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Messaggi del 08/01/2015

Rime di Celio Magno (51-54)

Post n°1005 pubblicato il 08 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

51

Desta da l'onde fuor la bianca Aurora
Febo invitava a far dol dì ritorno,
quando in sogno m'addusse un più bel giorno
quel chiaro sol che 'l cor m'arde e innamora.

- Ecco - dirmi parea, - pur giunta l'ora
ch'io le tenebre a te sgombri d'intorno:
far più non deve in pianto e duol soggiorno
chi tanto ha vita sol quanto m'adora. -

Ma il ciel, che raro un ben luogo sofferse,
fe' che, sognando di sognarsi, il core
di novo gli occhi a lagrimar m'aperse.

Così tutte io trapasso acerbe l'ore,
e se pur n'ho di qualche dolce asperte,
finte dal sonno ancor le invidia Amore.

52

Tra duo contrari, ognun per sé possente,
si trova l'alma: e 'l ben fallace o certo
Scorger non sa, né può mirarlo aperto,
ch'in dubia lance il ver sospeso sente.

Sdegno sprona a vendetta il cor dolente
se l'empio premio a la mia fede offerto;
Amor di scuse adombra il mal sofferto
e torna a ravvivar le fiamme spente.

Vinca lo sdegno e 'l suo velen m'inspiri
Così adentro nel cor, ch'estinta giaccia
ogni indegna cagion de' miei sospiri.

Ma chi da me sì bel pensier discaccia?
Ahi, ch'al fin sempre a te mi sforzi e tiri,
e non so con qual arte, amor, tu 'l faccia.

53

Nero e crespo ha 'l bel crin madonna, e tale
sparsa il collo di lui nel viso splende
qual lucente Diana allor che stende
la notte intorno a lei più fosca l'ale.

In quell'oscuro Amor nascosto assale
Qual ladro al varco, e i cor più forte accende:
ché la chioma orna il fronte, e questo prende
grazia da quella in ricco cambio eguale.

Bionda a Venere aver la sua non giova
qualor dal cielo in questa il guardo ha volto;
e farla anch'essa tal con arte prova:

che come al color vince il vago volto
le rose e i gigli, così 'l vanto a prova
de' capei negri al lucid'oro è tolto.

54

Mentre con aspre ingiurie in dolce canto
vergine bella Amor punge e riprende,
e l'angelica voce e 'l volto santo
per l'orecchie e per gli occhi i cori accende,

ei, che vita non ha se non sol quanto
mira il bel viso o l'alma voce intende,
a le perle, ai rubin che 'l biasman tanto
ben mille baci in sua vendetta rende.

E più che d'altra bocca aver gran lode,
pregia sì caro biasmo: ond'ei ferito
fere con maggior forza ogni uom che l'ode.

Al volto, al canto, ai dolci baci intento,
io pien d'invidia e fuor di me rapito,
occhi, orecchie e ardor tutto divento.

 
 
 

Il Dittamondo (4-09)

Post n°1004 pubblicato il 08 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO IX

Seguita ora a dir del quarto seno 
che da Bisanzo Europa racchiude 
in fin al Tanai, dove vien meno, 
overo a le Meotide palude, 
lo qual con sette stadii divide 5 
l'Asia da noi con le ripe crude. 
Il nostro mar, che la terra ricide 
fino a la Tana, a dietro ritorna, 
perché strada non v’è che piú lá il guide. 
Il Tanai, che nasce de le corna 10 
di Rifeo, per la Sizia profonda 
passa a la Tana, ma piú dí soggiorna. 
Or ciò che chiudon, da la nostra sponda, 
lo mare e ’l Tanai, Europa è detta 
con quanto l’Oceano la circonda. 15 
Sopra ’l golfo di Trazia, in su la stretta 
che chiude il mare in cinquecento passi, 
del qual Costantinopol tien la vetta, 
giunti eravamo, e io pur dietro a’ passi 
de la mia guida; e trapassammo Pera, 20 
che terra e porto di Genova fassi. 
Cosí cercando per questa rivera 
andavam noi e riguardando sempre 
s’alcuna novitá da notar c’era. 
Qui mi disse Solin: "Quando tu tempre 25 
la penna, per trattar di questo mare, 
ricordera’ ti, e fa che tu l’assempre, 
di quel ch’or dico". E presemi a contare 
la forma del delfino e la natura 
e quanto è velocissimo il suo andare, 30 
e come ancor gli piace la figura 
umana di vedere e propio quella, 
ch’a riguardare è piú pargola e pura. 
Apresso questo, disse la novella 
come un s’innamorò giá d’un fanciullo, 35 
ch’assai mi fu miracolosa e bella. 
Sopragiunse: "Di tutti i pesci, nullo 
è da notar per maggior maraviglia 
de l’echin, ch’a vederlo è poco e brullo. 
Questo ha la schiena ch’un arco somiglia, 40 
piena di squame agute e paion ferra, 
con cui in mezzo il mar la nave piglia. 
E poi che bene a essa s’afferra, 
remi o vento a muoverla han men forza, 
che s’ella fosse in su la ferma terra. 45 
E questo avièn quando il mare si sforza 
di muover forti venti e gran tempesta; 
poi sen va, come il mal tempo s’ammorza". 
Per quelle vie, che m’eran sí foreste, 
trovammo un serpe, che per sette porte 
passa nel mare con sette sue teste. 
E, quando giunge, è sí feroce e forte, 
che ben quaranta miglia dentro corre, 
prima che ’l mar gli possa dar la morte. 
E sí come ’l discepol, che ricorre 55 
al suo maestro, quando in dubbio vive 
d’alcuna cosa che voglia comporre, 
dimandai il mio: "Di’ come si scrive 
il nome di costui e dove nasce 
e quant’è grande in fine a queste rive". 60 
"De’ germanici monti, tra le fasce 
di Soapia, rispuose, par si spicchi 
e quivi come agnel prima si pasce. 
Poi, cercando Baviera e Ostericchi, 
truova il fratello di gran signoria 65 
e l’uno in corpo a l’altro par si ficchi. 
Indi da Buda cerca l’Ungheria, 
Burgaria, Pannonia, Mesia e Trazia, 
e tre isole forma ne la via. 
Seicento miglia di terra nol sazia: 70 
da sessanta figliuoi seco conduce, 
qual Drava, Ordesso, dove qui si spazia. 
Istro lo chiamo e dove si riduce, 
per lo cammino, Danoia si dice; 
e qui Vicina il suo nome riluce". 75 
Cosí parlando, per quelle pendice 
Costanza vidi, Laspera e Mauro Castro, 
Barbarisi che ’n mar tien la radice. 
E vidi, ricercando per quel nastro, 
Pagropoli e Caffa del Genovese, 80 
Soldana, Vespro, Gabardi e Palastro. 
E poi che ’n verso il Tanai discese 
presso a Porto Pisan, sopra la Tana, 
la scorta mia a ragionar mi prese: 
"Qui la pontica gemma è molto strana: 85 
alcuna in color d’oro, chiara e bella, 
e qual sanguigna, quasi come grana, 
e dentro il mezzo lor luce una stella". 
Apresso questo mi disse del fibro 
come e perché si caccia, la novella, 90
cosí come la scrive nel suo libro.

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 03

Post n°1003 pubblicato il 08 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 3
Come sia nato il processo contro Guglielmo Piazza commissario della sanità

Mentre la pestilenza inferiva più che mai, dopo la processione già detta, la mattina del giorno 21 giugno 1630 una vedova per nome Caterina Troccazzani Rosa, che alloggiava nel corritore che attraversa la Vedra de' cittadini, vide dalla finestra Guglielmo Piazza che dal Carrobio entrò nella contrada, e accostato al muro dalla parte dritta entrando, passò sotto il corritore, indi giunto alla casa di S. Simone, ossia al termine della casa Crivelli che allora aveva una pianta grande di lauro, ritornò indietro. Lo stesso fu osservato da altra donna per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste donne disse nell'esame, che il Piazza «a luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro»: l'altra dice, che alla muraglia del giardino Crivelli «aveva una carta in mano, sopra la qual mise la mano dritta, che mi pareva che volesse scrivere, e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia».

Attestano che ciò accadde alle ore otto, che era giorno fatto, che pioveva. Le due donne sparsero nel vicinato immediatamente il sussurro di aver veduto chi faceva le unzioni malefiche, le quali in processo poi la Troccazzani Rosa disse «aveva veduto colui a fare certi atti attorno alle muraglie, che non mi piacciono niente». La vociferazione immediatamente si divulgò da una bocca all'altra, come risulta dal processo; si ricercò se le muraglie fossero sporche, e si osservò che dall'altezza di un braccio e mezzo da terra vi era del grasso giallo, e ciò singolarmente sotto la porta del Tradati, e vicino all'uscio del barbiere Mora. Si abbruciò paglia al luogo delle unzioni, si scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio.

Prescindasi dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicino al muro allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto della pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno, nel mente che i vicini dalle finestre possono osservare; niente è più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte. Su di questa vociferazione il giorno seguente si portò il capitano di giustizia sul luogo, esaminò le due nominate donne, e quantunque né esse dicessero di avere osservato che il muro sia rimasto sporco dove il Piazza pose le mani, né i siti ne' quali si era osservato l'unto giallo corrispondessero ai luoghi toccati, si decretò la prigionia del commissario della sanità Guglielmo Piazza.

Se lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto di tanta atrocità, era ben naturale che attento all'effetto che ne poteva nascere e istrutto del rumore di tutto il vicinato del giorno precedente, non meno che della solenne visita che il giorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il capitano di giustizia, si sarebbe dato a una immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono alla porta del presidente della sanità, da cui dipendeva, e lo fecero prigione. Visitossi immediatamente la casa del commissario Piazza, e dal processo risulta che non vi si trovarono né ampolle, né vasi, né unti, né danaro, né cosa alcuna che desse sospetto contro di lui.

Appena condotto in carcere Guglielmo Piazza fu immediatamente interrogato dal giudice, e dopo le prime interrogazioni venne a chiedergli se conosceva i deputati della parrocchia, al che rispose che non li conosceva. Interrogato se sapesse che siano stato unte le muraglie, disse che non lo sapeva. Queste due risposte si giudicarono «bugie e inverosimiglianze». Su queste bugie e inverosimiglianze fu posto ai tormenti. L'infelice protestava di aver detta la verità, invocava Dio, invocava S. Carlo, esclamava, urlava dallo spasimo, chiedeva un sorso di acqua per ristoro; finalmente per far cessare lo strazio disse: «Mi facci lasciar giù che dirò quello che so». Fu posto a terra, e allora nuovamente interrogato rispose: «Io non so niente: V. S. mi facci dare un poco d'acqua»; su di che nuovamente fu alzato e tormentato, e dopo una lunghissima tortura nella quale si voleva che nominasse i deputati, egli esclamava sempre: «Ah Signore, ah S. Carlo! se lo sapessi lo direi»; poi disperato dal martirio gridava: «Ammazzatemi, ammazzatemi»; e insistendo il giudice a chiedergli «che si risolva ormai di dire la verità per qual causa neghi di conoscere i deputati della parrocchia, e di sapere che siano state unte le muraglie», rispose quell'infelice: «La verità l'ho detta, io non so niente, se l'avessi saputo l'avria detto; se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino»: e gemendo e urlando da uomo posto all'agonia persisté sempre nello stesso detto, sinché submissa voce ripeteva di aver detta la verità, e perdute le forze cessò d'esclamare, onde fu calato e riposto in carcere.

Qual'inverosimiglianza vi era mai nelle risposte del disgraziato Guglielmo Piazza? Egli abitava nella contrada di S Bernardino, e non alla Vedra, poteva benissimo ignorare un fatto notorio a quel vicinato. Che obbligo aveva quel povero uomo da saper chi fossero i deputati della parrocchia? Che pericolo correva mai egli, se gli avesse conosciuti, nel dirlo? Che pericolo correva mai se diceva pure di aver saputo che fossero state unte le muraglie alla Vedra?

Venne riferito al senato l'esame fatto e il risultato dei tormenti dati a quell'infelice: decretò il senato che il presidente della sanità e il capitano di giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornielli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis, et interpollatis vicibus, arbitrio etc. [con aspra tortura, con legami di canapa e viti intercalate, ad arbitrio]; ed è da notarsi che vi si aggiunge, abraso prius disto Gulielmo et vestibus curiae induto, propinata etiam, si ita videbitur praefatis praesidi ct capitaneo, potione expurgante [dopo aver provveduto a rasare il capo al sunnominato Guglielmo, a vestirlo con abiti curiali e, se sembrava opportuno al presidente e al capitano predetti, a somministrargli una pozione purgativa]: e ciò perché in quei tempi credevasi che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini tranguggiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato. Nel 1630 quasi tutta l'Europa era involta in queste tenebre superstiziose.

Fa commovere tutta l'umanità la scena della seconda tortura col canape, che dislocando le mani le faceva ripiegare sul braccio, mentre l'osso dell'omero si dislocava dalla sua cavità. Guglielmo Piazza esclamava, mentre si apparecchiava il nuovo supplizio: «Mi ammazzino che l'avrò a caro, perché la verità l'ho detta»; poi, mentre si cominciava il crudelissimo slogamento delle giunture, diceva: «Che mi ammazzino, che son qui». Poi aumentandosi lo strazio gridava: «Oh Dio mi, sono assassinato, non so niente, e se sapessi qualche cosa non sarei stato sin adesso a dirlo». Continuava e cresceva per gradi il martirio, sempre s'instava e dal presidente della sanità e dal capitano di giustizia, perché rispondesse sui deputati della parrocchia e sulla scienza d'essere state unte le muraglie. Gridava lo sfortunato Guglielmo: «Non so niente! fatemi tagliar la mano, ammazzatemi pure: oh Dio mi, oh Dio mi!». Sempre instavano i giudici, sempre più incrudelivano, ed egli rispondeva esclamando e gridando: «Ah Signore, sono assassinato! Ah Dio mi, son morto!». Fa ribrezzo il seguire questa atroce scena! A replicate istanze replicava sempre lo stesso, protestando di aver detto la verità, e i giudici nuovamente volevano che dicesse la verità; egli rispose: «Che volete che dica?». Se gli avessero suggerito un'immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato; ma non poteva avere nemmeno la risorsa d'inventare i nomi di persone che non conosceva. Esclamava; «Oh che assassinamento!». E finalmente dopo una tortura, durante la quale si scrissero sei facciate di processo, persistendo egli anche con voce debole e sommessa a dire: «Non so niente, la verità l'ho detta, ah! che non so niente», dopo un lunghissimo e crudelissimo martirio fu ricondotto in carcere.

 
 
 

Avvertenza

Post n°1002 pubblicato il 08 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Avvertenza

L'abate Francesco Cancellieri, morto a 75 anni nel 29 dicembre 1826 aopo aver consumato la vita a ben meritare della storia di Roma con le sue abbondanti pubblicazioni (centottanta fra grandi e piccole!), intorno al quale pubblicai nella Rivista Europea del 16 aprile 1877 uno studio non rimasto inutile, quantunque poco o punto considerato, per chi più di recente ha discorso dell'illustre romofilo; r abate Cancellieri, fra le sue opere inedite che, secondo il nuovo Catalogo riordinato ed illustrato dal conte Alessandro Moroni (Roma 1881), ascendono al bel numero di 114, lasciò un manoscritto in due grossi volumi in 4" col seguente titolo: « Il Carnovale di Roma antico e moderno, ossia descrizione degli antichi baccanali e de'giuochi d'Agone e di Testacelo, celebrati nel giovedì grasso, nel sabato e nella domenica di Quinquagesima e per la festa dell'Assunta, ne' quali avevano parte le comunità di Acquapuzza, Anagni, Cornato, Magliano, Piperno, Sutri, Terracina, Tivoli, Toscanella e Velletri, e specialmente gli ebrei, con l'indicazione di altre feste, giostre, tornei, conviti, ingressi di sovrani e di personaggi, coronazione di poeti, e delle strade entro e fuori di Roma, in cui nel carnevale e in altri tempi dell'anno si sono fatte le corse. »
Di questo titolo si può dire, come di molti altri del Cancellieri, che vale un indice, e 1' indice basta a farci intendere che in quest'opera sul Carnevale di Roma vi dev' essere un po' di tutto, ed anche forse qualche notizia delle cose carnevalesche romane; ma non mai la storia vera, propria e ordinata del Carnevale di Roma. E valga il vero, sappiamo dal conte Moroni, che il manoscritto del Cancellieri, da esso studiato, per gli ultimi tempi non dà più che il registro dei vincitori delle corse.
Questa storia, che non troverebbesi dunque neppure nei due grossi volumi del Cancellieri se venissero pubblicati, il lettore non si aspetti di trovarla nel nostro tenue libretto, che si guarda bene dal cominciare ah ovo col risalire alle origini del Carnevale di Roma. Ci vorrebbe altro! poiché le origini si vogliono vedere nei giuochi in onore del Dio Pane, che erano licenziosissimi, e sotto il nome di lupercali cadevano precisamente alla metà di febbraio, cioè nel periodo ordinario del Carnevale moderno, che appunto dei lupercali è legittimo discendente.
Cosicché il popolo romano nei suoi desideri di Carnevale obbedisce ad un irresistibile istinto tramandatogli dall' antichità, e buon prò gli faccia; oggi l'istinto irresistibile assolve ben altre magagne che la mania di andare in maschera.
Ma, a dirla schietta, nonostante tutta la buona volontà del senato e del popolo, è lecito non aver fiducia nella forza vitale della rinascenza carnevalesca. Il carnevale di Roma, che negli ultimi tempi del regime pontificio era diventato una istituzione di polizia, cosa potrebbe mai essere nei tempi nuovi? Questione! Intanto le manifestazioni di quello che infierisce dal 1870 in qua non danno molte speranze di prosperità. - A leggere i suoi manifesti, a vedere i suoi comitati, fa proprio l'elfetto di un carnevale in extremis che chiede i sacramenti e questua per la buona morte. Nel 1876 alcuni romani con fine ironia mandarono fuori una supplica colla quale scongiuravano il comitato di dare grande importanza al convoglio funebre ed ai funerali del carnevale. L'idea è buona e merita di essere propugnata.
Fate un bel funerale al redivivo carnevale; erigetegli una tomba simile a quella di Cecilia Metella per lo meno, e mettetevi sopra un epitaffio che dica:
Di Roma il carneval qui morto giace ;
Dorma egli alfine e Roma lasci in pace.
Sotterratelo una volta per sempre e non si parli mai più del carnevale di Roma; o meglio, se ne parli soltanto come di cosa che fu, studiandone la storia che può essere di grande utilità per la conoscenza delle cose e degli uomini dei tempi andati.
Questo vogliamo far noi, limitando per altro il nostro studio, che deve esser breve per avere speranza di lettori, ai secoli decimosettimo e decimottavo soltanto, cioè al periodo in cui il carnevale di Roma salì al suo apogeo e quindi cominciò a decadere.
Roma, 1° dicembre 1882.

Tratto da: A. Ademollo, Il Carnevale di Roma nei Secoli XVII e XVIII, Appunti storici con note e documenti, Roma, Casa Editrice A. Sommaruga e C. 1883

INDICE
Avvertenza - pag. ix
I. I primordi, gli eccessi, la repressione » 2
II. Il Carnevale del 1634 in Piazza Navona » 35
III. I Palii » 19
IV. Le Maschere e le Mascherate » 75
V. I castigamatti del 1703 » 91
VI. I festini ; » 103
VII. Le descrizioni (Montaigne, de Brosses, Casanova, Goethe, de Stael) » 111
Documenti e Note » I37

 
 
 

Il Dittamondo (4-08)

Post n°1001 pubblicato il 08 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO VIII

"Omai per questo mar gli occhi disvela, 
disse la guida mia, se tu disii 
trovar del filo a tesser la tua tela". 
E come da Carbasa mi partii, 
io vidi Eubea, dove Titano regna, 
che fu fratel del padre de gli dii. 
Questa a Boezia sí presso si segna, 
che crede, quando alcuno stran vi passa, 
che l’una e l’altra insieme si tegna. 
Poi fui in quella, la qual si compassa 
tra le Ciclade che piú sia nel mezzo: 
e questo vede qual di lá trapassa. 
Al tempo che s’ascose sole e rezzo 
pel diluvio, che fu sí tenebroso 
ch’a ricordarlo ancor pare un riprezzo, 
lo sol, che tanto era stato nascoso, 
perché prima i suoi raggi lá su sparse, 
Delos si scrisse e io cosí la chioso. 
Ancor perché la cotornice apparse 
in prima lí, che ’n greco ortigia è detta, 
Ortigia il loco giá nomato parse. 
La scorta mia non lasciò, per la fretta, 
di dirmi com la cotornice è strana 
e iusta a ciò che sua natura aspetta. 
Apollo, in questa isola, e Diana 
fun partoriti insieme da Latona, 
fuggita qui per iscampar piú sana. 
Poi fui in Chio, del qual si ragiona 
che ci abbonda di mastice per tutto: 
e chio, in greco, mastice a dir sona. 
E ben che degna sia per sí buon frutto, 
piú per Omero li do pregio e fama, 
ché quivi il corpo suo giace del tutto. 
In questo loco ancor rimase grama 
Adriana da Teseo tradita, 
cui ella troppo ed ello lei poco ama. 
Non pur con l’ago e con la calamita 
e con la carta passava quell’acque, 
ma come quel, ch’era meco, m’addita. 
Vidi Paros e il veder mi piacque 40 
per lo nobile marmo che vi cova; 
Paros fu detto quando Minoia tacque. 
La sarda pietra quivi ancor si trova, 
la qual tra l’altre gemme è compitata 
sí vil, che non so dire a che si giova. 45 
"Vedi Naxon, disse Solino, e guata 
ch’a Delos otto e diece miglia è presso: 
questa per nobil vin fu giá pregiata". 
Io la mirai ridendo fra me stesso, 
ricordandomi come Ovidio pone 50 
che, andando Bacco per quel luogo stesso, 
vide Ofelte e vide Etalione 
cader nel mare ed ebbri andare a gioco 
Libis, Proreus, Licabas, Medone. 
E vidi, ricercando a poco a poco, 55 
Citerea, la quale è cosí scritta 
per Venus, che d’amor vi pare un foco. 
Tra Samo e Miconum io vidi fitta 
Icaria, a la quale Icaro diè ’l nome: 
porto non ha, tanto è da’ sassi afflitta. 60 
Vidi Melos, dove si dice come 
nacque Iansone, Filomeno e Pluto: 
e quest’isola è tonda come un pome. 
E vidi Samo e quest’è conosciuto 
per Giuno, per Pitagora e Sibilla, 65 
piú che per cosa ch’io v’abbia veduto. 
Vidi Coos, dove la gran favilla 
nacque che fece lume a Galieno, 
per cui al mondo tanto ben distilla. 
E vidi, ricercando questo seno, 70 
Lenno, de la quale ancora si scrive 
come ogni maschio giá vi venne meno. 
Piú in vèr levante trovammo le rive 
di Rodo, dove quel de lo Spedale 
co’ Turchi in guerra il piú del tempo vive. 75 
Qui sospirai e dissi: "Ecco gran male: 
ché questi pochi son qui per la Fede 
ed a chi può di loro poco cale". 
Di lá partiti, sí come procede, 
navigavamo e io ponea in norma 80 
sempre il piú bello che quivi si vede. 
Noi trovammo uno scoglio in propia forma 
di nave e per novella dire udio 
che da quella d’Ulisse prese l’orma. 
Un sasso sta tra Tenedon e Chio, 85 
che Antandro è detto per quei del paese: 
capra mi parve, quando lo scoprio. 
Solino qui a ragionar mi prese 
l’altezza e la natura di monte Atto 
e durò in fin che de la nave scese. 90 
E seguia poi: "De la Grecia t’ho tratto; 
ma, perché chiaro ciascun punto copoli, 
è buono udir come ’l paese è fatto. 
Cinque ci son linguaggi e sette popoli 
con quei del mar, che vedi che son due: 95 
l’un le Ciclade e l’altro è Centopoli".
E qui fe’ punto a le parole sue.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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