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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
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Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi del 19/12/2014
Post n°857 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Al dolce mormorar di lucide onde, Col bel favor d'un glorïoso lume Lieto udir mi facea con dolci note, E fummi un tempo sì benigno il cielo Ch'ogni uom gradiva il mio soave canto. Mentre più intento al viver lieto, al canto Erbette e fior cogliea tra freschi rivi, Sì fiero incendio in me piovve dal cielo Che né al freddo liquor di liquide onde, Né al dolce suon de le continue note Temprar potei l'assalto di quel lume. Al fiammeggiar del dispietato lume, Lasciando a parte il dilettoso canto E l'erbe, e i flori, e 'l suon de le mie note, Fuggendo corsi ove ben mille rivi Sparge una fonte ognor di sì chiar'onde Che tali in terra mai non vide il cielo. Ben mi fu al tempo gratïoso il cielo Quando contro all'ardor del terzo lume Mi diede il refrigerio di quelle onde, Che destar ponno l'amoroso canto Nell'alma accesa, al mormorar de' rivi Dolci sonanti, e le più calde note. Or vorrei ben ch'Amor con le sue note, Scendendo qui tra noi dal proprio cielo, Or che dritto ne mira e secca i rivi Co' caldi raggi suoi l'ardente lume, Qui mi dettasse un sì mirabil canto Ch'i' potessi addolcirmi sì belle onde. Se degno potrò farmi di queste onde, Temprando i miei sospir con alte note Si ch'alla fonte mia non spiaccia il canto Forse gradite ancor fien sotto il cielo Quest'acque sì che sempre all'ombra e al lume Faranno al mondo i più pregiati rivi. Più degni rivi non conobbe il cielo Né fe' note apparir più vago lume, Né scaldò canto mai più nobili onde. [2 Di Giovanni Andrea Gesualdo] Del Medesimo O chiara fonte, che con lucide onde, Rinfreschi il tuo real seggio d'intorno, E quello rendi sovr'ogni altro adorno Col divino valor che 'n te s'asconde. Conservi il ciel le sue fiorite sponde, E più beato ognor di giorno in giorno Faccia il tuo lieto e candido soggiorno Tra queste grazie a mille altre seconde. Tranquillo e puro il tuo bel sen si mostri, Né tronco, o sasso mai delle fresche acque lo Disturbi, o rompa la chiarezza viva. Sian da te lunge i dolorosi mostri, E 'l mormorar che pria tanto mi piacque Tra l'erbe e i fiori eternamente viva. [3 Di Giovanni Andrea Gesualdo] Del medesmo Itene, o folti miei sospiri ardenti, Al puro sen di quelle gelide onde, E lo 'mpresso rigor ch'ivi s'asconde Rompete, aspra cagion de' miei tormenti. O se benigno Amor di sì possenti Note v'armasse mai, che le profonde Acque rendeste tepide e gioconde, Ond'è il principio e 'l fin de' miei lamenti! E fu ben già che 'l vostro intenso ardore Novella fiamma i duri petti accese; Ma lasso! Hor nulla al gran bisogno vale. Che 'n freddo ghiaccio il bel vivo liquore Compresso è tal che di faville accese Non teme, onde fia eterno il nostro male. [4 Di Giovanni Andrea Gesualdo] Al bel nido real, ch'adorno e chiaro Rendono i raggi del mio vivo sole Torno oggi a veder l'altere e sole Grazie che 'n modo tal pria mi legaro. Per racquistarmi un sol fido riparo, Ch'i' provo al pianto che m'affligge e duole, Cerco il bel riso e 'l suon delle parole Ch'al cuor rimbomba sì soave e raro. Ma d'onde avvien che sì sgomenti e treme L'anima stanca, e quanto al dolce lume S'appressa più, maggior cresca l'affanno? Lasso! Ben veggio che l'accesa speme Perch'io del tutto ardendo mi consumo Mi guida e sprona al mio più grave danno. [5 Di Giovanni Andrea Gesualdo] Può bene il sol nel lucido orïente Nascendo rimenarne il chiaro giorno Sgombrar le nebbie e far il mondo adorno Col lume suo sì candido e lucente. Ma, s'obbietto vi sia troppo possente D'un nembo tal che neghi il bel soggiorno, Non più ai raggi serenar d'intorno Sì ch'opri in terra quel vigore ardente, Così il mio sole ogni profondo orrore Col valoroso de' begli occhi assalto Vince, il mio non che troppo è folto e grave. Ma forse al lungo andar l'alto splendore Aprendo il cuor con l'amorosa chiave Torrà il mio cieco e tenebroso smalto. [6 Di Giovanni Andrea Gesualdo] Voi ch'attendete a glorïose imprese, Per farvi ricchi d'immortal tesoro Onde s'aspira a trionfale alloro Bel pregio è fin di vostre voglie accese. Indarno fien tante fatiche spese, Se dove alberga il più laudato coro Qui non volgete il vostro bel lavoro Ov'è chi in gentil fuoco il cor m'accese. In questa fonte, ch'el bel nido reggio Rende sì altiero e di bei fiori adorno Onde in me sorge l'onorata spene, Lunge dal primo loro antico seggio Fan le grazie e le muse alto soggiorno, Or qui s'acquista il disïato bene. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°856 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XX La scelerata e ’l cieco, che t’ho detto, regnâr diece anni con tal vituperio, ch’al mondo n’era e a me un gran dispetto. Tenne apresso Niceforo lo ’mperio; ma tanto giá di lá era scaduto, 5 che poca briga avea del magisterio. Nove anni fu signor tanto perduto, che quel s’udia ragionare di lui come non fosse al mondo mai venuto. Seguio Michele apresso di costui, 10 lo qual similemente poco fece, per quel ch’udissi, bene o male altrui. Questi imperò otto anni men di diece e in questo tempo il bello uccel di Giove trassi di mano a quelle genti grece. 15 Quattrocento anni e nove volte nove esser potean, che Costantin del regno mio l’avea tratto a far di lá sue prove. Ma poni a quel ch’or ti vo’ dir lo ’ngegno, sí che, se mai di ciò vuoi ragionare, 20 dirittamente sappi dar nel segno. Dico ch’al mondo quattro regni pare che siano stati, i quali in fra la gente piú degni sono da dover notare. Lo primo fu diritto in Oriente, 25 tra Eufrates e Tigris, in Babilona, dove Nino regnò in primamente. Quivi Semiramis tenne corona con la sua bestial legge e fu sí cruda, quanto fu mai alcun’altra persona. 30 E perché ’l tempo a punto si conchiuda com’era antico, io ti dico ch’allora Abraam di Iesse regnava in Giuda. Nel mezzodí lo secondo dimora in Cartago, lá ’ve la bella Dido 35 la cener di Sicheo e sé onora. Qui dico come vuol Giustin, che ’l grido d’Enea pon falso, che la mia Lucrezia non fu di lei piú casta nel suo nido. Di vèr settentrion lá ne la Grezia, 40 in Macedonia, il terzo seguio per Alessandro, che tanto si prezia. E questo fu nel tempo propio ch’io col buon Fabio Massimo vivea, * e con Papiro mio,45 quando l’ardita schiatta Maccabea armata stava e combattea d’intorno come campion de la gente Giudea. Il quarto, piú possente e piú adorno, fu qui in ponente e io, che ne fui donna, Cesar mi vidi e Ottavian d’intorno. Qui stetti ferma in su l’alta colonna, in fin che fede, prudenza, esercizio usâr color che fenno la mia gonna. Ma poi che lasciâr questo e diensi al vizio, 55 come t’ho detto, e poi che Costantino l’aguglia tolse dal mio propio ospizio, cotale è stato, lassa!, il mio distino, che pur di male in peggio andata sono né par per migliorare il mio cammino. 60 Di questi quattro regni, ch’io ragiono, il primo e ’l deretan funno quei due che maggiori e piú degni dir si pono. Il primo si disfece e cadde giue allor che ’l feminin Sardanapalo 65 preso e morto per Arbaces fue. E propio quando questo venne al calo, Procas vivea, da cui prendo il principio, come per me ancora altrove sa’ lo. De gli altri due del mezzo, il greco accipio 70 che fu maggiore e di piú ricca fama, che quel che sfenno l’uno e l’altro Scipio. Oh, vanagloria, se’ come una rama di persico fiorita, che in un poco se’ tanto bella e poi mostri sí grama! 75 Folle è qual crede, in questo mondo, loco dove si possan tener fermi i piedi, ché tutto è buffe e truffe e falso gioco. Ma perché penso ben che tu tel vedi come vegg’io, a questo vo’ far punto 80 e ritornare a dir quel che mi chiedi. Tu odi ben come di punto in punto venuta son fin a l’ultimo Greco, di quei signor che ’l mio avean sí munto. E puoi veder che, ragionando teco, 85 sempre ti fo di quattro cose chiaro: l’una è del tempo che son vissi meco; l’altra è qual mi fu meno e qual piú caro; la terza, ch’io ti mostro e ti diviso di qual morte a la fine terminaro. 90 L’ultima e quarta è che ancor t’aviso del tempo mio, a ciò che tu ridire il sappi, se ’n parole ne sei miso. Piú cose ci ha, ch’assai ti potrei dire de’ fatti lor, ma tacciole, ché penso 95 ch’a te sarebbe noia a tanto udire ed a me gran fatica al quarto senso. |
Post n°855 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime sparse di Giusto de' Conti CCXI A Filippo Galli (?) Messere Filippo, e' par che ne i tuoi detti Tu dubiti, se amor, ne l'ore estreme Ha forza negli amanti, come insieme Mancassen con la vita nostri affetti. Se questo fusse, a che nostri intelletti, Virtù seguendo, al cielo alzan sue speme? A che l'antiche colpe l'uom pur geme Per mille van speranze, et van sospetti? Io dico, che, congiunti al sommo Amore, Amar l'un l'altro poi non sol ne lice Anzi è necessità, che a quel n'accende: Che l'alma, sciolta dall'umano errore, Tanto più sente, quanto è più felice; Et tanto ha più d'amor, quanto più intende. CCXII Ad Angiolo Galli Se mai per la tua lingua il sacro fonte Al tempo nostro verse acque più belle, El il lauro secco Apollo rinnovelle Per adornar sol la tua degna fronte, De, dimmi: e' mai vendetta di nostre onte, Che Italia a torto in servitù rappelle: O pur congiuntion di fere stelle Fermate eternalmente all'orizzonte? Che homai tanti anni el ciel volgendo intorno, Per affondarla, notte et dì la investe Fortuna, che ne tien sotto al tributo: Tal ch'io discerno infra le gran tempeste L'Italico valor con nostro scorno Da barbari già vinto et combattuto. [Poesia] Risposta di Angiolo Galli Le acque che scendon giù del sacro monte Et le fronde de l'albor tuo novelle Al gusto et capo mio son più rebelle Ch'anima sancta al passo d'Acheronte. Ma l'atto per cui al ciel tu monte Le tue rime ligiadre dolce et snelle, Che chiedon qui dal muto le novelle, Fanno le voglie mie al servir pronte. Adonque a l'alta tua dimanda torno. Non giusticia de Dio che ci moleste Né da maligna stella è proceduto, Ma il capo nostro che il gran manto veste L'Italico giardin già tanto adorno A' barbar che tu dici ha conceduto. CCXIII Ad Angiolo Galli Non sento ancor che vogli onor farme In acostarti ai dolci miei consigli, Et temo forte ch'amor non te pigli Et che te spezi adosso ciascun arme. Et come Aquila Augello veder parme Ghirmirti quel onghiuto infra gli artigli: Getta per pentimente a terra i cigli Et miserere grida coi tuo' carme. Che 'l dolce et benigno de natura Et al pentimento ha animo reale: Non aver del tuo scampo poca cura. Se mai sentisti l'amoroso strale Quanto è suave et dolce la puntura Tu mettaresti al pentimento l'ale. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Quanta invidia vi porto erbette et fiori Calcate et tocche da le nobel piante, Visti arboscelli delle luce sancte Che bear vi possette a tai splendori; Quanta invidia vi porto et quanti onori Tollete or dal aspecto triumfante, Quanta ten porto o rosignol che cante Perché madonna de te s'innamori. Ma quanta invidia a voi rose et viole Da quella mano oimé eburnea colte Che tra[e] del core el duol che gli occhi versa. Ma più me porge invidia et tema el sole Che sel mai vede quelle treze sciolte Terà che laura sua non sia conversa. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Se renchiuso non sei in qualche cappa Religioso o nuovo predicante; Se non sei come quel ch'a sancti et sancte Con occhi, mano et bocca i piedi agrappa, Perché tua lingua d'amor tanto frappa Che chi vuol stare in questo mondo errante, Et non s'ingentilisca esser amante Ben l'ha fatto natura un uom da zappa. Va su a la terza stella et vederai Quel che ne dice il fiorentin poeta E il fin del rozo Ameto forse el sai. D'amor felice qual cosa è più lieta? Pensa se 'l ben d'amore e benché i guai Son dolci et sa l'om savio et profeta. CCXIV Ad Angiolo Galli Se Amor fanciullo qual po dar consiglio Et nudo qual speranza porge altrui Et s'egli è cieco come drieto a lui D'ocio concepto et de lascivia figlio Qual sia sua voglia ben lo sa colui Che quel seguendo non intenda a cui Giamai per suo ristoro dia di piglio. I suoi fedel seguaci a sua sembianza Forma costui fanciullo ceco et nudo Senza consiglio et guida a men speranza. Prendase adonque de Minerva el scudo Disotto a cui se pieghi ogni possanza D'amor ch'è dispietato acerbo et crudo. [Poesia] Risposta di Angiolo Galli Amor, già per un sancto non te piglio, Ma in falsa opinion sei tu che rui; Io de questo veder so sempre et fui Che schifar non se possa el tuo artiglio. Quel che viene a caso aprigli el ciglio Che mirabil saran gli afecti sui: Nel crederiano gli intellecti bui Et però lietamente ten consiglio. Ma non acender sì la disianza Che cerchi ad esser preso ad ogni ludo Né de' pigliare ogni uscio per tua amanza. Che danno anch'io un simil facto drudo, Et se men lodo, frate d'oservanza, Che fai d'amor gentil tanto refiudo. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Se tu repense al ben già ricevuto In omne parte per la man d'amore, Pria che de teneri anni fosti fore Et ora più benché non sii canuto, Non gli poristi dar degno tributo Se mille volte el dì gli dessi el core; Sallo lo retardar per cui tu more Et sai ben tu quel che vol dir lo muto. O ben creato et glorioso amante Ch'a sì felice fin sì tosto corse La voglia tua altera et pellegrina, Tu godi el fructo de le luci sancte; Beato te che mai non fosti in forse De la tua dea et pria d'una angelina. CCXV Risposta di Giusto Pensando allo mio bel tempo perduto Negli aspri affanni et nel crudel dolore, Ove piangendo vissi in tanto errore Che morir meglio assai sarebbe suto, Ben mille volte et più mi son pentuto D'esser stato d'amor bon servitore, Essendo falso ingrato et rio signore, Tu 'l sai ben che com'io l'hai conosciuto. O sventurato me che pene tante Ho sostenute per chi mai non puorse La man pietosa a l'anima meschina. Per non star più nel primo error costante Seguirò el ver signor che me soccorse, Sol contemplando sua virtù divina. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Non fugge amor per lo fugir degli anni In cor gentil per prender dignitade, Per pensier gravi, o per matura etade, Per novi offici o per togati panni. Non lassò per trovarsi in alti scanni David amor, non Ercul per bontade; Et fini Troyl fra le tante spade La vita, pria che gl'amorosi affanni. Se l'antica, ligiadra et bella mano Triumfa cum Victoria del tuo core, Spandime fuora el condito tesauro. De, non tener sì alto stile in vano, Ché tanto staria Giusto senza amore, Quanto che senza verde foglia un lauro. CCXVI Risposta di Giusto Come chi, facto accorto con soi danni, Timido va per le secure strade, Così pavento e stommi in libertade: Lasso, che mal provai de amor l'inganni! Non è novello officio che me affanni, Non fresca degnità che me non cade, Non tempo già, né toga ch'or me aggrade, Cagion ch'io fuga amor che tene inganni. Ma poi che sdegno e zelosia lontano Mi fe' da lui, doglioso del mio errore, Miei gravi danni col pentir ristauro. Mira se al tempo amor mi fu ben strano, Quando or, pensando al dubbio ond'io son fore, Mi ritrasformo in sasso più che Aglauro. CCXVII Gloriosa, benigna, umele e pia, Vaga, legiadra, bella, acorta e desta, Magnifica, gentil, apta e modesta, Real, cortese sopra ogn'altra dia; Sdegnosa, altera, superba et empia, Fiera salvagia, crudelle e infesta, Retrosa, alpestre, crudelle e infesta, Perfida, iniqua, dura, acerba e ria. Mi par veder madonna in un sol ponto, Quanto con gli ochi gira intorno intorno, E mira l'ombra de mia alma aflita. Ai, lasso me, che po' che in men d'un giorno Mi pol far lieto, over da lei disgionto, Perché mi stracia e perché non m'aita? CCXVIII Quand'io risguardo di Madonna el viso In cui il Maestro pose ogni misura Sol per mostrarci al mondo una figura, Simile a lui nel ciel da noi diviso, I' mi rivolgo in mente gli occhi e 'l riso, Che farien giorno quando è notte oscura, E nel freddo giel fiori e verdura, E ritornare i fiumi al paradiso. Allor ringratio ogni mio fato e stella, Perché mia ninfa in fonte o in caverna Non fu, non è, né mai sarà sembiante. Ma ben m'incresce, anzi mi dolio, d'ella, Che tanta crudeltade in lei discerna, Che so può farmi, di suo servo, amante. CCXIX Per mezo i nervi e gli ossa al fredo core Passa la crudel fiama, ond'io enfoco, Cercandomi ogni vena, sì che poco Di me lassiato ha saldo il fiero ardore. In tuto è sparso tutto il mio dolore, E la mia angoscia è tuta in ciascun loco; Così di parte in parte insieme un foco Mi strugge, mi consuma, arde a tutore. E sempre accesa in mez'al cor mi dura E mi divora le medole e polpe, Tal che di me non resta parte intera; Né so s'amor, madona o ventura, La mia schiochecia o la mia stella fera, O tutti insieme del mio mal ne 'ncolpe. CCXX Ricerca fonti, valle, boschi e fiumi, Pendici e spiagge, sassi e ripe alpestre, Caverne disperate e vie silvestre, Inospite spelunche, anfrati e dumi; Trascorri i più selvaggi e rei costumi, Giente proterve, irsute e più sinistre, Persone men civil e più modeste, Rivolgi i nostri et ancor gli altri volumi; E poi ti meraviglia in cielo e in tera, Per mandre dolorose un più mendico Del mio stato infelice non trovarse. E sapi ch'io non erro a quel ch'io dico, Che non è duol che avanti la mia guera, Né mai foco amoroso tanto arse. [Poesia] Rosello Roselli a Giusto Ora è tanto maggiore el mio dolore, Quanto più chiaro veggio el mio finire, E duolmi ch'io non posso el mio languire Dimostrare a costei che m'è Signore. Giusto, s'io mai cogliessi el gentil fiore, Che l'anima dal corpo fa partire, El piacer che m'arei nol potrei dire, Seria contento s'io son servidore. Ma questa donna, che m'è vera duce, Di me non cura e non mi mostra el segno, Sì che al tutto convien la morte io chieggia. Per servirla con fe' posto ho ogni ingegno, Ella pur cruda a pianger mi conduce, E non creda al mio mal, benché ella il veggia. [Poesia] Giovanni Battista de' Refrigerii bolognese in lode di Giusto Non cantò mai de Laura o Beatrice L'un tosto e l'altro in sì legiadro stile, Che d'una bella man Iusto gentile Cum tanta altezza, che più dir non lice. O Roma antiqua, or nova productrice, Quel frutto, ch'era spento in te senile Ben vendicasti, onde era obscura e vile La gloria del tuo nome alto e felice. Qual fu mai visto più excellente ingegno Spirti gentili, anime ellecte e dive, Qual più de fama e più d'onor degno? Però se eterna gloria tra voi vive, Sia celebrato ormai nel vostro regno, Tra lauri, mirto e verdeggiante olive. [Poesia] Basinio Parmense in lode di Giusto Iuste Poeta iaces, sed non tua fama iacebit: Sis licet extinctus, nomine vivus eris. Corpora labuntur gelido mortalia fato, Carmina per nullos sunt obitura dies. Dum Sigismundus, dum sit Malatesta propago, Dicetur laudes Legis amore tuae. |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50