Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 04/01/2015
Post n°976 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Qual nell'aprir de' mattutini ardori La vaga dea ch'a Febo è scorta e duce Apparir suole, o rugiadosi fiori Spargendo inanzi alla novella luce, Tal dalle grazie cinta e da gli amori La belle Giulia dotta splende e luce. Oh felice Titon, Titon beato, A cui sì bella Aurora siede a lato! Come i famosi nomi a' morti involi E serbi (disse Apollo) eterni in vita, Portando lume al tempo oltr'ambi i poli, Mentre schivi la via dal volgo trita Convien che da voi prenda et vostri soli Numi felice chi tesser gradita Istoria brama, sì che luogo in terra Non sia che 'l suo splendor inchiuda e serra Ultima vien, ma prima di bellezza, La Pappafava Nicolosa, in cui Pose natura quanto di vaghezza In mille anni dovea mostrar fra nui; Gira i begli occhi, con tanta dolcezza Che potrebbe d'Amor ne' regni bui Destar desiri, e alle maniere accorte Accender Pluto e tutta la sua corte. Oh! quanto giova d'aver bella madre, Che di grazia e bellezza i figli formi Sin' entro all'alvo sempre rende et adre Madri produsser mostri orrendi, informi Per lo contrario poi belle e leggiadre Fecero i parti sempre a sé conformi. Così, Samaritana, hor v'assomiglia La non men' grazïosa e bella figlia. Ordisce Amor nel suo crin d'oro i nodi, E nelle ciglia tempra le saette, Nelle guance ha sua sede, e 'n mille modi Dalle vermiglie labbia e perle schiette Invesca l'alme, e tesse inganni e frodi. Dal dolce viso piovon grazie elette, Dal bianco marmo e dalla bella gola, Nel sen d'avorio Amor scherzando vola. In picciol vetro chiuder tutte l'onde, Annoverar le stelle potrei prima Che le bellezze a null'altre seconde Potessi a pien' giamai chiudere 'n rima. Creder si de' che quel ch'a noi nasconde Non sia di minor prezzo e minor stima, E che 'l bel crin, la bocca, gli occhi, 'l viso Adegui l'altro ascoso paradiso. A guisa di canoro, bianco cigno Volando dall'atlante a' lidi Eoi Con chiaro carme e stil dolce, benigno Gli invitti semidei, gl'invitti eroi, Difenderà dal morso empio, maligno Del tempo edace e dagli artigli suoi Dell'alber mio cingendosi le chiome Chi pregia poetando 'l vostro nome. Cotal dono alla bella Pappafava Fece mercè della mia chiara fiamma Chi tolto negro manto oscura e cava Vesta, ancor cela i raggi onde m'infiamma. Ella (con nostra pace) riportava Il primo onor, se Febo la sua fiamma Veduta avesse, e 'l giallo, è 'l rosso, e 'l verde Con cui l'oro, i smeraldi e l'ostro perde Come dolce mia fiamma in ciel la luna Le stelle di splendor vinse d'assai, E come quella appresso 'l sol s'imbruna, Né ardisce dopo lui mostrarsi mai, Così ogni bella divien fosca e bruna All'apparir de' vostri ardenti rai, Ché voi potete 'l ciel torbido e negro Rasserenar cogli occhi e fare allegro. Ma che vi giova che nulla s'agguaglia Al vostro alto valor, vostra beltade, E che nessuna a tanta gloria saglia, Se nimica d'Amore di pietade Di qual pietra più rigida s'intaglia Avete 'l cor in questa verde etade? Ahi lasso! io lo so ben che 'l provo e veggio Ch'indarno d'hor in hor mercè vi chieggio. Deh! non vedete voi, se 'l cor s'infigne, Dolce mia fiamma, o veramente langue; Non v'accorgete al volto e a chi 'l dipigne Del color di sé stesso smorto, esangue? Come, dolce mia pena, bagna e tigne Amor lo stral dorato nel suo sangue, Onde note ne son tutte le vene, Né del miser ancor pietà vi viene. Deh! volgete 'l pensier, che tanto adugge Gli amorosi piacer, dalla via torta, Mirate come 'l tempo vola e fugge E ciò che è qui di bel seco se n' porta; Già cotesta beltà ch'or mi distrugge Vinta dagli anni fia pallida e smorta, Ch'ogni cosa consuma e guasta il tempo E 'l pentirsi da sezzo non è a tempo. Come d'Aprile, allor' ch'i' vaghi augelli Sciogliono a ragionar d'amor le lingue Di verdi erbette, frondi e fior novelli Primavera le piazze orna e distingue, E come spoglia il verno gli arbuscelli Delle lor veste, e i fior ne' prati estingue; Così beltà vi dona la natura E breve tempo la si toglie e fura. Però godendo 'l ben fugace e lieve Cercate farlo incontra 'l tempo eterno, Questo sol fia se chi v'ama riceve Ugual mercede al grave ardor suo 'nterno; Ch'insin d'ond'il sol nasce, u' lui la neve Vince, per man d'amor la state e 'l verno Vi terrà viva in queste e quelle rive Non men che Febo le Castalie dive. Se qual', poi ch'ebbe scelte, squarciò 'l velo Con che soleva agli occhi altrui celarse, E ciò che di mortal' era nel stelo Delle nove già muse subito arse, Tutte d'ambrosia l'unse, e un dolce zelo Gli accese a' cori, e del suo spirto sparse Scintille ardenti, e 'l suo nume gl'infose Nelle menti, ond'uscir mirabil' cose. Subito al verde lauro, che nel prato Quinci e quindi le braccia stende e spiega Ciascuna corre, e un ramo n'ha levato Con che la fronte e 'l crin si cinge e lega, E ballando e cantando, dolce, ornato, Soave stil, u' Febo stassi, piega Il camino, indi tutte 'l circondàro E seco ver' Parnaso s'enviàro. Giunt'ove 'l sacro umor con larga vena Fa rigando l'erbetta e 'l prato molle, Voi (chiese Apollo con fronte serena) Il chiaro fonte e bipartito colle Guardarete e 'l bel lauro, e quanto frena Il mio nume fìa vostro; indi s'estolle In ciel; ma pria del santo luogo esclude L'antiche donne, or fatta inette e rude. Sante Muse d'Euganea, ch'or' ne' colli Di Pindo, di Parnaso e d'Elicona Ite errando or ne' seni dolci e molli Di Permesso e d'Eurota, ove risuona L'aer di cigni; hor pe' candidi colli Spargete i crin bagnati nella buona Onda Castalia, hor' v'assidete a l'ombra De l'alber, che 'l valor d'ogni altro adombra. Hor' sotto ombrose quercie e alti faggi, Con le grazie tra fior' vermigli e gialli, Difese dai più caldi, ardenti raggi Al suon de' chiari, liquidi cristalli, Senza temer d'altrui ingiurie e oltraggi, Ite per questi prati e queste valli Cantando in sì soavi, dolci accenti, Ch'intorno ad ascoltar traete i venti. Ispirate al mio dir sì dolce canto Che la fiamma gentil, che 'l cor m'accese Co' suoi bei raggi squarci il freddo manto, Che di scaldarsi 'l cor aspre contese Face a sé stessa, o gli aggradite intanto (E mi fia assai) le mie amorose imprese Che 'n la più bella fiamma arde 'l mio core Che 'n terra mai fiamma accendesse Amore. [7 Di Jacopo Perusini] Di m. Jacopo Perusini da San Genese. Nimphe leggiadre dell'Euganee rive, Hor di Pindo, Helicona, e del bel monte Parnaso fatte, e del Castalio fonte, Come piacque ad Apol' signore e dive; A chi sol di voi pensa, parla e scrive Altieri versi, elette rime e conte, Cingete l'onorata, altiera fronte D'edere, mirti, allori e bianche olive. Volgete solo al Negosante i rai De' bei vostri occhi, et a lui sol rendete Sì che 'l gran merto agguagli alta mercede. E acciò suo chiaro stil non manchi mai, Col vostro almo liquor grate spegnete L'ardor che 'n le sue asciutte labbia siede. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°975 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Così diceva Apollo, e nel bel viso Or di questa, or di quella gli occhi gira; Loda le voci e 'l canto, et egli avviso Che assai minor beltà nel ciel si mira E da sé stesso è cotanto diviso Che non sa quali elegge, et or sospira; Gran pezzo ste' sospeso, et alla fine Queste nove ne scelse alme e divine. Quella che dall'età tenera, acerba Ogni cosa mondana a disdegno ebbe, E come in giardin cresce ben culta erba, Così seco il valor, la virtù crebbe, Dinanzi all'altre sì bella e superba Ne vien, ch'in dubbio lascia a cui più debbe, Onesta, saggia Margharita Urbina, Al cui valor la terra e 'l ciel s'inchina. Voi (disse Apollo) ne' celesti chiostri Poggierete, e le stelle vaghe, erranti E le fisse a' mortali dotti inchiostri Mostrarete, e qual presso, e qual distanti Sian' dal terrestre globo, e qual' fur mostri, Quali uomini, e perché si para avanti E 'n qual tempo la terra alla mia suora E fa ch'ella nel viso si scolora Isabetta Dottora costei segue, Ai cui begli occhi, al parlar dolce, accorto, Senza sperar giammai pace, né tregue, Senza segno veder mai di conforto Convien ch'ardendo, amando si dilegue, E resti ogni amador pallido e smorto. Ah! ingiusto Amor, come soffri che chiuda Un corpo così bello alma sì cruda? Vostra la grazia fia, vostro fia il dono (Le disse 'l regnator di Delo e Cinto) Di mostrar con qual voce, con qual tuono, Con qual gesto di dolce grazia tinto Un cor selvaggio, un animo non buono Di piacevol catena resti avvinto, E come col parlar saggio e divino S'adegui il greco e l'orator d'Arpino. Ecco chi al ciel fuor' di donnesca foggia, Battendo le veloci impigre penne Del sacro ingegno, poetando poggia Tal ch'envidia non porta a Mitilenne Il bel Timavo, anzi quanto s'appoggia A stil più grave chi più tarda venne, Tanto questi la vince per la dotta, Casta, bella, gentil, saggia Alvarotta. Voi sola converrà ch'onori e pregi (Le disse il dio) chi di coturno brama Vestire i piedi, e per le scene i regi Gesti tragichi, alzando eterna fama Acquistar e di chiari immortal' fregi Ornar la fronte, a che 'l ciel radi chiama, E riportando vincitore il capro Fuggir morendo da Letheo lavacro. Voi pel contrario di faceti motti, Di detti acuti e di cecropio sale, Come tesser' si deno i tersi e dotti Poemi mostrarete a cui ne cale, E come tra le risa habbino i rotti Singulti e pianti luogo, e come esale La fortuna ogni amaro e alfin le piace Ch'ogni cosa ritorni in dolce pace. Questo alla bella Trabacchina è detto, Trabacchina gentil, che ne' bei lumi, Nel bel viso, nel bel candido petto Quanta ad altrui giamai cortesi numi Infusero beltà, senno, intelletto Ha raccolto, onde fa che si consumi E dolcemente si distrugga et arda Chiunque il petto, gli occhi, il viso guarda. Ecco venir lungo 'l bel prato erboso Ginevra de' Roberti mira e scorgi Che da' begli occhi dal viso amoroso Tanto piacer, tanta dolcezza porge, Ch'un aspe, un orso, un tigre far pietoso Porrìa, qualor ciascun più irato sorge. Qual maraviglia è dunque ch'uom' s'accenda Al primo sguardo e prigion gli si renda? A cui vostre seranno proprie e sole Le grazie di mostrar con quali tempre Si 'sprimano col suono le parole Sì chiare e dolci ch'altre se ne stempre; Muovansi i passi, i giri e le parole, Or preste, or tarde, or alte, or basse, e sempre Ordiscan nuovi gesti e nuovi modi A l'altrui libertade inganni e frodi. A chi vien dopo quante miglia e passi Sian per insino alli celesti regni Mesurando da questi infimi e bassi Per noi convien che si dimostri e 'nsegni, E qualmente con numeri e compassi, Triangoli rotondi ed altri segni, E con forme quadrate et altre effigi D'Archimede si segnano i vestigi. Così disse alla bella Leoncina Il sacro nume, ed ella si ristrinse In sé stessa, e nell'una e l'altra brina Del color delle rose si dipinse, Rose ch'ancor nella nativa spina Soverchia pioggia e grave ardor non vinse, A guisa di piropo fiammeggiaro I begli occhi e mille anime infiammaro. Indi, volto a chi segue, in un sì grave E sì dolce armonia da voi s'impetre Che quel cui fu 'l delfin secura nave, E di Lino e d'Orfeo vinca le cetre, Vinca quello, al cui suon dolce, soave, Tebe di mura misero le pietre Ogni altra vinca e destini ogni core Dolci affetti e pensier dolci d'amore. (continua) Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°974 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Storia della Colonna Infame Note (1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere. Tacit. Ann. I, 39. |
Post n°973 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Storia della Colonna Infame Alcuni de' nomi che abbiam citati, e di quelli che avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di «scrittori, i quali se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia». (14) Certo, l'orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento anche per quello che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del loro, l'orrore sia un giusto sentimento, e l'ignominia una giusta retribuzione, il poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare. |
Post n°972 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Storia della Colonna Infame |
Post n°971 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) [6 Muse padovane] Muse padovane. Voi, che 'n fiamma amorosa acceso 'l core Nel sen di Brenta le vestigia sparse Delle nimphe cercate a tutte l'ore Ne' dolci lumi ond'elle son sì scarse, Desïando temprar lo 'ntenso ardore, Venite meco, e le vedrete far se Dive del sacro umor, che 'n cedro e myrra Consacra chi ne bee 'n Parnaso e Cirra. Fiamma gentil, che co' tuoi raggi ardenti M'accendesti nel cor nuovi desiri Se giammai ti fur' grati i mesti accenti Che per te sparsi 'n mille versi miri, Hor mi scorgi 'l camin', m'aqueta i venti Cruciosi, e fa ch'una dolce aura spiri; Né t'incresca che quanto io m'alzo et ergo Fia sua loda, a cui sol le carte vergo. Era nella stagion che l'erbe e i fiori Muoion languendo nel materno seno, Arsi dalli soverchi, gravi ardori, Che muove 'l sol nel mezzodì sereno, Quando Febo già carco di sudori A veloce destrier raccolte il freno, E mentre quei pascendo all'erbe intorno Gìano errando, in Parnaso fe' ritorno. Quivi 'n mezzo le nove alme sorelle Sovra le fresche, verdeggianti sponde D'Hippocrene, le chiome aurate e belle, Cinto della sua santa, armata fronde, Rinfrescossi la fronte, e ambe le stelle Col beato liquor de le sacre onde; Indi la lira in mano e 'l plettro tolse E 'n dolci note la sua lingua sciolse. Al dolce suono, all'armonia celeste, Gli alberi, i sassi 'ntorno alle fresche acque Si ragunaro, e di purpuree veste Si copriro le piazze, e intento giacque Ogni animal, né in ciel veduta avreste Pur' una nube, et ogni vento tacque; Sol la fontana, qual risponder voglia; Nel chiaro fondo mormora e gorgoglia. Ei cantava sì come il sommo Giove D'acqua, di terra, d'aere, di fuoco Creò ciò che quà giù si ferma e muove, E che di tal semenza a poco, a poco Il mondo crebbe in varie forme e nuove, E come dal diluvio fu ogni luoco Sommerso, e che da Pirra poi di duro Sasso i mortali reparati furo. Così diceva Apollo, a cui le Muse Ripetendo con rime dolci e terse Quel che egli nell'estremo suon concluse Respondieno; ma sì varie e diverse Dall'armonia ch'aver prima eran' use Che non cantar', ma più tosto dolerse Parieno, e qual tra cigni roca turba De' corvi che gracchiando il canto sturba. Due e tre volte quei medesmi metri Iterar' per ridurli al vago stile, Che da chiari cristalli, puri vetri Del Castalio liquor, dolce e gentile S'infonde a chi ne gusta; ma più tetri Furno gli accenti, et ogni rima umìle Onde qual fu al stillar del nuovo elettro Sul Po la lira gittò Febo e 'l plettro. Indi s'accese di tanta ira e sdegno (S'ira e disdegno può cader ne' dei), Ch'a' feroci corsier senza ritegno Ripose i morsi, e quattro volte, e sei Con la sferza gli strinse finché 'l regno Passò di Spagna, e i popoli che lei Hanno da tergo, e giunse ove già pose Hercole i segni ed entro 'l mar s'ascose. Né perché sia dal piè fin sovra al collo Bagnato, spegner può la mente accesa, Anzi ha fermo 'l pensier che non dia crollo Etho dal giogo che sì 'l grava e pesa Con gli altri tre, finché non sia satollo D'aver trovato da chi meglio impresa Sia la sua mente, e chi 'l Castalìo umore Guardi 'nvece dell'alme nuove suore. E così poi che di Titon' la sposa Del mar degli Indi trasse il robicondo Volto, e di gigli, e di vermiglia rosa, E di mille fioretti sparse il mondo, Senza aver mai potuto trovar cosa Che gli piacesse il di primo e 'l secondo, Togliendo al mondo il manto umido e nero Tutto Febo trascorse l'hemispero. Il terzo dì sopra la verde piaggia D'Euganea, ove 'l Troian riposò 'l piede Dopo la crudel strage, empia e malvaggia, E 'l grave incendio della patria sede Come passando il suo bel lume raggia Tra ramo e ramo una gran turba vede Di pastoral' sampogne e note alpestri Risonar sente i bei luoghi silvestri. E vago di veder che questo sia Lascia nell'aria l'infiammate ruote E ratto in terra scende per la via Ch'apre il cerchio macchiato in bianche note Verso la turba, verso 'l suon s'invia; Ma prima le vermiglie bianche gote Di lunga barba veste, e 'l bel crin d'oro Cuopre e si spoglia del divin decoro. La sampogna dall'un, dall'altro fianco Pende la tasca senza legge e norma, Le lievi membra quasi lasso e stanco Appoggia ad un bastone, e si trasforma Tutto in pastor, come già più volte anco Per le Tessale rive seguir l'orma Lo vide 'l vago Amphirse della greggia Che Batto cangiar fece in dura scheggia. Indi, poscia che fu al bel luogo giunto Là 've da cridi pastorali et alle Rozze sampogne dolce canto aggiunto Ribomba il monte, e la vicina valle, Tacito passa ove di fior trapunto Appar segnato il rugiadoso calle, E vede che con rito e patria legge La turba onora il Dio che Brenta elegge. Presso ove spiega il Dio le altiere corna Giace un prato che mai greggi, né falci No 'l tradiro, ove sì che altrui distorna Non entra il sol, s'abbassi 'n capro, o s'alci Nel marin' granchio, perché 'n vista adorna Velo diffendono alni, abeti, e salci, Quercie frondose e co' rami ritorti Abbenché 'l canto piacque al Dio degli orti. Fanvi di sé bella e gioconda vista In gran parte le suore di Fetonte Allegre, poi che di lor fronde trista Ornossi Alcide vincitor la fronte 'U è 'l lauro, il mirto, il pino e seco mista L'elce e l'horno pur hor scesi dal monte, Sopra di cui con dolci modi e belli S'odon cantar mille soavi augelli. Gira il bel prato men d'un miglio attorno, Eterna primavera lo dipinge Di mille varii fiori, e quasi un corno Le verdi sponde mormorando stringe Dolcemente un ruscello, e d'ogni intorno Quinci e quindi i bei lati abbraccia e cinge Un bosco d'odoriferi ginepri, Albergo e stanza a paurose lepri. Quivi 'n sublime et onorato seggio Tutto di toffo e di pomice viva Siedesi lieto, in atto adorno e reggio Il dio che regna in la vicina riva; Cingonlo intorno di verdigno treggio Canne palustri, giunchi, edera, oliva, La bianca barba, e le canute tempie Stillano acqua che 'l seno e 'l grembo gli empie. Veggonsi 'ntorno pastori e bifolci, Lasciate le spelunche e le capanne, Ballare a prova, a suoni alpestri e dolci, E di pive, e di zuffoli, e di canne, Al cui suono tu ancor t'aggiri e folci, Pan, benché sbuffi e vuoti ognor le zanne. Tendon lacciuoli i satiri alle ninfe Per l'erba fresca e per le chiare linfe. Le Driadi, Amadriadi e Napee Seguono ornate in modi chiari, illustri, Con tutte l'altre boscarecce dee, E come a gara ciascuna s'industri Qual gigli e rose, qual delle amiclee Valli 'l bel fior qual vanni e ligustri, Qual'offre al dio pien di narcisi 'l grembo, Qual di mille altri fior gli scuote il lembo. Altri la palma piena, e piena cesta Gli sparge di papavero e di calta, Altri di croco e di fior di ginestra, Di varie erbe ghirlande 'nteste smalta; Non tutte ad una guisa hanno la vesta, Non dissimil però, qual da terra alta Porta la gonna, e per l'erbetta fresca Muove i pie' ignudi, e mille cuori invesca, Qual le chiome de l'or pel collo ha sparte, Qual l'ha raccolte in vaghi nodi strani, Evvi chi nel bel seno aperto ad arte Mostra i pomi d'avorio, et a Silvani E Fauni strugge i cori a parte, a parte; V'è chi dalle gentil', candide mani Ha ignude insino agli omeri le braccia, Ond'a mille pastor' l'anime allaccia. V'ha in gran copia con gli occhi 'n mano e strali Con le faretre al fianco cacciatrici, Tutte succinte e i pie' sin' sovra i sali Coperte delle pelli, che vittrici Riportano di fere e mostri, quali Soglion sovente giù per le pendici Di Cinto mille ninfe in una schiera Di Latona seguir la figlia altiera. La dea di Cipri delle proprie foglie Cinta, la fronte, co' lascivi figli Ond'ordisca ghirlande lieta coglie Azzurri, verdi fior, bianchi e vermigli, E quei tra l'erba d'amorose voglie Spargono l'esca e tendon lacci e artigli, Esca dolce d'amor, dolci legami, Ond'altri preso, ardendo in eterno ami. Molti vanno a diporto e lor' trastullo, Dolci cantando gli amorosi inganni, Questa di Lesbia canta e di Catullo, Di Nason per Corinna i dolci affanni, Quella gli amor' di Properzio e Tibullo Canta, e di Gallo i gravi, acerbi danni; Gallo, che pianse per altrui paese Licoride irne, e alfin sé stesso offese. Altri d'Aci cantando e Galatea Giva, che dal Ciclope ebbe sì avversi I pensieri, e gli fu sì acerba e rea; Altri con altra lingua et altri versi Dante e Beatrice risonar facea, E 'l gran Tosco con stili ornati e tersi Addolcir Laura, talché la fresca aura Ode sonar per tutto: Laura, Laura. E non udì già mai tanto concento Il bel Caistro ne' suoi stagni, quando Senza strepito alcun stette più intento Ad ascoltar' i cigni, che tornando De' verdi, lieti parchi, l'aura e 'l vento E l'aria intorno addolciscon cantando, Come dolci, soavi accenti udìo La gran Brenta, il bel bosco, il picciol rio. Mira Febo il bel stuolo, e questa, e quella Loda, e tra sé tacitamente parla; Quindi sceglier convien chi abbia della Rupe Elicona cura, o di lasciarla Deserta, inculta, perché né più bella, Né più dotta potrei d'altronde farla Cercando 'ntorno dal Gange alla Spagna Quanto il padre ocean circonda e bagna. Taccia chi loda il bel terren toscano, E quel cui la sirena il nome diede; Perdonimi il gentil, piacevol' Fano Fan' di fortuna che a null'altro cede In produr' donne di giocondo, umano Viso, e che fanno in terra del ciel fede, Fano d'immortal, degno, eterno grido, Delle grazie e d'amori albergo e nido. Veggio due nel suo sen, dai cui begli occhi, Dalla dolce, soave, alma sembianza Par che tal grazia, tal virtù trabocchi Che quindi Amor ogni sua impresa avanza; Né più d'altronde par che l'arco scocchi: Giovanna l'una s'è, l'altra Costanza, Ambedue Gabrielli, e l'una e l'altra Bella, gentil, leggiadra, onesta e scaltra. Veggio due che dall'indo al lido Mauro Son di senno e valore esempio e specchio, Impoverito ha l'una il bel Metauro Per far ricco e famoso Montevecchio; L'altra partita insin' dal pie' d'Isauro Fa nel tuo sen di bel nido apparecchio; Felice chi tal' piante have produtto, Ma più felice chi ne coglie il frutto. Ecco la bella coppia pellegrina: Camilla Castracani e Beatrice, Costanza Nigosanti, e la divina Hippolita Duranti, e chi felice Col guardo ogni alma fa la Saracina Giovanna, unica al mondo qual fenice; Ginevra de' Panetii 'n cui si mostra Quanta bellezza ha l'amorosa chiostra. Leggiadramente le Palazze altere Insieme in un drappel veggìo raccolte, La Taddea Gambetella in vesti nere Le care membra onestamente involte E chi non è sezzaia in queste schiere Giustina de' Duranti e altre molte, Costanza Francescucci, a cui s'appressa Null'altra di beltà la Taddea Alessa. |
Post n°970 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
La Storia della Colonna Infame faceva inizialmente parte de "I Promessi Sposi", quale appendice, ma nel 1842 Manzoni rese tale appendice un volumetto a sé stante, separandolo dall'opera maggiore. Introduzione Edizione di riferimento: "Opere di Alessandro Manzoni", a cura di Lanfranco Caretti, Ugo Mursia editore, Milano, 1973 |
Post n°969 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Storia della Colonna Infame |
Post n°968 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Storia della Colonna Infame |
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO QUARTO CAPITOLO I In forma quadra era il loco ch’io dico, disabitato tutto e senza porte, messo in dispregio per vecchio e antico. E, poi che dentro fui con le mie scorte, vidi una loggia fatta per memoria, 5 a volte tutta, intorno a una corte. In ogni quadro suo avea una storia con gran figure di marmo intagliato sí belle, che ’l veder mi fu gran gloria. Quivi era nel principio storiato 10 Cres, figliuolo di Nembrot, del cui nome apresso Creti fu cosí chiamato; poi Cielo, poi Saturno, e seguia come Giove cacciava il padre fuor del regno con poca compagnia e con men some. 15 Seguia di Giove ancor, sí come a ’ngegno con Almena giacea e quanto Giuno ebbe il figliuol ne la culla a disdegno. Sí mirando gl’intagli a uno a uno, seguir vedea come Ercules conquise 20 Anteo gigante, che vincea ciascuno; similemente come a morte mise Busiris, le tre Arpie e Gerione e come Cacco ne la cava uccise. Quivi era ancora del fiero dragone, 25 che guardava il bel pome, l’aspra morte e quella de la cerva e del leone; poi come entrava per le infernal porte e ’ncatenava Cerber con tre teste, e sostenea il ciel, tant’era forte. 30 Seguia, apresso, il danno e le tempeste del fiero porco, ch’Arcadia guastava, e come l’uccidea ne le foreste. Quivi era ancor come la morte dava a Diomedes, a Nesso e al centauro 35 e la cagion perché ben loro stava. Quivi era in terra Acheloo il gran tauro; quivi tollea lo scudo e la lorica a Menalippa, che lucean com’auro. Quivi era Iole, l’ultima sua amica; 40 quivi parea tagliar le teste a l’idra e rotare ad un sasso il tristo Lica. E sí come uom, che mirando disidra di piú vedere e che quel che ha veduto ne la sua mente imagina e considra, 45 facea io; e poi che proveduto ebbi la prima parte, gli occhi porsi a l’altra, e, come gli occhi, il passo muto. Carano re con molta gente scorsi sí come Agar edificar facea 50 e l’agurio del sito non trascorsi. Cinus, Tiramans, Perdiccas vedea, Archelao, Filippo e, dopo lui, Aeropus, Alceta e Amintas parea; poi seguiva Alessandro e di costui 55 prima parea che statua d’oro Apollin ricevesse che d’altrui. Nove n’annoverai dopo costoro, tra’ quali vidi Archelao secondo piú dato a studio ch’ad altro lavoro. 60 Aspero e fiero quanto fu al mondo nel suo aspetto quivi si mostrava Filippo armato e d’animo profondo. Quivi era come Olimpia sposava con molta festa e, apresso, seguia 65 come Atenes e Tessaglia acquistava. Quivi era come in rotta si fuggia la gente sua, ferito ne la coscia, lasciando la gran preda per la via. Quivi era il gran martiro e quell’angoscia che sofferson da lui le genti grece, per che suggette e ferme li fun poscia. Quivi era come sedici anni e diece regnato avea allora che fu morto tra’ suoi e la vendetta che sen fece. 75 Non vidi lá tra quelli intagli scorto come Arruba a la morte condusse e tolse il regno falsamente e a torto. Non vidi lá, né credo che vi fusse, sí come i suoi fratelli ancora uccise 80 né la cagion che a tanto mal l’indusse. Non vidi lá quel fallo che commise per aver Cappadocia al suo dimino, e quando i due signori a morte mise. Quivi era com Natanabo fuggio 85 di Egitto a Filippo e cosí come Alessandro era tal, che nel disio piú non cercava latte né idiome. Allor pensai e dissi: "Oh quanto è falso chi incolpa altrui a torto e dá mal nome 90 e quanto è giusto se ’l compra poi salso!". |
Post n°966 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) [2 Muse padovane] Al medesimo. Io non vidi, signor mai 'n poggio, o 'n riva, O in chiusa valle Talìa, Euterpe, o Clio, Che mi fesser' gustare o fonte, o rio, Onde sì tosto poetando i' scriva. Né di lauro, di mirto, edera, oliva, Venere, Palla, Febo, od altro dio Mi cinser' mai la fronte per desìo, Ch'io n'abbia e sempre avrò mentre che viva. Ma ad un bel fuoco, ad un bel saggio ardente Di due begli occhi Amor desta il pensiero E lo sprona lontan dal volgo ignaro, Indi ai versi, alle rime erge la mente E fammi andar della speranza altiero, Ch'a madonna il mio dir' ancor fia caro. [3 Muse padovane] Per lo medesimo. Sante Muse d'Euganea, che ne' seni Di Permesso et d'Eurota, al suon dell'onde, Cinte delle mai sempre verdi fronde, Ite errando per luoghi dolci, ameni, Volgete i rai de' begli occhi sereni Al gran Farnese, et per l'humide sponde Ite, honor delle sue virtù profonde, Spargete i grembi di ligustri pieni; Pasceteli un giovenco, ch'abbia d'oro L'altiere corna, e 'l tergo crespo et irto Di seta, e già col pie' l'arena sparga, E 'l capo cinto di porpora e alloro, Perché al vostro lettor lingua empia e larga Non noccia, ornate di baccare e mirto. [4 Muse padovane] Alle Nimphe padovane. Non perch'io speri col mio dolce canto Agguagliare 'l valor che 'n voi s'ascose Allor che l'alme ai cari membri infose Chi 'l mondo affrena sol col ciglio e canto. Ché sol lodarvi a pien' si darà vanto Chi quant'il vago April fior', frondi e rose Sparger suol' per le piagge rugiadose, Spera chiuder raccolte in picciol manto. Ma ben per dimostrar che di me dono Vi feci il dì che ne' begli occhi vostri Vidi tutto quel ben che 'l ciel comparte, Sante Nimphe d'Euganea, a voi gl'inchiostri Non lo sdegnate, a voi lo 'ngegno e l'arte, A voi sacro lo stil, la cetra, e 'l suono. [5 Muse Padovane] Al libro. A pie' de' colli, ove con larga vena La Brenta i verdi paschi irriga e fende, E le superbe corna piega e stende Contra 'l leon, che la contrada affrena, Nella stagion che 'l bel tempo rimena, I fiori e l'erbe, e sua vista riprende La terra, mosse 'l fuoco onde m'incende Amor, sola cagion d'ogni mia pena. Ivi rime felici il mio bel sole Vedrete, a cui con atto umile e piano Sciogliete in dolce suon cotal' parole: Dal lido d'Adria alla sinistra mano A voi m'envia chi nelle rive sole Del Metauro piangendo è quasi 'nsano. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°965 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Ponetevi di me l'esempio inanti, Che delle sante leggi il gran valore Gustand'il tempo mio spesi e l'amore In lor sì ch'altri non si puon' davanti, Non giovenil pensier, non van' desìo, Che spesso ingombra il cuor a molti sciocchi, A me poté giamai piegar il petto. Vissi felice, or me n' vo lieto a Dio, O cari amici, nel celeste tetto. Così diss'il Berò, poi chiuse gli occhi. XLVII [Di anonimo] Del tuo arenoso letto le gran' sponde Coprir di ricche gemme e vaghi fiori Hor puoi, figlio diletto, e dar maggiori Tributi al gran signor delle sals'onde; Poscia ch'en le tue parti più gioconde Splendono i pregi e i valorosi onori Del signor' Adrian, gesti e valori, Fama, nome, virtù chiare e faconde, Di cui privato il Tebro già famoso, Senza il suo antico orgoglio corre irato, E pien' d'invidia al procelloso regno; Così mostrando di letizia segno, Di verdi fronde il regal fianco ornato Diss'al Ren picciol l'Appennin silvoso. XLVIII [Di anonimo] Un arbuscel, che in solitarie rive Verso il ciel spiega i rami orridi et hirti, E d'odor vince i pin, gl'abeti e i mirti E lieto e verde al ghiaccio e al caldo vive Il nome ha di colei, che mi prescrive Termine, e leggi ai travagliati spirti, Da cui seguir non potrian Scille, o Scirti Ritrarmi, o le brumali ore e l'estive: E se benigno influsso di pianeta Lunghe vigilie e più amorosi sproni Potran condurmi ad onorata meta, Non voglio, e Febo e Bacco mi perdoni, Che lor' frondi mi mostrino poeta; Ma ch'un ginebro sia che mi coroni. XLIX [Di anonimo] La bella man, con che 'l cor mi stringete, Donna, è cagion ch'altro non è che pianto Mia vita, e se talor io rido, o canto Facciol' per non mostrar quel che voi siete. S'io scuoto per slegarlo, raccendete L'altero sguardo et abbruggiate quanto È in me di forza e si raddoppia intanto Mia pena, e del mio mal, empia, ridete. E così stando ne' bei lacci avvolto Ognor s'affligge, e s'io mi sforzo trarlo De la potente man, mi strugge 'l sguardo. Mi pento, ahimè!, ben che 'l pentir sia tardo, Ch'i' non dovea ne le man vostre darlo, D'onde, se non per morte, mai fu sciolto. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Il Dittamondo Sempre passando d’un paese in altro e ascoltando la mia cara guida, ch’era piú ch’io non dico esperto e scaltro, fra me dicea: "Qui gli orecchi di Mida non fan mestier, ma di Tullio la mente 5 a tante cose, quante insieme annida". Discese giú del monte incontanente; prese il cammin diritto per lo piano, come colui che gli avea tutti a mente. Mi disse poi: "Da la sinistra mano 10 come tu vai, un paese incomincia: Magnesia è detto per quei che vi stanno. E come per Tessaglia, cosí schincia per Macedona e tanto è buona e diva, quant’è di qua alcun’altra provincia. 15 Moetena v’è, de la qual par si scriva che Filippo ivi ciclopis divenne un dí ch’armato la terra assaliva. E perché non rimase ne le penne de’ poeti Libetria, fontana 20 che surge lá, parlare a me convienne. Ma vieni, ch’io non so piú cosa strana da notar qui; troviamo altra contrada, ché ’l perder tempo è cosa sciocca e vana". Con maggior passi prendemmo la strada, 25 quand’uno sopra un’acqua ci appario in atto sí come uom ch’aspetta e bada. E giunto a lui, de la bocca m’uscio "Jiá su" e fu greco il saluto, perché l’abito suo greco scoprio. 30 Ed ello, come accorto e proveduto, Calós írtes allora mi rispose, allegro piú che non l’avea veduto. Cosí parlato insieme molte cose, ípeto: xéuris franchicá? Ed esso: 35 Ime roméos e xéuro plus glose. E io: Paracaló se, fíle mu; apresso mílise franchicá ancor gli dissi. Metá charás, fu sua risposta adesso. Udito il suo parlar, cosí m’affissi, 40 dicendo: "Questo è me’ ch’io non pensava"; e gli occhi miei dentro al suo volto fissi. Poi il dimandai lá dov’ello andava; rispuosemi: "Qui presso a una chora, dove il re Pirro anticamente stava". 45 Io mi rivolsi al mio consiglio allora e dissi: "Che ti pare? Andrem con lui?" Rispuose: "Sí, ché me’ non ci veggio ora". "Quando ti piaccia, e io e costui, con lo qual son, ti farem compagnia 50 in fin dove tu vai", diss’io a lui. Ed ello allor: "Se a voi piace la mia, la vostra in tutto m’aggrada e contenta". E cosí insieme prendemmo la via. Nel mezzo era io, quando Solin mi tenta, 55 dicendomi pian pian: "Con lui ragiona, ché vedi che n’ha voglia e non si attenta". Io mi rivolsi a la terza persona e dissi: "Dimmi dove si diparte Tessaglia, se lo sai, da Macedona". 60 Ed ello a me: "Quel fiume propio parte l’una da l’altra, ove tu me trovasti: e cosí ’l troveresti in molte carte". La guida mia mi tenta ancor che ’l tasti per udirlo parlare e io il come 65 penso fra me, ch’a sodisfarlo basti. Poi, con parole accorte, dolci e dome, io lo pregai che mi facesse chiaro onde venia e qual era il suo nome. "Ond’è ch’io vegna, questo a te fia chiaro 70 ora per me: Antedamas m’è detto". Cosí rispuose e fummi non avaro. "Ma tu chi se’, che vai cosí soletto con un compagno per questo cammino, ch’è pien d’ogni paura e di sospetto?" 75 "Io mi son un che vado pellegrino cercando il mondo, per essere sperto d’ogni sua novitá e qui non fino". "L’impresa lodo, disse; ma per certo troppo è grave e lunga la fatica, 80 se per grazia del Ciel non t’è sofferto". E io a lui: "Tu vedi la formica che d’affannarsi la state non cala, onde poi il verno vive e si nutrica. E, per contraro, vedi la cicala, 85 che canta e di sua vita non provede, trista morir come la state cala. Folle è colui e poco innanzi vede, che vive per pappare e per dormire se pregio dopo morte aver si crede. 90 Per gravi affanni e lungo sofferire, per non temer ne’ bisogni la morte, può l’uom vita acquistar dopo il morire. Nel Sommo Bene e ne la sua gran corte ho tanta fede, che, per grazia, spero 95 fornir la ’mpresa ch’a te par sí forte". Cosí parlando, trovammo un sentero su per lo quale Antedamas si mise con dir: "Questo è piú presso e piú leggero". Non molto andammo per quelle ricise, 100 che noi giungemmo a una cittade, la qual veder mi piacque per piú guise. Larghe, diritte e lunghe avea le strade, i casamenti a volte e alti tanto, che m’era gran piacer tal novitade. 105 E cosí, ricercando d’ogni canto, venimmo a un palagio grande e bello, con ricche mura e forte tutto quanto, posto in forma d’un nobile castello. |
Post n°963 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime di Celio Magno |
Post n°962 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Dammi, prego, gli accenti e le parole Atte a vestire il mio nobil concetto; Che se tu porgi, quasi un vivo sole, I chiari raggi tuoi dentro al mio petto, Altro Apollo, il cor mio non brama, o vuole, Che l'insegni ad ornar tanto soggetto, Che tu con tua presentia e tua virtute Dolci e chiare far puoi rime aspre e mute. Deh! reggi, signor mio, questa tremante, Questa mia roca voce e paurosa Ch'anzi al conspetto tuo tue lodi sante Senza tua aita incominciar non osa; Ma già sento nel cor timido, errante Da te muover virtute in ch'ei si posa E fa con tal favor sperarmi ch'io Possa in parte acquetare il desir mio. Volgendo gli occhi il re del cielo in terra Ebbe pietà delle sue afflitte gregge, Ch'altre da lupi aver vide aspra guerra, Vide altre errar smarrite e senza legge, Altre, oh! chi ci apre il nostro ovile e serra, Chi ci conduce ai paschi, e chi ci regge? Pigri pastori, neghittosi e lenti Odi gridar con voci alte e dolenti. Onde elegger volendo un pastor fido, D'alta fortezza, pieno e di consiglio Aggirò dall'ardente al freddo lido Tre e tre volte il venerabil ciglio, Indi fissollo al tuo bel patrio nido Per levarne d'uno stranio e gran periglio, E fra cento ti scelse, al quale ei diede Di Pietro manto, mitria, e verga, e sede. Queste dicendo sì onorate e gravi Non son d'altri omer' some che dai tuoi, Tu solo con maniere aspre e soavi La bella schiera mia difender puoi: Altri a cui dia non so queste alme chiavi Per liberarla dai nemici suoi, Che da quel ch'io da le reti chiamai Simil guardian fin qui non ebbe mai. E ben sortiro i desir sommi effetti Tosto ch'in mano il santo peso avesti, Che sotto i provvidi occhi tuoi ricetto Securo e fermo a noi misere desti, E se non eri al gran bisogno eletto Forse ai barbari in preda or ne vedresti. Tu ne campasti da presunti affanni Provvedendo ai futuri, aperti danni. Tu chiudesti le porte al bel paese Che 'l mar circonda e l'Alpe, Apennin parte, Fuori spingendo a far loro altre imprese E per terra e per mar Bellona e Marte, E dove or dall'ispano, or dal Francese Travagli avea da empir fin mille carte, Italia, col favor della tua stella, Rendesti più che mai serena e bella. Ecco col tuo soccorso e tuo consiglio Carlo spiegar le sue cristiane insegne E contra Affrica armare il fiero artiglio, Sì che l'orgoglio all'avversario spegne. Ecco Tunisi preso, e di periglio Tratte mill'alme di catene indegne, E i legni prima timidi in quei mari Securi or da pirati e da corsari. Che se non era quella santa impresa, Quel sì lodato e glorïoso acquisto Cotanto ardir, tanta arroganza presa Avea 'l nostro nemico, anzi di Cristo, Di Europa tutta, nonché Italia accesa Veder sperava, e forse avea provisto. Quella perdita sola lo ritenne Ch'ei non ponesse al fier desìo le penne. E se non che nodrito è 'l suo furore Dalla discordia ch'or regna fra dui, All'arrabbiato Can non darìa 'l core Forse di contrastare oggi con nui, Benché altri speri dopo un gran sudore E dopo molti aspri viaggi tui Concordi alfin vedere ambi i cognati, Lor danni e loro antichi odii scordati. Che sì dannosamente non contese L'ultima volta contra Grecia Xerse, Poscia che 'l saggio e forte Atheniese Far la sua patria serva non sofferse; Ma prima volse in cambio dell'offese Morir, che darla in preda a genti Perse Come costui, se in sì lodevol lite Sono lor forze al tuo valor unite. Quanto in questa tua età senile e lenta, Che più al riposo ch'ai negotii inchina, Quanto affatichi perché in questa spenta Sia l'ira ch'esser può nostra ruina. Te non caldo, né gelo alcun sgomenta, Anzi come ver' auro il fuoco affina, Più nei disagi si mantien natura Perché di te pietà celeste ha cura. Ora a Bologna somma diligenza Per accordarli il tuo camin dirizza Et hor per tal cagion verso Provenza U' trovi Carlo el re de' Franchi in Nizza, Ora a Lucca ti volge, ora a Piacenza E d'estinguer fai prova ov'altri attizza, Né per quattro viaggi, né per sei Indarno fatti unqua men forte sei. Ma come vero padre intorno ai figli Ch'all'arme vede e ripararvi tenta, Ora ai preghi ricorre, ora ai consigli, E non è mai chi si ritiri o penta, Benché invano or li preghi, or li consigli Finché nei petti lor la fiamma ha spenta, Così né tu cessar, Padre almo, puoi Finché in pace non vedi i figli tuoi. E per poter estinguer più d'un foco Che l'occhio d'un tutto veder non puote, Mentre provedi altrove in altro loco Mandi ora l'uno et or l'altro nipote, Ai quali sono, e parmi dirne poco, Tutte le virtù in prezo, e tutte note; E ben conviensi a nobil piante ornate Non tralignar dal ceppo onde son nate. Né questi sol ch'ànno dominio in terra, Cerchi d'unir con salda pace insieme; Ma d'ogni tua città, d'ogni tua terra Delle fazioni sterpi il tristo seme, Le quali armate a civile aspra guerra Vider gli altri anni, di che ancor si geme Solo spegnendo col tuo gran valore Quel che non valse ogni tuo antecessore. Astrea non è che sforzi a gir lontano A rigar di dolor la bella guancia; Poi che fece ritorno, e ch'ebbe in mano, Tua mercè, la sua spada e la bilancia, Il suo valor non più riesce vano, Non è più 'l nome suo favola o ciancia Com'era quando in ogni tua cittade Reggean di pari forza e crudeltade, Che poco, o nulla, potria dirsi vario Dalli passati iniqui giorni nostri Quel tempo in che a vicenda or Scilla, or Mario Dei miseri proscritti empierò i rostri E quanto ebbe più d'altra il ciel contrario E più dentro il mio sen nodrirsi mostri Tanto più deggio a te, per lo cui dono Son d'aspri guai ridotta a quel ch'io sono. Quante fïate i miei figli perversi Mentre io vivea sotto la cura altrui Hanno in lor stessi i ferri lor conversi Di durezza vincendo i regni bui! Talché del sangue lor potea vedersi Carca la terra, et io tinta ne fui Il viso e 'l petto, e con acerbi affanni Questi or per tua cagion candidi panni. E questo sol perché le sacre leggi Vedeano invece lor la forza e l'armi, Tu ben ch'or me con le sorelle reggi Conoscesti la via di risanarmi; Perciò li erranti miei figli correggi E loro mostri più clemenza, parmi Che posto gli hai de la ragione il freno Quando altri di lor empie voglie è pieno. Tu m'hai riscossa da la morte insieme Rifatta più che mai bella e lucente, Et alfine un rettor che s'ama e teme Datomi saggio, fido e diligente, Sotto cui altri non m'ancide e preme Tal che dir posso ormai lieta e ridente: Altri non m'aiutar giovene e forte, Questi in vecchiezza mi campò da morte. Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Il Dittamondo Poi ch’io ebbi compreso a parte a parte le sue parole e vidi che si tacque, un letto feci de le fronde sparte. Del luogo degno, de’ pomi e de l’acque, ch’io vidi e assaggiai, al sommo Padre 5 grazia rendeo, sí ciascun mi piacque. Dopo la cena, piú cose leggiadre mi disse ’l mio conforto, essendo stesi sopra ’l gran petto de la nostra madre. Sí per lo suon de l’acqua, ch’io intesi, 10 e sí per le parole belle ancora, soave sonno e riposato presi. E fui cosí in fino che l’aurora trasse gli augelli fuor de’ caldi nidi, a cantar per lo bosco che s’infiora. 15 Quivi udio versi, ma gli uccei non vidi, con tanta melodia, ch’io potrei dire che quei di qua fra lor parrebbon gridi. Lo vago imaginar, lo dolce udire sí mi piacea, ch’io tenea l’occhio chiuso e non dormia e fuggia di dormire. "Non pur giacer, mi disse, ma sta suso, la buona scorta mia; ché la pigrizia non men che per natura s’ha per uso. Pensa quant’è il cammin di qui in Sizia 25 e girar poi sotto tramontana e veder Tile e passare in Galizia, e cercare Gaulea e Mauritana, Libia, Etiopia e, dopo Gange, l’isola Crise, Argire e Taprobana". 30 Cosí come donzella, a cui l’uom tange parole proverbiose, quando falla, rossa diventa e ’l fallo in fra sé piange, tal divenn’io, fuggendo in vèr la spalla il volto, e mormorai: "Ben falla troppo 35 qual per diletto in grande affar si stalla". Indi si mosse e io li tenni doppo pur per lo giogo in verso un altro spicchio, che n’era per la strada di rintoppo. Quivi mi disse: "Ascolta dove io picchio: 40 sappi ch’al tempo d’Ogigio diluvio non arrivò qua su pesce né nicchio: io dico quando fu sí grande il pluvio, che bestial sacrifizio, incenso o mirra, valse che il mare e ciascun altro fluvio 45 non soperchiasse Licabetto e Cirra, onde per tema sopra questo corno Deucalion fuggio con la sua Pirra. Di questi sassi, che vedi d’intorno, per consiglio di Temis nacque poi 50 la gente, che ’l paese fece adorno". E io a lui: "Rivolgi gli occhi tuoi dove t’addito, ché io vorrei udire che mura fun, che veggio presso a noi". Ed ello a me: "Per certo ti so dire 55 che lá fu Cirra ed Elicona è detto quel monte per lo qual ci convien ire. E quel che vedi, che ci è di rimpetto, è Citerone; e quivi fu giá Nisa, la quale è or, come questa, in dispetto. 60 Ma quanto puoi oltre quei colli avisa: di sotto a essi move una fontana ed èvi una cittá, che ha nome Pisa. E benché la novella suoni strana, giá fu chi creder volle, senza scusa, 65 che ’l nome desse a quella di Toscana. La fonte, ch’ io ti dico, chiusa chiusa, cacciata per Alfeo, per gran caverne va sotto il mare e sorge a Siracusa. Ma perché l’occhio tanto non dicerne 70 e cercar non si può, conviensi al tutto che le parole mie ti sian lucerne. Per questi luoghi, donde io t’ho condutto, si trovan laghi e assai fonti e fiumi belli a vedere e che son di gran frutto. 75 Spercheo v’è, lo qual de le sue schiumi lo nome prende e, s’altro non l’inghiotte, non par che nel cammin mai si consumi. Mezzo scornato e con le membra rotte per la battaglia sua corre Acheleo, 80 bagnando Epirro e le sue belle grotte. Degno di fama vi passa Peneo, se pensi che per tema non mai Danne né per lusinghe castitá perdeo. Non molto lungi a quello un altro vanne 85 che Siringa cacciò, che vinta e lassa venne palú, del qual sonâr le canne. Eveno ancor per la contrada passa, famoso piú però che quivi Nesso, per suo gran fallo, il bino corpo lassa. E benché tu non li vedessi adesso, Ismeno, Ilisso e la Castalia fonte veder potei, ché assai vi fummo presso". Cosí parlando, discendemmo il monte. |
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Inviato da: patriziaorlacchio
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