giá si vedean spregiare per coloro ch’eran pastor de la fede sincera. Fuggivan povertá, bramavan l’oro, 70 onde piú volte al traslatar del manto papal movean quistion fra loro. De’ Vescovi fu grieve e grande il pianto, quando mandati in esilio in Sardigna fun da Trasmondo, ch’era infedel tanto. 75 Moltiplicava la mala gramigna de gli eretici in ogni parte allora, come tu sai che la mala erba alligna. Dolce mi sento al cor, pensando ancora sí come questo imperador morio, 80 che sedici anni e diece tal dimora. Apresso di costui, Giustin seguio: e certo il nome se gli avenne assai, ché giusto fu e buon cristiano a Dio. Boecio patrizio, ch’io amai 85 quanto figliuolo, fu da me disperso per Teodorico, ch’un Massenzo trovai. Il quale, essendo in esilio riverso, si consolava, come ancor si pare, con la Filosofia di verso in verso. 90 In questo tempo, che m’odi contare, per Remigio, che fu a Dio divoto, si fece Clodoveus battezzare. In questo tempo appunto, ch’io ti noto, le gran bellezze fatte per antico 95 caddono in Antiocia per tremoto. Nove anni ebbe Giustin l’onor ch’io dico. |
Post n°840 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Potran sì aperto dirvi il mio dolore? Come voi dal timore, Dal mio non saper dir, donna, il vedete. E se vostro valor, vostra bellezza Forse v'han gionto a tale, Che al mio stato mortale Vostro sdegno gentil mirar disprezza. E s'io a mirar quegli occhi impallidisco, Ed ardo, e l' ardor mio dir non ardisco, Morte il fin del mio male Serà; ché 'l core hormai tacendo more, Se tanto con pietà nol soccorrete Quanto più bella d'ogni bella siete. [2 Di Nicolò Amanio] Amanio Dunque se i miei desiri, Se le mie accese voglie Questo ostinato stil vorran seguire, Da possenti martiri, Da le soverchie doglie Mi converrà per voi, dama, morire? Dunque, se mai uscire Da sì alta impresa penso, S'erge da quel pensiero Il mio foco e più fiero, E con forza maggior si fa più intenso; Tal che se i' v'amo, i' ardo, e se per sorte Penso lasciarvi, i' vo drieto a la morte. Dunque che tu ch'in aspetto Di tutto 'l ciel più strano Guardast'il nascer mio, torbida stella, Mi volesti interdetto Tenir l'arbitrio umano, Finché in tutto da me l'alma si svella. Ch'io non posso di quella, Onde mia morte viene, Luce fugir' il foco; E s'io la miro poco, Veggio lontano il fin de le mie pene. Iniquo ciel, novi aspri dolor mei, Ch'io non posso voler quel che vorrei! Ma, s'a volervi amare I' manco in sì alto ardore, E 'l volervi fuggir morte n'acquista, Qual de tue pene amare Prenderai, qual dolore A uscir de queste membra, alma mia trista? Dolce mia amata vista, I' voglio nel bel viso Morirmi risguardando, Morirmi ardendo amando; Ché se posso morir, mentre che fiso Premo mirando que' begli occhi, allora So ch'io morrò senza sentir ch'io mora. Hor vedi, Amor, là dove Gli occhi mortal di questa Altera donna mia condotto m'hanno; E quanto in me si move Dolor, quanto si desta Alto in quest'alma mia noioso affanno; Che i miei pensier si stanno, O ch'io mora in presenza De' begli occhi lucenti, E in quelle fiamme ardenti, O, s'io vorrò fuggirle e viver senza, Ch'io veggia a poco a poco uscirne in vita Dagli occhi con le lagrime la vita. Ah! che son gionto a tale Ch'io non vorrei a pena Cangiar questa miseria in altro stato. Dolce mio, amaro male, Da voi falsa sirena, Da voi son, maga mia, sì trasformato. Voi, e 'l destino, e 'l fato De miei tormenti siete; Altre stelle, altri cieli Son altrui mortal veli, Suo viver, sue passion piover solete; Son gli occhi di costei le erranti e fisse Stelle onde 'l ciel (le) mie doglie prescrisse. Tu destinata adunque Mia sorte, da begli occhi Fa per ultimo don che almanco impetre Che mai non venga ovunque, Me posi, e mai non tocchi Costei, dove io sarò, chiuse le pietre, Ché, se mai fia che aretre Mia doglia, ancor in tanto Che dove i' sia sepolto Senta apparir quel volto; I' entrarò sotterra anco altro tanto Per tema così morto de le false Sue viste, de cui armato Amor m'assalse. Canzon, s'ancor trema il mio seno, dilli: Sgombritisi dinanzi ogni altra voglia; Mori, che morte è il fin d'ogni altra doglia. [3 Di Nicolò Amanio] Del Amanio La bella donna mia d'un sì bel foco, E di sì bella neve ha il viso adorno, Ch'Amor mirando intorno Qual di lor sia più bel, si prende a gioco. Tal è proprio a veder quell'amorosa Fiamma, che nel bel viso Si sparge, ond'ella con soave riso Si va di sue bellezze innamorando, Tal è a veder qualor vermiglia rosa Scuopre el bel paradiso De le sue foglie, allor che 'l sol diviso Da l'oriente sorge il giorno alzando; E bianca sì come n'appare quando Nel bel seren più limpido la luna Sovra l'onda tranquilla Ch'i bei tremanti soi raggi scintilla. Sì bella è la beltade ch'in quest'una Mia donna hai posto, Amor, e in sì bel loco Che l'altro bel de tutto 'l mondo è poco. 4 Di Nicolò Amanio] Quelle pallide, angeliche vïole, Colte per mia ventura in paradiso, Qual con candida mano e dolce riso Donast' a me, piene di grazie sole, Sono in l'anima mia con le parole Soavi impresse e 'l vostro lieto viso, Ch'han me da me dolcemente diviso, E moro d'una morte che non duole. Sì come i fiori alla stagion megliori, Vaghi e belli si fan(no), così a voi lice Nel freddo tempo mantener' i fiori. Ed io, vostra mercè, lieto e felice Il don terrò finché in me fien gli ardori, Benché un tal don a me par non sia lice. [5 Di Nicolò Amanio] Tosto che in questa breve e fragil vita Il mio bel sol d'ogni virtude adorno Apparve, tutti i dei ebbe d'intorno Ed ogni grazia parimente unita. Questa, dicea ciascun, dal ciel gradita Pianta da me vien prima e questo è il giorno, Ch'io l'ho produtta e che a vederla io torno; Così lite fra lor nacque infinita. Vener' intanto un dolce bacio prese Da l'angelica bocca, e poi rispose: Questo chiaro farà nostre contese. Allor fiorirno le vermiglie rose D'ostro celeste, sì polite e accese Ch'Amor per starvi sempre vi s'ascose. [6 Di Nicolò Amanio] Amanio Ben mi potea pensare Che tor me la dovea a tempo, a luoco, Perché ogni extremo sole durar poco. Extremo era il mio ben, che d'ora in ora Da madonna avev'io, un sì cortese, Sì uman, sì dolce e sì grato ascoltarmi. Or poss'io ben lagnarmi Che da me solo hormai saranno intese Queste dolenti mie parole ognora. Deh!, dolor mio crudel, fa almen ch'io mora Nanti che veder mai Quel ch'io so che vedrai. Ma questo è il mio dolor, questo è il mio foco Ch'io l'uscirò di mente a poco a poco. [7 Di Nicolò Amanio] Amanio Se per forza di doglia Di vita un uom si spoglia — la mia vita Dal duol fu tronca in questa dipartita. Ché partendo da voi, dolce mio bene, Ogni riposo, ogni diletto e gioia Le fia converso in sì feroci pene, Che dopo del ritorno fuor di spene Far non potrà che di dolor non muoia. Deh! vivace dolor, fa che veloce M'uccida; ché se aspetti al dipartire, Fia allor cotanto atroce Il duol, ch'io non potrò di vita uscire, E con doppio martire Io morrò poi per non poter morire. [8 Di Nicolò Amanio] Già mi fu un tempo i cieli e la fortuna Prosperi, sì ch'io vivea in alto seggio E hor transcorso ognor di male in peggio, E volto è in mio contrario sole e luna. Ora ogni fato iniquo in ciel s'aduna Per farmi guerra, e indarno aiuto chieggio; O sventurato e miser me, che deggio Far, se non pianger sempre in vesta bruna? Da poi che morte ha scolorito il volto Ch'a tutto il mondo già rendea splendore Ed hammi il mio riposo in terra tolto. Non penso mai che manchi il mio dolore Fin che la terra in sé non m'ha sepolto, E veggia la mia donna e 'l mio signore. |
Post n°839 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XIV Tre C con otto croci eran passati d’anni del numer bel ch’usiamo ancoi, al tempo ch’io ti dico e che tu guati. Valente tenne il mio tre anni, poi (Arian fu e i monaci percosse, 5 ch’erano allor come santi tra noi) del grande inganno, che fece ne l’osse ai Gotti, da’ quai sentí mortal fiamma, quando dal ver falsamente li mosse. E com’è il figlio amato da la mamma, 10 cosí sei anni amai Graziano mio, che fu cristian, che non vi mancò dramma. E pensa ben se amato fu da Dio: ché vinse la gran torma de’ Tedeschi, che pure un sol de’ suoi non vi morio. 15 E perché dolce piú il mio dir t’aeschi, dico ch’Ambruogio, ch’era allora meco, pregiare udia da Greci e da Franceschi. Tanta virtú e grazia era giá seco, ch’al pastor piacque che fosse in Melano 20 padre de’ buoni e luce a ciascun cieco. Costui ridusse, che pria era pagano, Agustin, disputando, a nostra Fede, che poi fu tal, come tu sai, cristiano. Quando Massimo il colpo mortal diede a Graziano e cacciò Valentino, trista mi vidi su dal capo al piede, perché sempre con polito latino l’avresti udito e in ogni costume puro come òr di che si fa il fiorino. 30 Seguita ora ch’io ti faccia lume di Teodosio, che dietro a lui venne, degno d’onore in ciascun bel volume, che tanto bene undici anni mi tenne, ch’io dicea fra me: Traiano è giunto, 35 che m’ha con pace rimesse le penne. In questo tempo, ch’io ti dico appunto, traslatò il vecchio e ’l novo Testamento Ieronimo, qual hai di punto in punto. In questo tempo, che qui ti rammento, 40 gli antichi templi fatti per li dei vidi disfare e ire a struggimento. In questo tempo, scisma tra Giudei e Saracini fu e del lor male poco curai, però ch’egli eran rei. 45 Or come sai che ciascun ci è mortale, in Melano a cotesto mio signore morte crudele saettò il suo strale. Odi s’egli ebbe in Dio verace amore, ché i suoi nemici, piú che con le spade, 50 vincea con preghi e con digiun del core. Apresso lui, a tanta dignitade Arcadio giunse; e certo ne fu degno, sí ’l vidi pien d’amore e di bontade. Qui, per parlar piú breve, in fra me tegno 55 di Gildo e Mascezel e la cagione come moriro e che gli mosse a sdegno. E vo’ti ricordare il gran dragone lo qual Donato col suo sputo uccise, che tanto fiero la sua storia pone. 60 E non ti vo’ tacer ch’allor mi mise Alberico crudele in tanti affanni, che presso che del tutto non m’uccise, che non che mi rubasse il velo e i panni. Ma poi Attaulfo ne menò via Galla 65 con altre piú donzelle de’ suoi anni. E non pur questo peso giú m’avalla, ma tante pistolenze allor seguiro, che io ne ruppi l’omero e la spalla. Or questo mio signor, che ben fu viro 70 degno di reverenza e di salute, da tredici anni tenne il mio impiro. In iscienza ed in ogni gran vertute veramente lodar tel posso assai, però che chiare in lui funno vedute. 75 Poi quindici anni guidar mi trovai" ad Onorio, del quale Iddio ringrazio, tanto fu buono e io tanto l’amai. Qui venne al mio tormento Radagazio e qui di lui, come si convenia, 80 con fame e con la spada fece strazio. E cosí Eradiano, che venia con gran navilio contro a me acerbo, ancor, come a Dio piacque, strusse via. Oh beato il signor, ch’è non superbo! 85 Oh beato costui, che qui s’addita, sí fu pietoso in ciascun suo verbo! Vinti i nemici, in lor morte o ferita negava e dicea: – A Dio piacesse che quei, che morti abbiam, tornasse a vita! – 90 Cotal costui la sua vita elesse, qual fece il padre, del quale io t’ho detto, che Dio orando e con digiun si resse. E, poi che morte gli trafisse il petto, Teodosio minor del mio fu reda 95 cinque anni e venti con molto diletto. Qui fe’ il demonio de’ Giudei isceda in specie di Moisè e qui si tolse in Italia Totila gran preda. Qui si destaro, sí come Dio volse, 100 ne la spilonca li sette dormienti, che fuggîr Decio, onde poi non li colse. Qui non ti saprei dir tutti i tormenti, che allor sentîr per Attila crudele dico in Alverna e di qua le mie genti. 105 Qui non ti potrei dir con quanto fele mi funno incontro e Vandali e Gotti, se non che mi rubâr d’ogni mio mele. Or come ne gli scogli vedi i fiotti, l’un dopo l’altro, del gran mar ferire, 110 allor c’hanno paura i galeotti, cosí vedea in quel tempo seguire l’un dolor dopo l’altro ed eran tali, che non è lingua che ’l sapesse dire, se non ch’eran soperchio a tutti i mali. 115 |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50